Abbiamo evidenziato come la riforma elettorale del 1882 aveva
allargato il diritto elettorale ad una iniziale fetta della classe operaia, concentrata prevalentemente
–se non esclusivamente- nelle città del Nord.
La nuova legge sostituiva il “sistema fondato esclusivamente sul censo”
col quello basato oltre che sul censo sulla “capacità” formativa (sapere
leggere e scrivere). Abbiamo inoltre evidenziato come attraverso la nuova legge
trovano spazio nel Parlamento le forze che hanno propositi “innovativi”
rispetto alla società liberale vigente. Vengono eletti deputati che i resoconti
parlamentari definiscono dell’Estrema; si
tratta di un pugno di repubblicani che vogliono sostituire il regime dei Savoia
con una Repubblica (mazziniana) e pongono all'attenzione della gente la questione
istituzionale, ed un paio di
socialisti che invece vogliono apportare correttivi alla società borghese,
vogliono porre in primo piano nella vicenda della Nazione la questione sociale.
In poche parole quella legge consenti l’immissione nell’arena politica di ceti
della società fino ad allora esclusi dalla vita politica attiva.
Al di là della limitata rappresentanza portata in Parlamento
da queste formazioni dell'Estrema si trattò di una svolta che rimescolò le carte: operai ed artigiani non erano
più solamento oggetto di manovra dei potenti ma facevano arrivare mediante la
pattuglia dell’Estrema direttamente
in Parlamento la loro voce.
Anche con questa nuova legge elettorale l’Italia di fine
Ottocento continuava comunque a restare
una Italia politica ristretta. Possiamo solo dire che la maglia era stata tuttavia aperta e le forze
che si sentirono minacciate dal nuovo che covava, non tanto in Parlamento
quanto nella società, tentarono inutilmente di tornare indietro, inutilmente.
La politica crispina era sicuramente liberale, ma era frutto
di una classe politica che aveva dedicato la propria vita a costruire uno
stato, una Italia unica e tendenzialmente stabile e forte.
Le forze che attorno allo statista siculo-arbereshe si
coagulano puntarono ad
-una politica protezionista sul piano commerciale,
-imposizione dell’autorità
centrale dello Stato al fine di sopprimere qualsiasi potenziale
contestativo della società civile.
L’intero periodo crispino –culminato fra il 1887 ed il 1896-
è spesso definito “democratico-autoritario”. Il Crispi ribelle, garibaldino,
al momento di reggere in prima persona il timone dello stato è in verità un
Crispi alla Bismarck, un Crispi bonapartista. Egli riuscì a centralizzare lo
Stato ma non portò a compimento nessuno dei programmi socio-economici dell’antica
formazione garibaldina. Il fallimento
crispino dell’antica vocazione garibaldina lo si coglie nella mancata riforma
agraria in Sicilia nel ’1893-94 -quando il movimento socialista dei “fasci
siciliani” spinge per l’abolizione del latifondo-. La vicenda repressiva del Movimento dei Fasci Siciliani mostra per
intero l’inconsistenza del progressismo di Crispi.
Il Crispi liberale di Sinistra, quando raggiunge i vertici
dello Stato, in realtà non fa altro, mediante il processo di accentramento del
potere statuale, che perfezionare quanto la Destra storica, la destra liberale
aveva avviato nei primi anni dell’Unità.
La vicenda di Crispi, da progressista a quasi reazionario, che sarà seguita da tantissimi uomini politici del Novecento e del Terzo Millennio.
Benefici effetti della legge elettorale del 1882
Fino ad allora, al 1882, la classe dirigente del paese apparteneva esclusivamente all’aristocrazia,
ai proprietari latifondisti. La loro egemonia sulla società era garantito dalla
coincidenza perfetta che esisteva fra
società civile da loro plasmata e società politica a cui solo loro
accedevano.
Il nuovo criterio elettorale (criterio meritocratico dell’istruzione)
spostò il meccanismo di selezione della classe politica. Non era più sufficiente
il possesso della terra ma bastava la qualificazione professionale propria,
personale.
Non è cosa da poco.
A Contessa Entellina fino al 1882 gli
elettori erano solamente i grossi proprietari terrieri latifondisti che avevano potuto
comprare i feudi del grande “fallimento” della famiglia Gioeni,
quando nel 1812 (ed anni seguenti) l’intero territorio comunale fu preda di
acquisti e divisioni. Divisioni comunque limitate a pochi ambienti sociali. Da quell'antico fallimento a giovarsi -a Contessa- furono le famiglie Genovese, LoJacono e poche altre.
Nel referendum istituzionale del 1860 (annessione ai Savoia)
a Contessa su una popolazione di 3.500 abitanti votarono un centinaio di
elettori, tutti –o quasi- proprietari (pseudo baroni xx, baroni yy) residenti a Palermo che si
erano immessi -già in epoca borbonica- nella proprietà dell’antico dominio dei
Cardona-Colonna-Gioeni.
Dopo la legge 1882 a Contessa, ma in tutto il Meridione
accade il medesimo fenomeno, si assiste al sia pure lento declino dell’antico e
storico ceto baronale.
Le famiglie “civili” degli ex-domini baronali che fino ad allora erano state l’anello di
congiunzione fra il feudo (Vaccarizzo, soprattutto da noi) e la comunità locale su cui
coltivavano l'ascendente, avevano infatti posto
per secoli la loro istruzione e
credibilità al servizio dei Gioeni-Mortillano-Pecoraro capiscono che mediante la possibilità di "esprimere il voto" possiedono
una forza straordinaria e possono anche non votare per gli
antichi feudatari-latifondisti, da cui da secoli si sentivano imbrigliati.
Queste poche famiglie -istruite- di Contessa Entellina cominciano a votare infatti per personaggi quali Finocchiaro
Aprile ed altri esponenti (spesso legati
alla mafia) e non sempre per i baroni di un tempo.
A questo punto accade qualcosa di non previsto dall'antica classe liberal-agraria.
I nuovi parlamentari non di
estrazione baronale nel tempo cominciano a divenire “ceto professionale”, gente
che vive di politica, di intrecci di potere, di saccheggio alle banche (che con frequenza falliscono).
Si, la legge del 1882 non estese il voto a tutti gli italiani maggiorenni, ma fu
avvio per il passaggio dalla “casta dei baroni” alla “casta dei scilipoti”.
(Continua)
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