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giovedì 14 novembre 2019

Flash sulla nostra Storia

La Terra di Kuntissa
la baronia di Kuntissa

Nostro intento, alla luce degli studi di Rossella Cancilla pubblicati su più testi, è quello di delineare il quadro normativo vigente in Sicilia nel periodo in cui gli arberëshe si insediarono nei domini del Peralta-Cardona, o meglio nella frazione di domini che in seguito delimiterà il territorio della Università o Stato di Kuntissa.
La prima asserzione da fare è che sui loro vasti feudi -in gran parte disabitati e gestiti tramite l’amministrazione che insisteva presso il Castello di Calatamauro- ai baroni Peralta-Cardona competeva il diritto di amministrare la giustizia sui vassalli. 
Era questo -in termini politici e sociali- il privilegio più rilevante di cui godevano i baroni siciliani e che –appunto- i Peralta-Cardona già esercitavano operativamente nei vicini “stati” di Chiusa Sclafani, Giuliana, Burgio ed altri ancora fino a Caltabellotta ed ancora molto oltre.
Essi godevano della concessione regia del mero e misto imperio: il misto imperio corrispondeva alla bassa giustizia, «cioè al diritto di comminare lievi pene corporali infra relegazione e pena pecuniaria fino ad onze quattro», poi sette; mentre il mero imperio consisteva nell’«habere gladii potestatem ad puniendum facinorosos morte, exilio et relegatione».

Questo potere (che nella contemporaneità è la più evidente prerogativa di sovranità che compete allo Stato di diritto) non era –in verità- connesso al feudo concesso al barone dal sovrano; la concessione del mero e misto imperio risultava infatti espressamente dalle originarie clausole dell’investitura ai baroni. Si trattava secondo la giurisprudenza del tempo di «dritto comune inalienabile, o se talvolta alienato si intendeva temporaneamente e il barone può ripigliarlo».

Con l’introduzione in Sicilia del feudalesimo, ad opera dei Normanni e poi consolidato dagli angioini e dagli aragonesi, la giurisdizione (la giuridizione) veniva concessa in dominio ed in signoria ai baroni e divenne (automaticamente) ereditaria e soprattutto divenne pure un bene patrimoniale, ossia negoziabile. In buona sostanza l’esercizio della giurisdizione civile e criminale consentiva al feudatario (barone) di disporre di un forte controllo sul territorio e sulla popolazione e gli consentiva ancora tutta una serie di prerogative che si andarono sempre più ampliando nel corso dei secoli e non di rado entrarono in conflitto con altre competenze giurisdizionali, che pure esse rimasero all’interno dello stesso territorio.

Sostanzialmente la feudalità gestita dai baroni (nel caso di Contessa esercitata da prima dai Peralta, quindi dai Cardona, poi dai Gioeni ed infine dai Colonna) costituiva un solo corpo, seppur assai rilevante, dello stato giurisdizionale, caratterizzato nel tempo  da una tensione continua tra tendenza alla concentrazione dei poteri da parte del sovrano e la partecipazione al governo del territorio della pluralità di soggetti collettivi (i baroni) in esso presenti.
Tra Quattro e Cinquecento (il periodo di costituzione della Comunità arbëreshe di Contessa) il quadro giuridico del sistema baronale avviò la propria ri-definizione di un quadro di riferimento destinato a mantenersi più o meno immutato fino a tutto il Settecento, sino alle innovazioni volute e promosse dall’illuminista Vice-re  Domenico Caracciolo – ed in pratica usi, procedure, abusi ed arbitri rappresentarono in Sicilia e nel Mezzogiorno d’Italia una costante.

E’ ovvio che né i Peralta-Cardona né i casati baronali che nel tempo subentrarono non gestirono in prima persona né la giurisdizione del mero e misto imperio né l’amministrazione sul vasto territorio che allo “stato” di Kuntissa venne incorporato.
Il potere pubblico (a questo punto appare ovvio) era rappresentato in loco non tanto dal Regno di Sicilia bensì dal Barone locale, e questo si avvaleva delle giurisdizioni spettanti a lui come canali di intervento sulla realtà territoriale complessa e plurale, mediante
-l’accertamento di illeciti,
-l’applicazione di sanzioni,
-la composizione dei conflitti, quelli che oggi diremmo di diritto privato.
Il governo del territorio (a questo punto è chiaro) era di fatto e di diritto esercitato con strumenti giurisdizionali dalla stessa autorità che era giudice sulla comunità e sul territorio e contemporaneamente amministratore dei feudi.
Era (Contessa era) uno stato giurisdizionale, nel senso che chi governava al centro -ossia in paese (comunità rurale)- lo faceva avvalendosi di una fitta schiera di soggetti, attinti a cominciare dagli ordinamenti ecclesiastici e da quelli delle corporazioni agricole-artigianali, il cui contributo attivo era necessario proprio per esercitare il governo sul territorio. 
Su questo presupposto diventa notevole il ruolo che a Contessa (e non solamente qui) viene ricoperto dal clero degli arbereshe e dall’emergente ceto dei burgisi, e ancora di più da quello dei "civili".
Ma su questo aspetto avremo modo di meglio approfondire.

Nel contesto tratteggiato -chiaramente caratterizzato dall’intreccio delle giurisdizioni e dal pluralismo dei fori- che vede la feudalità custode delle proprie prerogative, questa non va tuttavia considerata necessariamente come un corpo antagonistico, in potenziale collisione con il potere regio, bensì come parte dell’amministrazione nello stato giurisdizionale e come canale di attuazione della giustizia regia e soggetto attivo nel governo del territorio.

Nel Settecento, nel secolo dei lumi, questo impianto sarà messo in discussione dal Vice Re Domenico Caracciolo, il cui proposito sarà di attribuire l’autorità pubblica -per intero- allo Stato (soprattutto l’amministrazione della giustizia), e da allora il sistema feudale andrà via via incrinandosi a favore di una visione semplificata della società e dell’affermazione di un modello in cui i protagonisti emergenti saranno lo stato e l’individuo: e tra essi -evidenzia la Cancilla- uno «spazio enorme e vuoto».


Avremo comunque modo di come meglio capire.

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