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giovedì 5 dicembre 2024

Mulini di Bagnitelle e mulini altri

Dal regime feudale ai tempi più recenti

  I mulini ad acqua, di cui sul blog è possibile rintracciare più pagine, non possono che trovare ancora un poco di spazio (pagine), quanto meno per giustificare quegli appellativi, che da ragazzo frequentemente venivano appiccicati a chi scrive,  per additarlo come “figlio del mulinaro”.  

   I mulini di cui i Clesi, storicamente, e però  in tempi diversi, sono stati  gestori sono: quello di Bagnitelle (in epoca feudale/latifondistica) il cui impianto era però di pertinenza delle signorie locali che nel corso dell’era moderna si sono susseguite (Cardona, Gioeni, Colonna) e che veniva gestito conseguentemente in nome e per conto della Baronia. Il che significa che l’impianto era una delle pertinenze  dell’Universita’ locale (=oggi sarebbe il Comune) che lo affidava in gestione alla corporazione di mestiere, localmente rappresentata esclusivamente dai Clesi.

Il mulino -già  dei Clesi- di c.da
Vaccarizzotto in territorio di 
Bisacquino è  oggi proprietà di
Pino Colca, che con impegno e
diligenza ne ha conservato i tratti
originari. Sullo sfondo si coglie la
grande “botte” che accumulava
l’acqua che sarebbe servita da 
forza-motrice.


   Con l’abolizione del feudalesimo (1812), viene meno il regime professionale-corporativo ed i Clesi (il cui cognome è anagraficamente diffuso in più paesi belicini, dove nel tempo gestivano -appunto- dei mulini) assumono in conduzione diretta, ossia in loro nome, i molini inizialmente in affitto,  in più paesi della Valle del Belice (uno di essi, nel post Unità, è stato quello di Tarucco-Bisacquino) fino ad arrivare sul finire dell’Ottocento, sempre con i Clesi di Contessa -direttamente, col bisnonno di chi scrive-  a comprare due impianti, quello di Alvano e quello di Vaccarizzotto (entrambi sorgevano in territorio di Bisacquino). Questi due impianti, in periodo feudale, erano appartenuti al Monastero di Santa Maria del Bosco e lo Stato liberale post-risorgimentale li mise in vendita, all’asta. Il mulino di Tarucco, fu acquistato da una famiglia di Bisacquino (Lo Voi) che lo affidò in affitto ai Clesi (al ramo dei mulinara) di Contessa, gli altri due (Alvano  e Vaccarizzotto) fino agli anni cinquanta del Novecento furono gestiti direttamente dai Clesi.

  Gli antichi mulini ad acqua

Nel loro operato erano posti a cascata lungo i corsi d’acqua; qui giungevano i contadini con i muli carichi di grano e dovevano attendere a volte lunghe ore per il loro turno di macina.

Il mugnaio era colui che  presiedeva al rito di trasformazione del prezioso cereale in farina, regolando sia la quantità di grano da molire, sia la giusta pressione da dare alle macine per ottenere, in maniera empirica ma sapiente, la “giusta granulosità della farina che doveva essere né troppo fine, né troppo semulosa”.

L’acqua convogliata attraverso un canale in muratura, detto “saia”, accumulata e scaricata nella “botte di carico”, che poteva raggiungere anche dieci metri di altezza, raggiungeva il locale inferiore dell’apparato detto “Guarraffo” dove veniva indirizzata a forte pressione da una canaletta detta “cannedda” sulle pale della ruota orizzontale a raggiera.

Sotto la spinta dell’acqua, nel locale superiore dove alloggiava il vero e proprio apparato molitorio, attraverso un giuoco di ingranaggi, la macina soprana ruotante (rotore) su quella sottana fissa “statore”, triturava la granaglia che veniva dai sacchi riversata nella tramoggia (trimoia) e convogliata nel foro centrale della mola soprana. 

Il grano man mano che veniva molito dalle macine, opportunamente scalpellate con opportuni incavi disposti a spirale, favorivano la fuoruscita della farina che veniva raccolta in un apposito accumulatore (cascia).


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