L’uomo maturo
Un’immagine dell’infanzia che mi torna in mente nei giorni dell’imminente esame di maturità, quando mi chiedo, insieme agli studenti, se siamo «maturi», perché la metafora implica un movimento della vita e il movimento un compimento che riguarda tutti, a qualsiasi età. Il frutto maturo è infatti «colto» perché possa nutrire, così come la persona colta dovrebbe nutrire, non umiliare, con il suo sapere. Il frutto si «raccoglie», altra parola che, applicata al campo umano, indica la capacità di concentrarsi per dar frutto, come il ciliegio. Il frutto si dice maturo quando non è acerbo né marcio, ma compiuto. Infatti l’antica radice di maturo, la stessa di mattino, indicava ciò che è buono perché è al tempo giusto. Maturo non è quindi chi raggiunge un’età o passa un esame, ma chi, ciclicamente, porta frutto, come il grano che, seminato in autunno, germinato in inverno, cresciuto in primavera, colto in estate, ci nutre poi per tutto l’anno. Quali costanti ha quindi la «maturità» ad ogni livello ed età della vita? Siamo noi maturi?
La maturità, se penso a quelle ciliegie, ha tre caratteristiche: vocazione, tempo, lavoro.
Voleva sondare la vocazione del figlio e offrirgli magari una guida. E così fu. I quaderni, l’occhio paterno, l’aiuto del mentore mostrano come la vocazione sia un seme e la cultura ( coltura e cultura sono la stessa parola) abbia il fine di aiutare a rispondere alla domanda: quale frutto posso dare io? Per riuscirci i ragazzi hanno bisogno sin dai primi anni di scuola di un Libro delle esperienze , in cui ricordare ciò che li lega alla vita e li fa quindi sentire voluti e vivi (noi come le piante abbiamo «il nostro campo», «il nostro terreno» d’elezione), e di un Libro della bellezza , cioè la realizzazione di idee, progetti, sogni, creazioni (i frutti della vocazione). Questi due quaderni, uniti al lavoro personale e dei maestri, fanno un destino: si attinge al proprio «punto di nascenza», come chiamo l’inesauribile fonte di energia ( crescere e creare hanno la stessa origine) che sta a fondamento di ogni cosa viva, un’energia che i ragazzi a volte non riescono a contattare, come un seme che, non messo «in condizione», «a dimora», «a terra», non si apre. Passando alla questione del tempo, oggi l’accelerazione tecnologica ha destrutturato, più di ogni altra, questa dimensione dell’essere viventi.
La tecnologia espelle il tempo dalle cose vive, che vogliamo «a tempo zero», ma se il tempo è zero anche l’essere si azzera (forse accelerando a velocità doppia una canzone me la godo di più?). I nostri genitori si sono corteggiati con lettere scritte a mano, prima di uscire da soli c’era una maturazione della conoscenza e del desiderio. Oggi le cose spesso non si colgono quando sono mature, ma si afferrano quando ci va. La destrutturazione del tempo è evidente nei primi due cicli di crescita: bambini adultizzati e adolescenti bambinizzati non maturano. Noi non siamo macchine, non ci «aggiorniamo», siamo viventi, e quindi cresciamo come un albero in dialogo con le stagioni, come mostrano gli anelli di un tronco: al midollo del mio essere ci sono ancora sia il bambino sia l’adolescente. Per questo ho sostituito la frase «da quando ero bambino/adolescente» con «da quando sono bambino/adolescente». Non si dà adulto senza bambino/adolescente che abbia dato e dia ancora il suo frutto. I nostri percorsi di crescita forzano i tempi o li destrutturano, in nome di una falsa libertà (fai ciò che vuoi/senti) e di una folle produttività (fai «carriera» invece di fai «destino»). Infatti poi, non essendo maturati, non vogliamo invecchiare, proviamo a fermare il tempo come la tecnologia ci ha educato a fare: adoriamo la giovinezza, ma odiamo i giovani a cui non passiamo la vita (i frutti hanno dentro i semi delle nuove piante).
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