di Paolo Borgia
- Come si impara una lingua? -
Parlandola! E’ logico!
Ma non basta. Prima di tutto bisogna ascoltarla e
cercare di ripetere ciò che si ascolta. Tuttavia, anche se ciò è vero, ci sono
intere comunità che la loro lingua la dimenticano… e continuano a parlare ma
con un'altra lingua o addirittura con altre due lingue.
Per esempio “te Hora”
si dimentica l’arbrescio e si parla in siciliano ‘corsivo’ e in ‘nobile litisht’
– una sorta di letterale versione dall’arbrescio in italiano –.
Anzi, di più:
i giovani non parlano come i vecchi e gli intellettuali, o soltanto gli
studenti universitari, non sanno quasi più parlare come e con gli altri. Più
sono diligenti nello studio e meno sanno esprimersi come gli altri mortali.
Cioè, l’espansione dinamica continuativa della conoscenza costringe la mente ad
una radicale metamorfosi del linguaggio che sposta il suo baricentro espressivo
dalla “concreta azione” alla “astratta concettualità”. L’homo protoarbrescius
nella sua essenzialità fragile si spegne e in sua vece si sviluppa una drammatica
iper-relazionalità globalizzata di nicchia snobistica. A monte, inoltre non possiamo
dimenticare il siderale isolamento secolare in cui vissero le singole comunità
paesane e subpaesane ed il recente fenomeno della scolarizzazione forzosa nella
sola lingua di stato, tesa a sradicare le preesistenti culture. Sarà
sufficiente qui ricordare come negli anni ’50 del secolo scorso c’era nella piccola
borghesia isolana un senso di altezzosa vergogna per la propria lingua
vernacola: la lingua del “popolino”, della gente “giù”.
L’italiano come mimesi.
Per fortuna dalla Sicilia al Piemonte, dalla Sardegna alla Venezia Giulia si
vanno moltiplicando iniziative per la valorizzazione dei beni culturali tra i
quali spicca la lingua materna.
L’alfabetizzazione italiana originò nel contempo
il problema di come scrivere il “dialetto” e inevitabilmente fiorì una
solitaria anarchia, che opera tuttora.
Come si scrive, dunque, una lingua
che si conosce da quando si è appena
nati?
La prima risposta è: - come si può!- . Negli anni ’60 ho avuto tra le
mani quaderni di poesie arbresce, scritte alla bene-meglio con alfabeto italiano modificato. Questo
sistema lo usò anche Luca Matranga nel 1592 per il catechismo “E mbsuame e
krështerë”. Ora tutto si riscrive con l’alfabeto unificato, nato giusto cento
anni fa, e tutto fa parte della letteratura albanese. Da Buzuku a Kristoforidi
a Fan Noli si leggono ma certo non sono da prendere come modello di “drejtshkrimi”
(ortografia) i gluhës arbëreshe” e nemmeno shqipëtare.
Ci vuole molto coraggio a studiare la
grammatica arbresce da adulti – soprattutto quando non si sa parlare “arbërisht”
– ma se qualcuno si vuole armare e
andare alla sua conquista trova il campo libero e senza contesa. Ci sono comunque
gratuitamente a disposizione dei cittadini nelle biblioteche pubbliche grammatiche
come “Udha e mbarë” di Giuseppe Schirò di Maggio, che in questi giorni è anche in
visione a puntate su Facebook sul blog “Shkruanj urtësisht përgjithmonèarbërisht” (khttps://www.facebook.com/groups/mondo.albanese/).
Da “Arbitalia” si può scaricare del Dottor Gaetano Gerbino - Grammatica della parlata
arbëreshe di Piana degli Albanesi -. Entrambe adatte per tutti gli Arbresci
della Valle del Belìce e dei residenti a Palermo.
Se, però, posso permettermi qualche suggerimento, innanzi tutto direi di
non leggere mai una grammatica tutta d’un fiato ma di fermarsi per un lungo
periodo a pensare all’alfabeto e alle parole: andare avanti e indietro sulla
fonetica. Aumentare il proprio lessico e soprattutto sperimentare il “fjalëformimi”
– la corrispondenza tra i termini primitivi e le parole derivate – per esempio:
mas >
masa > përmasa (misuro > massa > dimensione).
Il resto, le regole, i paradigmi c’è sempre tempo
per conoscerle esplicitamente. Ciò che importa è apprendere parole nuove e affrontare
la lingua con uno spirito gioviale,
Sì! Il gioco della scoperta, della
meraviglia nella intelligenza costitutiva di un formarsi spontaneo e popolare
del mezzo con cui ci si relaziona. Alienare, poi, dalla propria mente quella
folle idea che il proprio idioma paesano sia il non-plus-ultra, il “più
perfetto” di tutti.
Porsi come obiettivo di cercare di comprendere le
singole varianti sparse per l’Arberia. Rubare le parole degli altri per
riusarle per donarle alla comunità, rendendola così più ricca e capace di
esprimere più alti e sublimi pensieri. Questi non possono restare chiusi nello
scrigno della mente a inaridirsi. Devono volare per dare nutrimento di vita
alle tante spente attese, riaccendere la fede nell’uomo.
Paolo Borgia
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