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domenica 1 maggio 2022

Alle radici del Cristianesimi

Interrogazioni sul Cristianesimo

di Gianni Vattimo (Filosofo)

Pietrangelo Sequeri(Teologo, scrittore, musicista)

Giovanni Ruggeri (Giornalista)

Giovanni Ruggeri: Smarriti e attoniti, continuiamo a ospitare nei nostri pensieri, o nei nostri ricordi, il nome e la parola "Dio". Diciamo "il nome e la parola", perchè abbiamo timore, forse pudore, a pronunciare semplicemente queste tre lettere -brevi come un soffio, lunghe come l'infinito- che, anziché suscitare o consentire alcuna facile sicurezza, sono fonte di permanente inquietudine, quasi che ad esse sia inestricabilmente e originariamente avvinghiato il sospetto che "umana, troppo umana" possa essere la loro natura. Il comandamento  biblico "Non pronunciare il nome di Dio invano", suona oggi come paradossale -quale che sia la sua filologicamente corretta traduzione - se non addirittura sarcastico: il "nome Dio" , infatti, pare una di quelle realtà che soltanto "invano"  possono ormai venir pronunciate, dal momento che la "morte di Dio", quali che siano le sue "cause cliniche", si presenta come un evento sotto tanti aspetti irreversibile.

D'altra parte, con forza altrettanto incontenibile, e nel modo di un autentico "roveto ardente" che brucia senza mai consumarsi, la parola "Dio" si riaffaccia -tenace e incontrastabile, pur senza essere come tale, il più delle volte,pronunciata o riconosciuta - lì  dove l'uomo si sporge sull'abisso insondabile della propria identità, o si espone all'immensità del silenzio onniabbracciante da cui sorge la domanda sulla propria origine e destino. Una realtà "silente", e spesso anonima, che non si lascia annichilire, demitizzare, decostruire da nessun progetto critico, si attesta incontrastabilmente come "presenza"  al tempo stesso evidente e inquietante nella sua inafferrabilità.

La parola "Dio" non sembra così facilmente liquidabile. Le cosiddette "teorie critiche della religione", quale che sia il loro procedimento e disegno, riescono a mettere in luce solo una faccia della medaglia, ossia il basamento antropologico di una certa espressione del divino, mentre il "volto" e la "consistenza" ultima della "realtà", che in tali espressioni e figurazioni si annuncia, permangono insondati e indeterminati, scaturigine inafferrabile e terminazione irraggiungibile che nessuna teoria riesce ad afferrare e racchiudere nelle maglie del proprio disegno.  La domanda sull'uomo e sulla sua origine, sulla sua identità e dinamica vitale, riesce a mettere in luce , nei suoi inoltramenti conoscitivi più avanzati, alcune funzioni di base che gettano fasci di luce sull'uomo come "realtà desiderante", "essere-della-mancanza" e della nostalgia...; ma la domanda rimane aperta , e nessuno che abbia conservato la consapevolezza della relatività e finitezza  del proprio conoscere  ha mai preteso di determinarne il senso.

"Dio", in ogni caso, non può essere il nome assegnato al punto oscuro e inoltrepassato dell'umana, limitata conoscenza, e d'altra parte, in senso inverso, non c'è conoscenza che oggi possa legittimamente pretendere di dirci: "Ecco, ciò che tu chiami -Dio-, in realtà è,  senza che tu lo sappia, questo o quello...". Allora "Dio" continua a rimanere per noi una domanda, una provocazione, forse un ricordo: in ogni caso - e in questo senso sì - una "realtà" vitale, di cui d'altra parte non conosciamo né volto né nome.

L'avvio della nostra meditazione è la presa d'atto della condizione in cui pensiero e situazione esistenziale si trovano: lo smarrimento dinnanzi a una parola -"Dio"- che sotto tanti aspetti è divenuta impronunciabile, e l'impossibilità di eludere ed eliminare questa stessa parola dall'abisso sconcertante dell'esistenza, da quello spazio aperto che l'esistenza stessa è. Per questo la nostra prima domanda (prima non solo in senso cronologico) verte sul significato della parola "Dio". Quale senso si può riconoscere a questa breve  e immensa parola, che Martin Buber ha definito la "più sovraccarica di tutto il linguaggio umano"?

(Segue)

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