Un anno di dominazione fascista
autore: Giacomo Matteotti
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Introduzione di Walter Veltroni
Se si domandasse ad una persona mediamente informata sulla storia italiana di affrontare il tema "vita e morte di Giacomo Matteotti", quasi sicuramente ci si ritroverebbe di fronte ad un interlocutore preparato a parlare più della seconda che della prima.
Si sa ormai quasi tutto, di ciò che accadde quel giorno. Le quattro e mezza del pomeriggio del 10 giugno 1924. Il giovane deputato socialista, trentanove anni appena compiuti, esce dalla sua casa romana in via Pisanelli, diretto alla biblioteca di Montecitorio, per ultimare il discorso che avrebbe tenuto l'indomani, alla riapertura della Camera dei deputati. Percorre a piedi via degli Scialoja, e arriva all'imbocco del Lungotevere Arnaldo da Brescia, dove ad aspettarlo trova i suoi assassini capeggiati da Amerigo Dumini e Albino Volpi. In tutto sono cinque e fanno parte della famigerata "Ceka fascista", l'organizzazione di polizia segreta voluta da Mussolini. A dirigerla sono due degli uomini a lui più vicini: Cesare Rossi, capo del suo ufficio stampa ed "eminenza grigia" del fascismo, e Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Pnf, il Partito nazionale fascista.
La squadraccia aggredisce Matteotti, lo picchia selvaggiamente e lo carica sulla macchina, una Lancia, che si dirige a tutta velocità verso la via Flaminia. L'uccisione avviene nell'abitacolo dell'auto, pochi minuti dopo il rapimento, con un colpo di pugnale al torace, mentre la vittima si dibatte e cerca di difendersi come può. Il cadavere, ormai in decomposizione, verrà trovato più di due mesi dopo, il 16 agosto, a una ventina di chilometri da Roma, nella macchia della Quartarella, vicino a Riano Flaminio.
Si sa anche perché Matteotti doveva essere eliminato, quale era
stata la goccia che agli occhi di Mussolini e dei suoi aveva decisamente fatto traboccare il vaso.
Una mangiata di giorni prima, il 30 maggio, Matteotti era intervenuto alla
Camera denunciando i brogli e il clima intimidatorio che avevano contraddistinto
l’ultima campagna elettorale, contestando in blocco la validità delle elezioni
e riaffermando il ruolo centrale e insostituibile del Parlamento. Il suo
discorso, come è facile immaginare e come riportato dalle cronache, era stato
continuamente fermato dal vociare e dagli insulti dei deputati fascisti. Con il
neo presidente della Camera, Alfredo Rocco, impegnato a non difendere il
diritto di parola di Matteotti, ma ad ammonirlo di non divagare, di essere
breve, di non provocare incidenti. Chi avesse voglia di andare a rileggere i
resoconti stenografici di quella drammatica seduta vedrebbe che sulle quindici
colonne dedicate al suo intervento, non ci sono mai più di quattro o cinque
righe filate di Matteotti: tutto il
resto è fatto di violente interruzioni e di invettive, come un terribile
prologo di quel che sarebbe avvenuto di lì a poco e che lui stesso in qualche modo intuì, dicendo ai suoi compagni che si
complimentavano che il suo discorso l’aveva fatto, ma ora toccava a loro
preparargli l’orazione funebre. Con lo stesso Mussolini, che ben comprendeva il
pericolo rappresentato da quell’oppositore così diverso dagli altri, che lo
attaccava basandosi non sull’invettiva ideologica ma su fatti precisi e
circostanziati, a scrivere due giorni dopo su “Il Popolo d’Italia” che quelle
parole, quel discorso definito “mostruosamente provocatorio”, avrebbe meritato
“qualcosa di più tangibile”.
Insomma, si conoscono le “ragioni” più immediate -ammesso si possono chiamare in questo modo- che stanno dietro la decisione di far tacere una voce così forte, così ingombrante, così pericolosa. Matteotti fu ucciso per la sua denuncia sistematica delle prevaricazioni e delle violenze dei fascisti, certo. Ma forse, verrebbe da dire soprattutto, fu ucciso per le rivelazioni che, secondo alcuni storici si sarebbe apprestato a fare, proprio l’indomani, l’11 giugno, sulle concessioni petrolifere del governo fascista all’impresa americana Siclair Oil in cambio di cospicue tangenti. Matteotti stava denunciando uno dei caratteri fondamentali del regime, la corruzione come pratica di governo, l’uso scellerato e privatistico del denaro pubblico.
Giacomo Matteotti la
battaglia per denunciare le violenze fasciste l’aveva iniziata da tempo, da
subito. A essere conosciuta meno è la vita del Matteotti politico, dell’uomo
che in quel momento è davvero “l’oppositore più intelligente e irriducibile”
del nascente regime, come lo definì un’altra figura di intellettuale e
antifascista, Piero Gobetti.
Matteotti, in effetti,
non ha mai un’esitazione. Vede prima di altri la natura violenta e l’intenzione
totalitaria del fascismo, capisce che quella mussoliniana non sarebbe stata una
parentesi e che sarebbe stata una lunga dittatura. E per questo fa ciò che Un
anno di dominazione fascista dimostra in modo esemplare, ed è per questo
che è così importante ripubblicarlo oggi, a quasi un secolo di distanza: mette
una determinazione feroce e lucida nel
denunziare, in modo tanto puntiglioso e circostanziato quanto coraggioso, le
violenze fasciste che si stanno intensificando in ogni parte d’Italia.
Le pagine che seguono
danno ragione alle parole con cui un suo compagno di partito lo descriveva,
osservando che “passava ore e ore nella biblioteca della Camera a sfogliare
libri, relazioni statistiche, da cui attingeva i dati che gli occorrevano per
lottare con la parola e con la penna, badando a restare sempre fondato sulle
cose””. Sono pagine straordinarie. Matteotti fa un’analisi precisa sulla
situazione economica e finanziaria del Paese, numeri alla mano indica come i
conti pubblici stiano peggiorando, soffermandosi sulla bilancia commerciale e
sul disavanzo, sulle entrate tributarie e sulle imposte locali, sulla
circolazione bancaria, sull’andamento dei prezzi, sull’evoluzione di profitti e
salari, sulla situazione dell’occupazione e dell’emigrazione. Dimostra come dal
punto di vista sociale i provvedimenti economici del fascismo da una parte
siano iniqui e tesi a privilegiare i settori forti dell’economia, e dall’altra
siano figli di una evidente incompetenza. Denuncia come in molte realtà le
organizzazioni operaie non soggette al fascismo non abbiano possibilità di
esistere: “per amore o per forza” scrive, “i lavoratori devono iscriversi
alle corporazioni fasciste. Nelle zone rurali chi non è iscritto non è ammesso
al lavoro. Critica l’uso e l’abuso della decretazione d’urgenza da parte del
governo -517 decreti legge in dodici mesi-
e fa un elenco documentato di quanti organi rappresentativi al livello
locale sono stati arbitrariamente sciolti.
Sono pagine nel
complesso talmente dure e taglienti,
talmente incontestabili e “scomode” nella loro oggettività, che quando a Chieti
si svolgerà il processo farsa contro i
sicari, il loro avvocato difensore, niente di meno che il segretario del Pnf
Roberto Farinacci, le porterà a testimonianza della “denigrazione” che Matteotti aveva compiuto ai danni
dell’Italia e le userà per chiedere le attenuanti per gli imputati, che in
fondo avevano agito per difendere l’onore della patria.
Resta il fatto che
questo libro, questa denuncia di “un anno di dominio fascista”, va anche al di
là del merito di aver messo a nudo l’armamentario propagandistico del governo
Mussolini e di aver ricostruito uno per uno – nella pubblicazione originaria
era la parte finale, qui si è scelto di metterla all’inizio ed è davvero
impressionante – tutti gli episodi di violenza squadristiche tra il novembre
1922 e il dicembre 1923. E’ un libro che è il frutto di una tale concretezza e
di una tale radicale e coraggiosa passione politica da non potere appartenere
che a un vero riformista del suo tempo. E da questo punto di vista, se
contribuisce a spiegare le ragioni di una morte, ancora di più racconta, a mio
avviso, il senso di una vita. Proprio l’aspetto che di Matteotti, come dicevamo
meno si conosce.
Carlo Rosselli, che in
qualche modo ne raccolse il testimone e che un giorno sarebbe andato incontro
alla sua stessa sorte insieme al fratello Nello, lo definì “un eroe tutto
prosa”. Nel senso che al di sopra di ogni altra cosa metteva il pensiero
pratico, lo studio concreto della realtà e i numeri e i documenti che la
descrivevano.
Ad interessarlo erano i
problemi reali delle persone, dei lavoratori, degli ultimi. A cominciare da
quelli delle popolazioni del suo Polesine, dei braccianti del delta del Po,
costretti a vivere in condizioni di povertà estrema. Per il loro riscatto, che
sarebbe dovuto arrivare soprattutto attraverso l’istruzione e l’educazione,
aveva scelto la politica. Aveva scelto il socialismo, lui che proveniva da una
famiglia della buona borghesia agraria molto più che benestante, ricca.
Laureato brillantemente in Giurisprudenza, forte di studi all’estero e di
lavori pubblicati anche su diverse riviste italiane e straniere, avrebbe potuto
scegliere -avrebbe potuto anche vivere di rendita, se è per questo – una
tranquilla e remunerativa carriera di
avvocato o decidere di intraprendere quella accademica.
Decise diversamente. E
fa effetto, in tal senso, pensare alla lettera con cui un mese prima di essere
ucciso rispose a quella inviatagli dal
professore di Diritto penale e senatore liberale Luigi Lucchini, che gli
chiedeva di essere prudente, di accettare una cattedra universitaria, di
lasciare quindi la politica e di dedicarsi agli studi. “Purtroppo non vedo
prossimo” scrive Matteotti al suo
interlocutore “il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati.
Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più
pericoloso, per rivendicare quelli che, secondo me, sono i presupposti di
qualsiasi civiltà e nazione moderna”.
Il fatto che non fosse
un teorico della politica e che di questo sia stato sempre orgoglioso non vuol
dire, ovviamente, che la sua cultura, nel campo che decise di mettere al centro
della sua vita, non fosse solida. Di nuovo Gobbetti scrisse di lui: “Non
ostentava presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non avere tempo per
risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare bilanci e rivedere i
conti degli amministratori socialisti. E così si risparmiava ogni sfoggio di
cultura. Ma il suo marxismo non era ignaro di Hegel né aveva trascurato Sorel e
il bergsonismo.
Si può dire, insomma,
che pur non sottovalutando l’importanza di quelle che allora si definivano le
“questioni dottrinarie”, la dottrina per la dottrina non lo interessasse: la
considerava utile solo se come sbocco, alla fine, c’era la realtà, c’era la
possibilità del suo cambiamento.
Era stato raccontato un
episodio che, in questo senso, lo descrive molto bene. Durante il congresso
socialista di Livorno del 1921, quello che segnò la scissione comunista, quando
gli arrivò la notizia che la Camera del Lavoro di Ferrara era stata assaltata e
distrutta dalle squadre fasciste non ebbe alcuna esitazione sul da farsi:
lasciò immediatamente la disputa teorica e si precipitò sul posto, lì dove
c’era bisogno di una presenza concreta.
Un atteggiamento di
fondo, questo, che peraltro si può ritrovare in tutta la sua attività di
parlamentare e prima ancora di amministratore, come consigliere provinciale di
Rovigo, come dirigente della Lega dei Comuni socialisti, come sindaco di
Villamarzana e contemporaneamente -la legge elettorale dell’epoca lo
consentiva- consigliere a Fratta Polesine e in diversi comuni della provincia.
Anche qui, dalla sua profonda conoscenza del ruolo e dell’importanza di quello
che noi oggi chiamiamo “governo di prossimità”, veniva il suo essere un acceso
sostenitore di un rafforzamento delle
autonomie locali che fosse basato su un vasto decentramento amministrativo.
Walter Veltroni
* * *
Ci proponiamo di pubblicare periodicamente alcune pagine del libro-denuncia di Matteotti nei confronti del primo anno di governo fascista. Libro-denuncia che indusse Mussolini ed il fascismo ad eliminare fisicamente quell'acerrimo avversario.
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