Antonio Gnoli (Repubblica)
Umberto Eco è morto. E il mondo perde uno dei suoi più importanti
uomini di cultura contemporanei. Aveva 84 anni, è stato scrittore, filosofo,
grande osservatore ed esperto di comunicazione e media. La conferma della
scomparsa dell’autore de “Il nome della Rosa”, “Il pendolo di Foucault”,
“L’isola del giorno prima” fino all’ultimo, “Numero Zero”, è stata data dalla
moglie Renata e dal figlio Stefano a Repubblica ieri sera tardi. La morte è
avvenuta alle 22.30 nella sua abitazione milanese. Due
o tre cose venivano in mente incontrando Umberto Eco: il whisky, i calembour e
il Medioevo. Le prime due appartenevano alla sua natura giocosa e mondana,
l’ultima era il frutto di una strepitosa curiosità mentale. Quel mondo remoto,
segnato dalla superstizione e dalle nevrosi collettive, lo affascinava. Può
stupire la dedizione a quei secoli, ingiustamente definiti bui, in un uomo che
non ha mai dubitato della propria natura illuminista. Una spiegazione si ricava dal rapporto che ebbe con Luigi
Pareyson, i cui vasti interessi filosofici spaziavano dalla cultura antica a
quella contemporanea. Il professore di Torino individuò in Eco (nato ad
Alessandria nel 1932) e in Gianni Vattimo gli allievi più brillanti ai quali
affidare le ricerche più ambiziose e remote. A Vattimo fu chiesto di occuparsi
di Aristotele, mentre Eco venne indirizzato sull’estetica di Tommaso d’Aquino.
Erano allievi mentalmente agili, spregiudicati, ambiziosi. Provenivano dal
mondo cattolico. Arrivavano dalla provincia. Ma si intuì che avrebbero fatto molta
strada. Il rapporto con Pareyson fu per Eco fondamentale. Con la libera docenza
le loro strade si divisero. Fu solo negli ultimi mesi di vita (Pareyson si
spense nel 1991) che avvenne il riavvicinamento: «Compresi che, per quanto
forti fossero le divergenze culturali, era pur sempre stato il mio maestro. Se
ci fai caso, mi disse, tutti i miei romanzi sono come un Bildungsroman: c’è un
giovane che apprende da un legame formativo con un anziano. È la ragione per
cui ho fatto il professore e resto in contatto affettuosissimo con tutti i miei
studenti». A quelle parole, pronunciate con una certa nostalgia, mi venne in
mente il rapporto tra Guglielmo e Adso ne Il nome della rosa (1980), il romanzo
che gli cambiò la vita ma non il modo di pensare. Dopotutto, che cosa fu quel
folgorante esordio narrativo se non anche un modo di tornare ai temi filosofici
che gli erano più congeniali? Nel romanzo si sforzò di pensare come un uomo
medievale. Immaginò, lasciandosene ammaliare, che l’uomo medievale fosse preda
di oscure nevrosi alimentate da un’endemica condizione di angosciosa
insicurezza. Per certi versi simile a quella nella quale oggi versiamo. Eco ne
immaginò un vertice accattivante nella figura di Guglielmo di Baskerville. C’è
da dire che Il
nome della rosa ribolle di araldica medievale, di simbologie minacciose, di
contese teologiche, di enigmi interpretativi e di immagini mostruose. Da queste
ultime Eco si sentiva attratto. Al punto che la riflessione sulla bellezza — di
cui si era a lungo occupato secondo i canoni classici dell’antichità — non
lasciava fuori il gusto per il deforme e il difforme. Fu, insomma, consapevole
che la cultura medievale — affascinata dal prodigioso ma, al tempo stesso, dal
difforme e dall’insolito — aveva fornito le basi a un nuovo modo di percepire
la realtà e le sue rappresentazioni. Qualcosa di molto simile immaginò per la
nostra contemporaneità, afflitta anch’essa dal disordine e dall’irregolare. Eco amava mescolare generi
letterari ed epoche storiche, padroneggiando con abilità borgesiana l’universo
dei libri e i suoi segreti. Tra le tante cose, fu anche un bibliofilo raffinato
e competente. Come pochi seppe giocare con la realtà. Seppe affrontarla nei
suoi toni alti e bassi. Nelle sue paradossalità e infingimenti. Pensava che le teorie
del falso e del vero non fossero prerogativa del mondo contemporaneo. E non
fosse di nostra esclusiva pertinenza culturale la loro indistinzione. Il
Medioevo aveva conosciuto la pratica di una verità riconducibile a Dio.
Tuttavia, Dio non sempre era presente e in agguato c’erano i demoni pronti a
confondere la mente dei logici medievali. Certo, i processi di falsificazione
attuati dal mondo contemporaneo — sia nell’universo politico che in quello
mass-mediologico che ben conosceva grazie alla sua esperienza in Rai nei primi
anni Cinquanta — toccano solo in minima parte i problemi di fede e di credenza
che l’ingenuità medievale aveva posto al centro del proprio universo. E chissà
con quale sdegno Tommaso o Agostino avrebbero reagito alla messa in discussione
del concetto di autenticità. A volte lo scrittore mostrava insofferenza verso
chi liquidava i suoi lavori più popolari come il frutto evanescente della
postmodernità. Al contrario, la sua mente era quanto di più moderno si potesse
immaginare. Enciclopedica, classificatoria, erudita, paradossale. Giocosa. Fu
tra i fondatori del Gruppo 63 insieme a Nanni Balestrini, Oreste Del Buono e
Angelo Guglielmi, uno dei rari movimenti di neoavanguardia nell’Italia di
quegli anni e poi fondatore del Dams, altro esperimento inconcepibile di
trasformare in disciplina accademica arti e materie non allineate. Il tutto
senza mai perdere l’ironia. Colse nel riso una qualità esclusivamente umana.
Capace di allontanare l’uomo dall’idea di morte. Descrisse Rabelais, che congiunse
il mondo medievale con il moderno, come il più straordinario interprete
dell’ilarità eversiva. In questo richiamo al mondo medievale Eco rintracciava
le radici stesse dell’Europa. Non solo nelle acquisizioni cristiane, non solo
nelle mire espansioniste che l’Occidente cominciò a darsi con le Crociate e poi
attraverso i primi viaggi; ma anche mediante la riscoperta delle conoscenze
filosofiche antiche. Il paradigma medievale fu la stella che orientò il suo
cammino. Perfino nei rapporti con Joyce, forse lo scrittore contemporaneo che
ha amato più di ogni altro, Eco misurò la vicinanza con il Medioevo. La
devozione che il grande dublinese ebbe per quei secoli — per Tommaso e la
scolastica, come pure per Dante — furono la ragione di un segreto rispecchiamento.
Un’idea seminale che lo avrebbe accompagnato per tutto la vita. Tra i grandi
meriti di questo intellettuale c’è anche lo straordinario interesse che le sue
opere hanno suscitato a livello internazionale. Fu così che l’Italia, quasi
d’improvviso, apparve grazie a lui, un paese culturalmente meno asfittico e
deprimente. Egli stesso si meravigliò del grande clamore che il suo nome stava
producendo. L’ironia lasciò il posto a una sottile preoccupazione. Come se
tutto ciò distogliesse dai veri compiti dello studioso di semiotica e di
filosofia che nel corso dei decenni ci ha regalato saggi importanti, su tutte
le sue variegate materie di studio: da Opera aperta (1962) ad
Apocalittici e integrati (1964); da La struttura assente (1968) a Trattato di
semiotica generale (1975); fino alle sue raccolte di articoli, come quel Diario
minimo (1963) che contiene due dei suoi scritti più noti al grande pubblico,
Fenomenologia di Mike Bongiorno ed Elogio di Franti. E poi ci sono le tante
Bustine di Minerva disseminate, negli anni, sull’Espresso, amatissime dai
lettori. E naturalmente i romanzi successivi a Il nome della rosa, come Il
pendolo di Foucault (1988), L’isola del giorno prima (1994), Il cimitero di
Praga (2010) e l’ultimo, Numero zero, pubblicato nel gennaio dello scorso anno.
Ma questa produzione letteraria recente non ha esaurito la vitalità di Eco.
Perché la sua ultima grande avventura è cominciata lo scorso novembre, quando
con il direttore editoriale Elisabetta Sgarbi e un folto gruppo di autori
italiani e internazionali ha lasciato Bompiani, nel pieno della fusione tra
Mondadori e Rcs, per fondare una nuova casa editrice, La Nave di Teseo. Ed è
davvero triste che non abbia fatto in tempo a vederla salpare.”"
Dino Messina (Corriere della
Sera)
“”Umberto Eco si è spento ieri sera, alle 22.30 nella sua
abitazione milanese. Aveva da poco compiuto 84 anni, essendo nato ad
Alessandria il 5 gennaio 1932. Negli ultimi giorni le voci su un suo aggravarsi
dello stato di salute si erano inseguite tra allarmi e smentite. Gli amici più
cari avevano minimizzato ma il timore che quella forma affettuosa di protezione
nascondesse qualcosa di serio era ormai condiviso e conosciuto da tanti.
Scrittore, semiologo, filosofo, saggista, docente universitario, operatore
culturale, Umberto Eco è stato tante cose, ma è stato soprattutto un grande
innovatore. In qualche modo oggi sembra giusto dire che Eco ha contribuito a
cambiare la cultura italiana più di qualunque altro intellettuale. E che avere
il coraggio, più di cinquant’anni fa, di mettere la propria firma a un saggio
su San Tommaso e poi a uno su Mike Bongiorno, era il segno di un cambiamento
che non avremmo più potuto e voluto fermare. Nemico
dell’improvvisazione, dell’approssimazione, maniaco della precisione, Umberto
Eco, scomparso ieri nella sua casa di Milano in Foro Buonaparte, riceveva i
suoi intervistatori che arrivavano da mezzo mondo nell’appartamento che guarda
il Castello Sforzesco e il Parco Sempione. I suoi modi cordiali, il tratto di
una giovialità straordinaria rendevano simpatiche un’erudizione e una cultura
sterminate. Nella biblioteca di casa, dove raccoglieva rarità bibliografiche,
classici della filosofia e della letteratura, fumetti, saggi di semiologia,
riviste, c’erano naturalmente anche tutte le sue opere, tradotte in decine di
lingue. Il suo Trattato di semiotica generale (Bompiani, 1975) è
considerato un testo classico nelle università di mezzo mondo, a cominciare
dagli Stati Uniti, dove Umberto Eco ha a lungo insegnato, dividendo l’impegno
accademico con l’Università di Bologna, dov’era stato tra l’altro direttore del
Dams e poi del Corso di Laurea in scienze della comunicazione. Nato
ad Alessandria il 5 gennaio 1932, Eco si era laureato all’Università di Torino
con Luigi Pareyson, il maestro che non aveva mai smesso di citare, con una tesi
sull’estetica in San Tommaso d’Aquino, che poi divenne il suo primo libro. Accanto
agli studi accademici, già dal 1954, anno della laurea, Umberto Eco unì
l’impegno militante nell’industria culturale: quell’anno assieme a Furio
Colombo e Gianni Vattimo vinse un concorso in Rai. Quell’esperienza era il
primo passo di quel continuo esercizio tra la cultura «alta» e la cultura
«bassa» che sarebbe stato uno dei tratti distintivi della biografia culturale
di Umberto Eco. L’esperienza in Rai diede al filosofo l’ispirazione per uno
degli articoli culturali più significativi del secondo Novecento, Fenomenologia
di Mike Bongiorno . Era il 1961, l’inizio di un’analisi con gli strumenti della
filosofia e della semiologia della cultura di massa: tra i titoli più famosi,
che ebbero un successo internazionale, Diario minimo , tradotto in inglese con
il titolo divertente How to Travel with a Salmon e Apocalittici e integrati ,
un titolo di cultura alta che sarebbe entrato a far parte del linguaggio
corrente. Protagonista del «Gruppo 63», con il saggio Opera aperta , Eco
dette una spinta allo svecchiamento culturale del Paese. Seguirono una serie di
studi che l’avrebbero confermato come il fondatore della semiologia italiana
oltre che uno dei più affermati studiosi di comunicazione nel mondo. Con
un curriculum di questo tipo, il mondo accademico italiano reagì con un certo
stupore, a volte con disappunto misto a invidia, alla pubblicazione nel 1980 di
un romanzo giallo, destinato a diventare uno dei bestseller più di successo di
tutti i tempi, “Il nome della rosa”, che finora ha venduto nel mondo circa
trenta milioni di copie. Una struttura da giallo classico impastata di
filosofia e conoscenza storica del Medioevo. Seguirono nel 1988 “Il Pendolo di
Foucault”, sui Templari e la sindrome del complotto, “L’isola del giorno prima”
(1994), Baudolino (2000, (a misteriosa fiamma della regina LOana”, “Il cimitero
di Praga” (2010), in cui affrontò il tema dell’antisemitismo e “Numero zero”,
l’ultimo romanzo, uscito a gennaio dell’anno scorso in cui ha messo alla frusta
i limiti del giornalismo contemporaneo. Ogni
uscita editoriale di Umberto Eco era un avvenimento non solo per il mondo
italiano, ma per l’editoria internazionale. Dopo il successo incredibile del
“Nome della rosa”, per il successivo romanzo, ci fu un gioco alle anticipazioni
giornalistiche che irritarono non poco il professore. Sicché per il terzo
romanzo, “L’isola del giorno prima”, nel 1994 venne organizzato un lancio internazionale
in una enorme sala del Frankfurter Hof durante l’annuale edizione della
Buchmesse. Le tirature iniziali era ormai da capogiro: si partiva da centinaia
di miglia di copie. Umberto Eco era uomo di passioni e di fedeltà. Per tuta la vita,
come molti grandi autori, era rimasto legato alla casa editrice che l’aveva
lanciato, la Bompiani. Quando alla fine dell’anno scorso il glorioso marchio
editoriale è stato ceduto assieme a tuta la Rcs libri alla Mondadori, Eco ha
deciso di accompagnare Elisabetta Sgarbi nell’avventura di una nuova casa
editrice, La Nave di Teseo. Un’impresa in cui ha investito una cospicua somma e
in cui è stato chiamato a collaborare anche il figlio Stefano. Umberto
Eco trovava il tempo, accanto ai tanti impegni, di collaborare ai grandi
giornali italiani. Aveva scritto per “Il Giorno, “La Stampa”, era stato tra le
grandi firme della terza pagina del Corriere della sera e da anni scriveva per
“la Repubblica”. Era sua una delle rubriche più di successo dei settimanali
italiani, “La bustina di Minerva” che concludeva ogni settimana e poi ogni
quindici giorni, i numeri del’”Espresso”. ”"
Stefano Bartezzaghi
(Repubblica) “
”«E poi Umberto mi ha detto che non ho la libido docendi». Così
suona la battuta con cui il protagonista dei Fratelli d’Italia di Alberto
Arbasino illustra i propri rapporti, catastrofici, con il mondo
dell’università. Quell’Umberto sarà stato sicuramente Eco. Tutto il mondo lo ha
conosciuto come scrittore erudito ma avvincente, a partire dal Nome della Rosa,
pubblicato nel 1980 (come quasi tutti i suoi libri, da Bompiani). In
realtà era già molto noto, e non solo in Italia, come brillante critico e
protagonista delle comunicazioni di massa (televisione, giornali, editoria
libraria). Aveva animato polemiche culturali, contribuito a svecchiare il
dibattito italiano importando testi e idee provenienti da settori disparati
(teoria dell’informazione, linguistica, massmediologia, strutturalismo,
cognitivismo, avanguardie letterarie e artistiche); aveva colorato le plumbee pagine
della pensosità nazionale con i giochi del suo funambolismo satirico e
parodico, dai pastiche all’enigmistica; aveva stabilito una rete
intercontinentale di conoscenze e rapporti intellettuali, estesa dal Canada, al
Brasile all’attuale Estonia e contribuito a fondare una disciplina tanto
rigorosa quanto eclettica: la semiotica. Tutti
sapevano che, tra le altre cose, Eco era anche un professore, titolo che in
Italia può apparire quasi formale, come venir chiamato «gentiluomo» («dottore»
invece equivale a «buon uomo»). Per Eco era diverso. Solo chi è stato suo
studente probabilmente ha percepito quanto contasse la libido docendi, che
possedeva — lui sì — in massimo grado. La verità è che Umberto Eco è stato
professore prima e molto più di ogni altra cosa. Nella sua bibliografia, fatta
di titoli passati in proverbio, il più umile e il più autobiografico (ma anche
uno dei più preziosi) è certamente il Come si fa una tesi di laurea, del 1975. Io
l’ho incontrato per la prima volta nel novembre del 1981, all’Università di
Bologna. Voci di corridoio insinuavano che si facesse regolarmente sostituire
dai suoi assistenti, distratto dal lancio internazionale del Nome della Rosa
(che, a un anno dell’uscita, stava passando dallo status di inatteso bestseller
alla dimensione allora inedita di megaseller planetario). Ma non era vero
niente. All’università Eco si sentiva come a casa propria. Dentro a quelle
mura era un docente e non una star (in quegli anni non ho mai visto nessuno
chiedergli di autografare il romanzo): bastava bussare alla sua porta per
essere ricevuti e gli studenti venivano trattati come colleghi juniores. Eccolo
infatti irrompere nell’aula affollata, dove per anni l’avrei visto fare lezione
ogni giovedì, venerdì e sabato, fino a maggio, a volte anche con la febbre.
L’anima sabauda non gli consentiva di deflettere. E poi gli piaceva proprio. Quel
primo giorno tracciò una linea orizzontale per tutta la larga lavagna, la
divise in segmenti regolari, ognuno un secolo, dal V al XV d.C. Per le restanti
due ore avrebbe riempito tre fasce parallele alla linea cronologica, dedicate
rispettivamente ai fatti storici, a quelli culturali e alle innovazioni
tecnologiche. Il Medioevo era di fronte a noi. Molti
citano un proverbio appunto medievale: «Non oportet studere sed studuisse»,
conta aver studiato, non studiare. Tutte le energie didattiche di Eco
sembravano volte in direzione opposta e ancora decenni dopo avrei sentito
persone insospettabili dire, dopo una sua conferenza: «Mi ha messo voglia di
studiare». Anche a una platea di matricole del Dams, maturate in licei e
istituti di chissà quale livello, il suo messaggio arrivava nitido e chiaro:
non importa quanto hai studiato sino ad ora, conta che cominci a farlo subito.
Dell’Autunno del Medioevo di Johan Huizinga diceva a lezione: «Questo è un
libro affascinante, da tenere sul comodino». Chi se lo procurava scopriva che
era proprio così: fra docente e studente il patto di fiducia o, meglio, il
transfert era attivato; il resto sarebbe venuto da sé. In
un capannello, prima di far lezione, un giorno si toccò un braccio, fingendo
preoccupazione: «Mi fa male qui, sarà l’infarto?». Non lo era, decenni di
attività lo aspettavano ancora. Ma da quella volta si è poi notato che della
propria morte tendeva a parlare con una certa regolarità. Non solo i suoi
personaggi romanzeschi più autobiografici raramente sopravvivono alla fine del
libro. Anche le Sei
passeggiate nei boschi narrativi (le sue «Lezioni americane»), finiscono con
Eco che pensa alla propria morte mentre in un planetario ammira il cielo
stellato del 5 gennaio 1932, la notte della sua nascita. Doveva essere un suo
pensiero-brivido: l’appuntamento ineludibile con ciò che non significa nulla,
che non può essere interpretato, e soprattutto che non si impara né insegna. Che
deplorevole inconveniente, l’Inspiegabile, per il caro Professore che non
dimenticheremo…”"
Furio
Colombo (Fatto Quotidiano)
”"La cosa più
disorientante è che non riesco a liberarmi da questa impressione: sto
andando a Milano per parlare con Eco della morte di Eco, e rivedere insieme
quella marea di cose fatte che richiedono una grande mente per essere narrate
con ordine e restituire a ciascuna il senso che ha avuto. E quando ti rendi
conto che non funziona così, comincia a insediarsi il lutto, che a colpi, a
scatti, a sorprese (un po’ i ricordi, un po’ i fatti) si rivela una esperienza
assurda. Non c’è rifugio ma fai barricata coi ricordi. I giorni di Eco
sono talmente tanti che non corrispondono a un calendario e non sono la somma
del tempo vissuto. Sono strisce di cose pensose, festose, inattese, tra
cultura e invenzione, tra erudizione profonda e battuta azzeccata, tra diario e
anticipazione (potrei anche dire “profezia”, ma temo il suo piemontese rancore
verso la retorica e la celebrazione) che non puoi fare un tuo personale
bilancio, per quanto ti proclami “amico di una vita”. E’ vero, sarebbe un modo
di fronteggiare il peso eccessivo di ciò che è appena accaduto e che è un
controsenso, con quel tipo vita che, come certi film, non si presta al riassunto.
Potresti dire che lo conosci da tanto, ma quel tanto poi lo devi moltiplicare
per tanti modi di essere, agire, capire, lavorare, pubblicare, esistere e
lasciare impronte in parti del sapere e in parti del mondo e dentro culture
diverse che allargano enormemente lo spazio, finché persino tu, che credi di
esserci sempre stato, sei un punto fra altri che hanno partecipato o
testimoniato di una vita che ha stupito molto, ha creato ammirazione e sorpresa
mentre scorreva e dava l’impressione di durare sempre. Mi ricordo due
scene sul treno della Cina, destinazione Pechino, sulla via della seta, tanti
anni fa (come dirò ai suoi nipoti). In una siamo seduti per terra in un treno
affollato, circondati di bambini perché stavamo cantando canzoni alpine italiane,
e i bambini cinesi, abbastanza intonati, si accodavano, al punto che Eco (che
sapeva di musica e suonava parecchi strumenti) ha cominciato a insegnare, far
ripetere, dirigere, e dopo un po’ tutto il vagone seguiva. In un’altra scena,
alcuni di noi erano il pubblico di una disputa linguistica fra Eco e
i giovani professori cinesi che ci guidavano. E il tema della discussione, in
inglese, era: quella specie di altarino che nell’ideogramma cinese si disegna
sotto le parole riferite al potere sono un gradino? Sono un altare? Sono un
atto dovuto? “La Nave di Teseo è stata l’ultima avventura vissuta
insieme. Come ai tempi della Rai (ricordate? il concorso) come ai
tempi del Gruppo 63 a Palermo, come ai tempi del Dams a Bologna,
come ai tempi del viaggio in Cina, come ai tempi della Academie des
Cultures presieduta da Elie Wiesel dove si discuteva e lavorava
ogni anno, a Parigi, con Jacques LeGoff, Toni Morrison, Wole
Soynka, Luciano Berio, Umberto e io avevamo l’impegno di preparare
per l’Academie, un programma scolastico online di educazione alla pace, per le
scuole elementari, come ai tempi dell’Istituto di Cultura di New York, che
allora io dirigevo, dove dialogavano con lui, di volta in volta, (“le
conversazioni in pubblico”) Susan Sontag o Vanessa Redgrave, come alla Columbia
University, dove un 25 Aprile è stato celebrato da Umberto insieme
a Giorgio Strehler. Davanti a una folla di professori e studenti. Ma “La
Nave di Teseo” è stata forse l’evento più sorprendente e più giovane per uno
scrittore che aveva già inondato il mondo con milioni di copie in tutte le
lingue, ma non ha permesso di cambiare l’editore storico italiano per ragioni
commerciali che non lo riguardavano. “Io non sono in vendita”, ha detto al
suo editore Bompiani (parte del gruppo in vendita Rcs). E tutta la Bompiani, a
cominciare dal suo capo, Elisabetta Sgarbi, e molti autori anche grandi e
consapevoli del rischio, lo hanno seguito senza pensarci. Al nipote teenager
Emanuele, che spesso è stato compagno di conversazione del celebre
nonno (che però era nonno assoluto, fino al punto da andarlo a prendere a
scuola quando il primo dei suoi nipoti era bambino) che gli aveva chiesto:
“Perché lo fate?” aveva risposto, da piemontese un po’ risorgimentale e privo
di retorica: “Perché si deve”. E adesso abbiamo la ragione per continuare,
impedendoci però di dire che lo facciamo “in suo nome”, per evitare i
fulmini del suo disappunto piemontese per le celebrazioni. I flash di memoria,
che giungono, come è inevitabile, in disordine e non obbediscono alla sequenza
del prima e del dopo, sono utili con Eco, a causa di un tratto unico della
sua vita. Non è di quelli che maturano (come in tante biografie americane) e
fanno mille mestieri e un po’ di frequentazioni sbagliate prima di diventare il
genio. Umberto è saltato in scena allegro come si è allegri a vent’anni, niente
affatto spaesato in un villaggio come la Rai, che non sapeva di essere già
globale ma lo era, e si è accorto subito di abitanti molto strani e molto
diversi, come Mike Bongiorno e Luciano Berio. Negli stessi anni che si
potrebbero chiamare avanguardia dell’avanguardia, Eco ha scritto La
fenomenologia di Mike Bongiorno e ha lavorato con Luciano Berio a
quel Omaggio a Joyce che è diventato il primo testo musicale della
grande e bella produzione musicale di Berio, su lavoro letterario di Eco (quasi
nessuno conosceva Joyce) e con la partecipazione, di cui mi vanto ancora, della
mia voce. Intanto John Cage, padre dell’avanguardia di tutti i luoghi, i
generi e i tempi, veniva a mangiare con noi a casa di Berio (la moglie era
allora Cathy Barberian, dalla voce indimenticabile) in attesa di presentarsi
a Lascia e Raddoppia come concorrente (alla fine vincente) nello show
di Mike Bongiorno. L’enciclopedismo che Umberto prescrive ai più giovani come
fondamento del nuovo c’era già in pieno, nell’Eco giovane che non ha mai smesso
di scrivere, di ridere, di insegnare e di trasformare la cultura alta in
romanzo. C’era già l’idea della scuola che tutti vanno cercando, ripetendo a
volte la sciocchezza dello studio simile il più possibile al lavoro, invece che
formidabile esercizio di intelligenza. Ma è urgente, e questo è il punto duro e
insopportabile del lutto, parlarne con lui. “”
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