Brevi dalla "Storia"
I Colonna, come in precedenza
i Gioeni ed i Cardona, non erano benefattori.
Negli ultimi decenni del Settecento la situazione misera dei contadini contessioti, degli arbëresh, era rimasta tale e quale quella dei loro antenati dei due/tre secoli precedenti.
Alcuni decenni prima di quel fine Settecento era stato dato, sempre a censo, un ulteriore feudo oltre a Serradamo e Contesse al ceto dirigente locale; non più agli arbëresh della prima ora, bensi alle famiglie che gli stessi baroni avevano fatto arrivare nello Stato di Kuntissa per curarvi i loro interessi feudali.
Ma questa è una storia su cui ci soffermeremo in seguito, a Dio volendo.
Qualcosa sul piano sociale/politico tuttavia cominciava a muoversi, quantomeno nell'aria, nello spirito dei tempi nuovi; a Kuntissa però gli echi non arrivavano o li sapevano cogliere solamente quelle famiglie del ceto dei "civili" che agli arbëresh si erano sopraggiunti.
L'Illuminismo
Bernardo Tanucci, politico e uomo di fiducia del re di Napoli Carlo di Borbone e di suo figlio Ferdinando IV, nonchè segretario di Stato della Giustizia e Ministro degli Affari esteri e della Casa Reale dal 1754 al 1776 aveva aperto le porte del potere borbonico all'aria dell'Illuminismo, ma le resistenze erano forti, ed erano impermeabili alle novità.
Dopo Tanucci fu Domenico Caracciolo a proporsi di tagliare le grinfie ai feudatari, non tanto per agevolare i sudditi ma per puntare ad una monarchia illuminata che accentrasse gli eccessivi poteri che soprattutto in Sicilia detenevano i "baroni".
Egli era vissuto a Parigi ed era stato amico dei D'Alambert, dei Diderot etc. ed assunse il vertice del potere borbonico nell'isola il 13 ottobre del 1781, dopo i vani tentativi riformatori del Tanucci.
Così il Caracciolo ebbe a scrivere il 21 dicembre 1781, a breve tempo dal suo insediamento, all'abate Ferdinando Gagliani, suo amico personale e noto economista di quel periodo storico (Chieti, 2 dicembre 1728 – Napoli, 30 ottobre 1787):
"Eccomi, caro amico,
relegato sur les arides bords de la sauvage Sicile, e sono occupato toto Marte a procurare il bene pubblico. Ma incontro difficoltà grandi e des entraves ad ogni passo, e forse le più forti derivano da un vizio del governo medesimo.
Tanti fori, tante giurisdizioni, tanti ordini e dispacci opposti, tanta debolezza e connivenza col ministero, tanta rilasciatezza di disciplina e tanto disprezzo delle leggi farebbero cadere le braccia al Cristo del Carmine. Oltre che, il paese per se medesimo è male organizzato. E' abitata la Sicilia da gran signori e da miserabili, senza classe intermedia, vale a dire è abitata da oppressori e oppressi, perchè la gente del foro servono qui d'istrumento dell'oppressore".
Da questo breve stralcio di lettera appare evidente che Caracciolo era determinato a riformare la società siciliana, il cui potere in quel fine settecento, era ancora integralmente in mano ai baroni. Qui da noi, a Contessa, in mano ai Colonna.
Caracciolo intendeva riformare quella realtà nel segno dell'assolutismo illuminato: trasferire il potere reale (economico soprattutto, istituzionale e gestionale) dai baroni al potere monarchico.
Una impresa impossibile. E quando qualcosa -per il corso della Storia- dovrà cambiare, saranno ancora i baroni a dettare i termini.
Chi vuole conoscere i perchè dell'impossibilità -di quei tempi- al cambiamento può leggere le vicende contessiote da più libri ormai in commercio e accorgersi che quelle vicende non erano solamente locali ma rispecchiavano un modello di società tipicamente siciliano, baronale.
Per chi ancora non lo avesse fatto noi suggeriamo di leggere il libro di Anton Blok "La mafia di un villaggio siciliano". Fa capire molte cose, che ancora oggi molti di noi non abbiamo capite.
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