Libri, servizi giornalistici e persino discorsi nei circoli e nelle piazze di paese hanno riscoperto a cento anni dalla morte la figura di Giacomo Matteotti, onesta ed intelligente figura di uomo politico, fatta assassinare da Benito Mussolini nei primi anni venti del Novecento.
In tanti, a tanta distanza di tempo, si chiedono cosa c’era nelle menti dei tanti italiani e tedeschi che, agli ordini di Benito Mussolini e di Adolf Hitler, contribuirono nel periodo storico compreso fra le due guerre mondiali, all’edificazione del regime fascista in Italia e di quello nazionalsocialista in Germania e ne attuarono i propositi delittuosi, fino alla guerra di aggressione e pure alla persecuzione razziale.
Per alcuni studiosi quanto è accaduto sarebbe attribuibile solo ad «una piccola percentuale dei gerarchi» affetta da «forme di patologia psichica». Atri gerarchi avrebbero costituito invece una «normalità sostanziale» di individui pervasi dall’«ebbrezza del potere e della sopraffazione».
Taluni autori di libri portano avanti la tesi secondo cui il nazismo «non ebbe mai una sua ideologia», se non un confuso culto della violenza e della prevaricazione. Il mito del sangue e della purezza razziale, l’ossessione eugenetica, la combinazione di romanticismo classicheggiante e modernismo produttivista, il progetto geopolitico di conquistare lo «spazio vitale» necessario all’espansione del proprio popolo non furono semplici farneticazioni.
Tutte tesi con radici nella cultura europea e che tra le due guerre mondiali prosperarono anche altrove, ovviamente in Italia ma non solo, attraverso movimenti dotati di capacità di attrazione.
E purtroppo ancora oggi, in una fase storica completamente diversa, tante teorie da quelle derivate continuano ad esercitare un certo influsso, magari ammantati da sventolii di tricolori.
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