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giovedì 4 giugno 2020

Pestilenze in età moderna. Il duro confronto fra scienza e pandemie a cominciare dal '500

Sulla scorta di una interessante studio di dottorato
condotta da un bravo ricercatore
dell'Università di Catania cercheremo di capire cosa
capitò in quei primi decenni di insediamento in terra
di Sicilia degli arbëreshe.

TERRITORIO, ECONOMIA E POPOLAZIONE 
NELLA SICILIA D’ETA’ MODERNA (1571-1577)
Dott. Salvatore Andrea Galizia 

Nel 1575 una terribile pestilenza divampò in tutta la Sicilia (e non solo) sconvolgendola per diversi anni. 
Si trattò della prima grande emergenza sanitaria in età moderna che l’isola dovette affrontare. Le informazioni che da una ricerca abbiamo potuto ricavare riguardano i centri più popolati che hanno conservato notizie e resoconti di quel flagello nonché descrizioni sulle iniziative di contrasto che che furono adottate.

Contessa verosimilmente fu pure colpita da quell'epidemia, ma per quanto ne sappiamo, non esiste traccia documentata su cosa qui si fece contro l'epidemia. Sappiamo qualcosa su cosa, qui, si fece con l'epidemia del 1918 ma, per quanto ci riguarda, nulla di quella del 1575.
Contessa allora doveva essere davvero marginale rispetto al contesto territoriale. Molto invece sappiamo su quanto accadde a Giuliana, Chiusa, Palazzo Adriano, Bisacquino e Corleone. Vasta documentazione esiste pure su Piana degli Albanesi.
Già in quel XVI secolo la peste costituì non solo un banco di prova per sondare l’efficienza dell’amministrazione siciliana e della scienza medica cinquecentesca, ma anche una fonte inesauribile di informazioni sulla Sicilia più remota, quella delle terre più desolate, delle realtà montane più impervie e sul tipo di umanità di quei giorni.

Il “mal contagioso”, così ne trattano le cronache, si presentò come un’epidemia fortemente contagiosa, letale e di tipologia del tutto differente da quelle conosciute fino a quel momento. Sembra di capire -leggendo le cronache- che somigliasse nelle sensazioni e percezioni umane, sia pure alla lontana, al covid 19 di questi nostri giorni.
Studiosi e storici dei secoli seguenti definirono quella epidemia in modo fin troppo convenzionale come “la peste del 1575”.

Non si sa con esattezza quando questa tragedia ebbe inizio ma i primi casi d’infezione si ebbero nei primissimi giorni del giugno 1575, allorché una galeotta (=Bastimento militare, di struttura snella e molto veloce), di ritorno da una razzia nelle coste di “barbarìa”, fece scalo prima a Messina, dove scaricò alcuni tessuti infetti, poi a Palermo. 

A Messina il morbo iniziò a diffondersi con estrema lentezza - qualche caso isolato che fece ben poca notizia -, mentre a Palermo il comandante della galeotta, già infetto, trascorse una notte con una meretrice, detta “la Maltesa”, prima di prendere il mare. 
La meretrice si ammalò e morì dopo 5 giorni ma, nel frattempo, aveva trasmesso l’infezione a un suo frequentatore, tale De Panicola, che a sua volta la trasmise alla sua famiglia. 

A Palermo queste prime morti non destarono particolari sospetti: i sintomi del male si confondevano facilmente con quelli di altre patologie e nei primi giorni di diffusione, si registrò un numero bassissimo di vittime (fino alla metà di luglio solo 150 decessi dovuti al contagio, un numero ritenuto contenuto), con molti degli infetti che addirittura guarirono; il che portò le autorità palermitane (come quelle messinesi prima di loro) a sottovalutare la realtà. Fin qui ci sembra di ripercorre i giorni di Febbraio/Marzo del governo Conte.

La galeotta incriminata era intanto già approdata a Sciacca dove vennero fatti sbarcare degli infermi e dove, nell’arco di pochissimi giorni, la città venne pesantemente invasa dal morbo, così come Palazzo Adriano e Giuliana contagiate dai viandanti. 
E se a Palermo l’infezione si sviluppava lentamente, stessa cosa non poté dirsi per Sciacca, Palazzo e Giuliana dove l’infezione attecchì subito con rapidità e decisa virulenza. Anzi, furono proprio alcune persone di queste città, a loro volta spostatesi a Palermo, a dare nuovo impulso alla diffusione del morbo nella capitale. 

Solo l’11 giugno le autorità presero atto della tragedia che correva per Palermo: i maestri razionali scrissero a Carlo d’Aragona informandolo del principio di infezione che dilagava in città mentre due giorni dopo, a seguito di una riunione dei medici cittadini, il protomedico del regno Giovan Filippo Ingrassia, denunciò la gravità della situazione (“gravi infirmitati che correvano alla città et si bene sia stato alquanto tardo l’aviso”). 
Ingrassia nella sua relazione fu subito chiaro: l’infezione era un male del tutto nuovo rispetto a quelli individuati in precedenza. Esso, diceva, si presentava con febbre alta e “bozzi” dello stesso colore della pelle (contrariamente ai “bozzi” della peste), e il contagiato se non guariva, moriva generalmente in 2-5, al massimo 7 giorni.
Da quel momento in poi il Terranova (fiduciario della corona di Spagna), coadiuvato dal protomedico Ingrassia diventò il principale punto di riferimento nella lotta contro il morbo.
Inizialmente l’attenzione del duca si concentrò quasi esclusivamente sulla situazione della capitale; dapprima ordinò di bruciare tutti i vestiti e i tessuti sospetti d’infezione e specialmente quelli della “donna cortigiana”, la Maltesa, poi, seguendo costantemente i consigli dell’Ingrassia, ordinò che le autorità cittadine ponessero particolare cura nel seppellire i cadaveri degli infetti fuori dalle mura cittadine, nel ripulire la città dalle carcasse degli animali morti (specie i cani e i gatti), dalle acque stagnanti e dalle paludi in quanto potenziali vettori di contagio. Ordinò infine che queste stesse norme dovevano essere applicate anche a tutti gli altri centri sospettati d’infezione.
(Segue)

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