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sabato 8 marzo 2014

Arbëresh. Come si impara a parlare? ... e a scrivere ?

di Paolo Borgia
- Come si impara una lingua? - Parlandola! E’ logico! 
Ma non basta. Prima di tutto bisogna ascoltarla e cercare di ripetere ciò che si ascolta. Tuttavia, anche se ciò è vero, ci sono intere comunità che la loro lingua la dimenticano… e continuano a parlare ma con un'altra lingua o addirittura con altre due lingue. 
Per esempio “te Hora” si dimentica l’arbrescio e si parla in siciliano ‘corsivo’ e in ‘nobile litisht’ – una sorta di letterale versione dall’arbrescio in italiano –. 
Anzi, di più: i giovani non parlano come i vecchi e gli intellettuali, o soltanto gli studenti universitari, non sanno quasi più parlare come e con gli altri. Più sono diligenti nello studio e meno sanno esprimersi come gli altri mortali. Cioè, l’espansione dinamica continuativa della conoscenza costringe la mente ad una radicale metamorfosi del linguaggio che sposta il suo baricentro espressivo dalla “concreta azione” alla “astratta concettualità”. L’homo protoarbrescius nella sua essenzialità fragile si spegne e in sua vece si sviluppa una drammatica iper-relazionalità globalizzata di nicchia snobistica. A monte, inoltre non possiamo dimenticare il siderale isolamento secolare in cui vissero le singole comunità paesane e subpaesane ed il recente fenomeno della scolarizzazione forzosa nella sola lingua di stato, tesa a sradicare le preesistenti culture. Sarà sufficiente qui ricordare come negli anni ’50 del secolo scorso c’era nella piccola borghesia isolana un senso di altezzosa vergogna per la propria lingua vernacola: la lingua del “popolino”, della gente “giù”. 
L’italiano come mimesi.

Per fortuna dalla Sicilia al Piemonte, dalla Sardegna alla Venezia Giulia si vanno moltiplicando iniziative per la valorizzazione dei beni culturali tra i quali spicca la lingua materna. 
L’alfabetizzazione italiana originò nel contempo il problema di come scrivere il “dialetto” e inevitabilmente fiorì una solitaria anarchia, che opera tuttora.

Come si scrive, dunque, una lingua che si  conosce da quando si è appena nati? 
La prima risposta è: - come si può!- . Negli anni ’60 ho avuto tra le mani quaderni di poesie arbresce, scritte alla bene-meglio  con alfabeto italiano modificato. Questo sistema lo usò anche Luca Matranga nel 1592 per il catechismo “E mbsuame e krështerë”. Ora tutto si riscrive con l’alfabeto unificato, nato giusto cento anni fa, e tutto fa parte della letteratura albanese. Da Buzuku a Kristoforidi a Fan Noli si leggono ma certo non sono da prendere come modello di “drejtshkrimi” (ortografia) i gluhës arbëreshe” e nemmeno shqipëtare.

Ci vuole molto coraggio  a studiare la grammatica arbresce da adulti – soprattutto quando non si sa parlare “arbërisht” –  ma se qualcuno si vuole armare e andare alla sua conquista trova il campo libero e senza contesa. Ci sono comunque gratuitamente a disposizione dei cittadini nelle biblioteche pubbliche grammatiche come “Udha e mbarë” di Giuseppe Schirò di Maggio, che in questi giorni è anche in visione a puntate su Facebook  sul blog  Shkruanj urtësisht  përgjithmonèarbërisht” (khttps://www.facebook.com/groups/mondo.albanese/).
Da “Arbitalia” si può scaricare del Dottor Gaetano Gerbino - Grammatica della parlata arbëreshe di Piana degli Albanesi -. Entrambe adatte per tutti gli Arbresci della Valle del Belìce e dei residenti a Palermo.

Se, però, posso permettermi  qualche suggerimento, innanzi tutto direi di non leggere mai una grammatica tutta d’un fiato ma di fermarsi per un lungo periodo a pensare all’alfabeto e alle parole: andare avanti e indietro sulla fonetica. Aumentare il proprio lessico e soprattutto sperimentare il “fjalëformimi” – la corrispondenza tra i termini primitivi e le parole derivate – per esempio: mas  >  masa > përmasa (misuro > massa > dimensione).
Il resto, le regole, i paradigmi c’è sempre tempo per conoscerle esplicitamente. Ciò che importa è apprendere parole nuove e affrontare la lingua con uno spirito gioviale, 
Sì! Il gioco della scoperta, della meraviglia nella intelligenza costitutiva di un formarsi spontaneo e popolare del mezzo con cui ci si relaziona. Alienare, poi, dalla propria mente quella folle idea che il proprio idioma paesano sia il non-plus-ultra, il “più perfetto” di tutti.

Porsi come obiettivo di cercare di comprendere le singole varianti sparse per l’Arberia. Rubare le parole degli altri per riusarle per donarle alla comunità, rendendola così più ricca e capace di esprimere più alti e sublimi pensieri. Questi non possono restare chiusi nello scrigno della mente a inaridirsi. Devono volare per dare nutrimento di vita alle tante spente attese, riaccendere la fede nell’uomo.
Paolo Borgia

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