Signore e Signori del Parlamento, le Camere avrebbero dovuto eleggere due giudici della Corte Costituzionale nel giugno scorso. A distanza di quattro mesi da quella data, nulla è cambiato. In silenzio, per molte settimane ho assistito alla rotazione delle altrui candidature, ho letto polemiche gratuite e ho subito attacchi infondati. In trent’anni di impegno parlamentare ho imparato che un’elezione, di qualsiasi tipo, non è un concorso per merito; conosco le condizioni in cui si svolge la lotta politica. Tuttavia le attuali condizioni del Paese non consentono di considerare questi fenomeni nel novero dei normali accadimenti. Il protrarsi della indecisione, che mi auguravo superabile, sta producendo un grave discredito delle istituzioni parlamentari accentuato dal manifestarsi in Aula, nel corso delle ultime votazioni, di comportamenti, limitati ma gravi, di dileggio del Parlamento. Improvvisi, recenti appelli non sembra abbiano contribuito alla chiarezza.
È necessario fermare una deriva che offende l’autorevolezza delle istituzioni e la dignità delle persone.
BEPPE GIULIETTI, esponente di articolo 21
Chi spinge Renzi a rompere con la sinistra e la CGIL, alla prima
difficoltà lo tradirà e tornerà agli antichi amori di destra, come sempre.
MICHELE AINIS, editorialista del Corriere della Sera
Ieri è
entrato in scena il Precedente. Ossia un fatto istituzionale mai avvenuto
prima, che però da qui in avanti potrà replicarsi all’infinito. È la grammatica
delle democrazie, intessute di regole scritte e d’interpretazioni iscritte
nella storia. E il Quirinale non fa certo eccezione. Anzi: ogni presidente
è un precedente per chi viene dopo, ciascuno consegna al successore un capitale
d’esperienze diverso da quello che lui stesso aveva ricevuto. Nel luglio 2012
Napolitano sollevò un conflitto contro i magistrati di Palermo, dinanzi ai
quali ora ha accettato di deporre. In quell’occasione citò Luigi Einaudi, per
ribadire l’esigenza che nessun precedente alteri il lascito del Colle. Esigenza
giusta, ma al contempo errata. Per soddisfarla a pieno, dovremmo fermare
l’orologio.
Da qui la lezione che ci impartisce la vicenda.
Napolitano avrebbe potuto rifiutarsi di testimoniare, come ha ammesso la stessa
Corte di Palermo. Poteva farlo perché l’articolo 205 del codice di rito
configura la sua testimonianza su base volontaria, escludendo qualsiasi mezzo
coercitivo. Bastava dire no, e anche il diniego avrebbe offerto un precedente.
Invece ha detto sì. E ha fatto bene: chi non ha nulla da nascondere non deve
mai nascondersi. Ecco perché lascia un retrogusto amaro la decisione di tenere
l’udienza a porte chiuse. Forse la diretta tv avrebbe compromesso il prestigio
delle nostre istituzioni. O forse no: dopotutto nel 1998 la testimonianza di
Bill Clinton sul caso Lewinsky si consumò a reti unificate. In ogni caso era possibile
esplorare una via di mezzo, magari una trasmissione radiofonica, magari un
resoconto dalla stampa accreditata.
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