«L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte; e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita». Il pensiero è di Spinoza, ma riflette lo spirito con cui Giulio Giorello, nel suo recente saggio La libertà (Bollati Boringhieri, pp. 175, euro 11), affronta una delle dimensioni fondamentali dell’essere umano, annunciata dal titolo. Senza libertà, ovvero privi delle tre forme principali in cui si può analizzare (Freedom, Liberty e Enfranchisement: libertà, indipendenza, emancipazione), non solo il singolo, ma è l’intera società a soffrire.
Davanti agli attacchi degli «entusiasti di Dio», dei fanatici taglia gole e di chiunque voglia imporre il proprio credo agli altri, la lotta per l’emancipazione sembra essere una improrogabile necessità per garantire un futuro all’umanità, o per realizzarla.
Questa la battaglia dell’irlandese Bobby Sands, per esempio, che si lasciò morire in carcere per rivendicare i propri diritti politici, o del sindacalista J. Connolly, pensatore e leader di un paese, l’Irlanda, dove fu fucilato seduto su una sedia, perché non riusciva più a stare in piedi.
«Coloro a cui sta a cuore la libertà più che la vita… mai, mai, mai vorranno cedere il cielo stellato scandagliato dal cannocchiale di Galileo per quel “miraggio nella nebbia” che è la promessa di una salvezza offerta da una qualsiasi sottomissione».
ANTONIO POLITO, editorialista del Corriere della Sera
Commentando il patatrac del sindaco Marino, il giovane presidente del Pd, Matteo Orfini, ha
raccontato di averne individuato la causa già nello slogan della campagna
elettorale del 2013 che diceva: «Non è politica, è Roma». Da lì, da quel
rifiuto della politica intesa come arte del governo della polis , sarebbero
nate la solitudine, l’arroganza, l’inefficienza della sua gestione, ben prima
della pochade degli scontrini.
Se
Orfini ce l’avesse detto prima, se non avesse aspettato che il gallo cantasse tre volte
per rinnegare il sindaco, avrebbe forse risparmiato ai suoi concittadini e al
suo partito molti mesi di caos, e oggi non sarebbero «rimaste solo le macerie»
di cui parla L’Osservatore Romano . E però, seppur tardivamente, mette il dito
nella piaga. La vera lezione dell’incredibile vicenda romana sta proprio in
questo: è il fallimento finora più clamoroso dell’idea che l’amministrazione
della cosa pubblica non debba essere affare della politica e dei partiti, ma
anzi vada affidata a chi più è capace di presentarsi come nemico dei partiti e
alieno alla politica.
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