La Terra di Kuntissa
la baronia di Kuntissa
Nostro intento, alla luce degli
studi di Rossella Cancilla pubblicati su più testi, è quello di delineare il
quadro normativo vigente in Sicilia nel periodo in cui gli arberëshe si insediarono nei domini del Peralta-Cardona, o meglio
nella frazione di domini che in seguito delimiterà il territorio della Università
o Stato di Kuntissa.
La prima asserzione da fare è che
sui loro vasti feudi -in gran parte disabitati e gestiti tramite l’amministrazione
che insisteva presso il Castello di Calatamauro- ai baroni Peralta-Cardona competeva
il diritto di amministrare la giustizia sui vassalli.
Era questo -in termini politici e sociali- il privilegio più rilevante di cui godevano i baroni siciliani e che –appunto- i Peralta-Cardona già esercitavano operativamente nei vicini “stati” di Chiusa Sclafani, Giuliana, Burgio ed altri ancora fino a Caltabellotta ed ancora molto oltre.
Era questo -in termini politici e sociali- il privilegio più rilevante di cui godevano i baroni siciliani e che –appunto- i Peralta-Cardona già esercitavano operativamente nei vicini “stati” di Chiusa Sclafani, Giuliana, Burgio ed altri ancora fino a Caltabellotta ed ancora molto oltre.
Essi godevano della concessione
regia del mero e misto imperio: il misto imperio corrispondeva alla bassa
giustizia, «cioè al diritto di comminare lievi pene corporali infra
relegazione e pena pecuniaria fino ad onze quattro», poi sette;
mentre il mero imperio consisteva nell’«habere gladii potestatem ad puniendum
facinorosos morte, exilio et relegatione».
Questo potere (che nella
contemporaneità è la più evidente prerogativa di sovranità che compete allo
Stato di diritto) non era –in verità- connesso al feudo concesso al barone dal
sovrano; la concessione del mero e misto imperio risultava infatti
espressamente dalle originarie clausole dell’investitura ai baroni. Si trattava
secondo la giurisprudenza del tempo di «dritto
comune inalienabile, o se talvolta alienato si intendeva temporaneamente e il barone
può ripigliarlo».
Con l’introduzione in Sicilia del
feudalesimo, ad opera dei Normanni e poi consolidato dagli angioini e dagli
aragonesi, la giurisdizione (la giuridizione)
veniva concessa in dominio ed in signoria ai baroni e divenne (automaticamente)
ereditaria e soprattutto divenne pure un bene patrimoniale, ossia negoziabile. In
buona sostanza l’esercizio della giurisdizione civile e criminale consentiva al
feudatario (barone) di disporre di un forte controllo sul territorio e sulla
popolazione e gli consentiva ancora tutta una serie di prerogative che si andarono
sempre più ampliando nel corso dei secoli e non di rado entrarono in conflitto
con altre competenze giurisdizionali, che pure esse rimasero all’interno dello
stesso territorio.
Sostanzialmente la feudalità gestita
dai baroni (nel caso di Contessa esercitata da prima dai Peralta, quindi dai
Cardona, poi dai Gioeni ed infine dai Colonna) costituiva un solo corpo,
seppur assai rilevante, dello stato giurisdizionale, caratterizzato
nel tempo da una tensione continua tra
tendenza alla concentrazione dei poteri da parte del sovrano e la partecipazione
al governo del territorio della pluralità di soggetti collettivi (i baroni) in
esso presenti.
Tra Quattro e Cinquecento (il
periodo di costituzione della Comunità arbëreshe di Contessa) il quadro
giuridico del sistema baronale avviò la propria ri-definizione di un quadro di
riferimento destinato a mantenersi più o meno immutato fino a tutto il
Settecento, sino alle innovazioni volute e promosse dall’illuminista
Vice-re Domenico Caracciolo – ed in
pratica usi, procedure, abusi ed arbitri rappresentarono in Sicilia e nel
Mezzogiorno d’Italia una costante.
E’ ovvio che né i Peralta-Cardona
né i casati baronali che nel tempo subentrarono non gestirono in prima persona né
la giurisdizione del mero e misto imperio né l’amministrazione sul vasto
territorio che allo “stato” di Kuntissa venne incorporato.
Il potere pubblico (a questo
punto appare ovvio) era rappresentato in loco non tanto dal Regno di Sicilia
bensì dal Barone locale, e questo si avvaleva delle giurisdizioni spettanti a lui come canali di
intervento sulla realtà territoriale complessa e plurale, mediante
-l’accertamento di illeciti,
-l’applicazione di sanzioni,
-la composizione dei conflitti,
quelli che oggi diremmo di diritto privato.
Il governo del territorio (a
questo punto è chiaro) era di fatto e di diritto esercitato con strumenti
giurisdizionali dalla stessa autorità che era giudice sulla comunità e sul
territorio e contemporaneamente amministratore dei feudi.
Era (Contessa era) uno stato
giurisdizionale, nel senso che chi governava al centro -ossia in paese (comunità
rurale)- lo faceva avvalendosi di una fitta schiera di soggetti, attinti a
cominciare dagli ordinamenti ecclesiastici e da quelli delle corporazioni
agricole-artigianali, il cui contributo attivo era necessario proprio per
esercitare il governo sul territorio.
Su questo presupposto diventa notevole il ruolo che a Contessa (e non solamente qui) viene ricoperto dal clero degli arbereshe e dall’emergente ceto dei burgisi, e ancora di più da quello dei "civili".
Ma su questo aspetto avremo modo di meglio approfondire.
Su questo presupposto diventa notevole il ruolo che a Contessa (e non solamente qui) viene ricoperto dal clero degli arbereshe e dall’emergente ceto dei burgisi, e ancora di più da quello dei "civili".
Ma su questo aspetto avremo modo di meglio approfondire.
Nel contesto tratteggiato -chiaramente caratterizzato dall’intreccio delle giurisdizioni e dal pluralismo dei fori- che vede la feudalità custode delle proprie prerogative, questa non va tuttavia considerata necessariamente come un corpo antagonistico, in potenziale collisione con il potere regio, bensì come parte dell’amministrazione nello stato giurisdizionale e come canale di attuazione della giustizia regia e soggetto attivo nel governo del territorio.
Nel Settecento, nel secolo dei
lumi, questo impianto sarà messo in discussione dal Vice Re Domenico Caracciolo,
il cui proposito sarà di attribuire l’autorità pubblica -per intero- allo Stato
(soprattutto l’amministrazione della giustizia), e da allora il sistema feudale andrà
via via incrinandosi a favore di una visione semplificata
della società e dell’affermazione di un modello in cui i protagonisti emergenti
saranno lo stato e l’individuo: e tra essi -evidenzia la Cancilla- uno «spazio enorme e vuoto».
Avremo comunque modo di come meglio
capire.
Nessun commento:
Posta un commento