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martedì 4 maggio 2021

Mondo contadino. Per non dimenticare una realtà umana che fu -2-

Sviluppiamo, per adesso, quanto relativo al mese di maggio

 Stiamo riportando alcuni stralci dell'Almanacco curato da Francesco Lanza, nel 1924. Quella edizione avrebbe dovuto essere unica, occasionale, nelle iniziali intenzioni dell'autore. Tre anni dopo, nel 1927 invece in Enna -su iniziativa di Giovanni Centorbi, Telesio Interlandi, Francesco Lanza e Nino Savarese- esce il primo numero del "Lunario Siciliano", un periodico letterario mensile. Il lavoro occasionale dell'Almanacco divenne un progetto editoriale che assurge a significativa rilevanza culturale; nato con occhio al mondo contadino, diventerà un fatto di rilevanza letteraria.

Nel programma-indirizzo leggiamo "Vogliamo un ritorno alla semplicità e alla serietà, e però un'arte che sia espressione, quadrata, equilibrata, di umanità". E poi "In principio dell'opera nostra, sentuiamo il bisogno di ricordare Giovanni Verga, vogliamo essere fedeli al suo insegnamento di un costume letterario dignitoso e severo,  senza macchia di vana adulazione, senza la corruzione che nasce dal mercato della verità e del sapere" .."Se i nostri lettori desiderassero sapere a quali degli scrittori più vicini a noi volgiamo lo sguardo come a nostri Maestri, noi faremmo i nomi del Manzoni, del Carducci, del Verga".

Non si trattò quindi di un proposito provinciale ma di una volontà di innescare i rigogli regionali nel quadro delle esperienze nazionali, senza tuttavia provare a snaturare la realtà vera e viva dell'Isola.

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FRANCESCO LANZA 

ALMANACCO PER IL POPOLO SICILIANO, 1924

 Con stampe di ARDENGO SOFFICI e illustrazioni di CARMELO ALOISI 

ASSOCIAZIONE NAZIONALE PER IL MEZZOGIORNO EDITRICE 

– ROMA – 

1924 

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MAGGIO

 Maggio è il mese del fieno. 

 A vespro le mule tornano dalla campagna cariche di sulla e d’avena, e il contadino che va cantando si sente venire incontro l’odore della pasta di casa. I paesi sulla montagna sembrano pecore alla pastura, e il fumo dei focolari empie l’aria, in cui le prime stelle brillano come occhi. 

 Nelle lunghe giornate il sole sempre più infierisce, e il verde cangia. Le spighe chinano la testa come avessero sonno, e in ogni chicco il latte s’accaglia e s’indura. 

 Si scerpano le fave, e prima che il grano si mieta, secche dal sole saranno pronte per l’aia. 

 La vigna si fa superba di tralci che bisogna assicurare ai pali, contro scirocco e levante. 

 Cominciano i frutti, miracolo d’ogni albero e gioia del contadino, che vede in bei succhi ed aromi mutato il suo sudore. 

 Butta all’aria le angustie, e mettiti allegramente all’opera. Lascia la vanga, e impugna la falce: ora tutta la terra è pane! 

 I BENI DELLA TERRA 

 Niente sono i beni di questa terra: muori e li lasci. Non ci stare attaccato: Dio te li dà, e Dio te li toglie. Un giorno di cattiva fortuna ne distrugge cento di buona. 

 Nessuna cosa al mondo vi è che non abbia la sua ruggine e la sua tignola. Ma fortuna, ruggine e tignola, non possono niente contro un solo tesoro: la coscienza in pace. 

LE MONTAGNE DELLA SICILIA 

(continuazione) 

 Dopo Termini Imerese le zone montuose non hanno l’importanza delle precedenti, né la successione necessaria per prendere il nome di catena. 

 Alcuni monti, come continuando le Madonie, si allineano lungo la costa, e fra essi è da notarsi il Monte San Calogero (m. 1325); altri recingono e limitano la Conca d’oro, giardino della Sicilia, e si spingono fino al mare, intorno a Palermo. Tra essi si elevano il Pizzo Magazzino (m. 1333), il Monte Pellegrino (m. 600), il Monte Gallo (m. 596). 

 Oltre Partinico e il Golfo di Castellammare, nuove zone culminano col Monte Spàragio (m. 1109), e con Monte S. Giuliano o Erice (m.751). Le maggiori cime della Sicilia Orientale si trovano nei gruppi interni, con la Rocca Busambra (m. 1615) e col Monte Cammarata dei monti Sicani (m. 1579). 

 DAL VANGELO 

Zaccheo 

  E Gesù, essendo entrato in Gerico, attraversava la città. Quand’ecco che un uomo, per nome Zaccheo, il quale era un capo pubblicano e ricco, cercava di veder chi era Gesù, ma non poteva a motivo della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti, e montò sopra un albero per vederlo, perch’egli doveva passare di là. E come Gesù fu giunto in quel luogo, guardò su, e gli disse: - Zaccheo, scendi presto, perché oggi devo albergare in casa tua. - Ed egli s’affrettò a scendere, e lo accolse con allegrezza. E tutti veduto questo, cominciarono a mormorare e a dire: - È andato ad albergare da un peccatore! - Ma Zaccheo si presentò al Signore, e gli disse: - Ecco, Signore, la metà dei miei beni la do ai poveri; e se ho frodato qualcuno, gli rendo il quadruplo. - E Gesù gli disse: - Oggi in questa casa e venuta la salvezza: perché anche questi è figliuolo d’Abramo; poiché il Figliuol dell'uomo è venuto per cercare e salvare ciò ch'era perito. 

NINNE-NANNE

 Bella la faccia, bello il viso, 

bella che mi sembri un paradiso. 

Figlia mia, oh quanto sei dolce, 

la mamma nel suo petto ti conosce! 

L’amore mio, oh quanto è bello, 

gli occhi due stelle, la bocca un anello! 

Figlia mia, oh quanto sei fina, 

fai l’odore d’acqua di caraffina! 

e a-la-vò! 

E a-la-vò, macchia di pero, 

sei macchia d'albicocco damaschino: 

figlia mia, macchia di rosa, 

che ha l’Amore che non riposa? 

Figlia mia, macchia di lauro 

dove cammini ci lasci l’odore. 

Figlia mia, macchia di ruta, 

passa l’Angelo e ti saluta! 

E a-la-vò!

 E a-la-vò, li galeri juncèru, 

e sunnu junti ddocu a lu molu; 

e purtaru sita trucchina 

p'arricamàriti la mantillina; 

sita trucchina, sita ‘ncarnata 

p'arricamàriti la naca. 

E a-la-vò! 

Durmiti, figghiu, ca la naca è nova, 

d'oru li cordi, d'argentu li chiova; 

lu chirchiteddu di curallu finu: 

durmiti, figghiu, sina a lu mattinu. 

A-la-vò ed a-la-ninna: 

dòrrniri voli e di sonnu spinna. 

A-la-vò, dormi ed abbenta: 

voli la naca 'mmenzu la menta. 

A-la-vò, ca dormi e chianci: 

voli la naca 'mmenzu l'aranci. 

A-la-vò, ca dormi e riri 

voli la naca ‘mmenzu l’alivi. 

A-la-vò, dormi e riposa, 

voli la naca ‘mmenzu la rosa.

 E a-la-vò! 


 PROSERPINA 

 Proserpina era figlia della Dea Cerere. 

 Cinta il capo di fiori, e coi piedi scalzi, viveva selvaggia nelle valli e su per le montagne. Amica alle ninfe e ai pastori, ella passava il tempo cogliendo fiori e cantando, cibandosi di frutti e di latte. I mietitori e i seminatori conoscevano il suo riso ed amavano il suo canto. Era bella e forte come tutte le figlie della Sicilia, e portava felice la sua verginità. 

 Ma un giorno l’Etna coi suoi boati fece tremare la terra, e allora il Dio dei morti, Plutone, temendo che da qualche crepaccio non entrasse luce nel suo regno di tenebre, venne su un carro tirato da due focosi cavalli neri come la notte, a fare un giro per l'isola. Arrivato nella valle di Enna, ov'è il lago di Pergusa, egli vide Proserpina che insieme alla compagna Ciane coglieva papaveri e gigli per inghirlandarsene i biondi capelli. Vederla e innamorarsene fu tutta una cosa. Smontato dal carro, ghermì a forza la vergine e stringendola forte al petto la portò con sé. Smorta in viso, Proserpina gettò un urlo di terrore, e stendendo, le braccia all’amica chiamava aiuto: 

 - Ciane, salvami! 

 Ma già il Dio aveva sferzato i cavalli, e partiva al galoppo.

 I MOTTI 

Non è tutto oro ciò che luce, né tutto vero ciò che si dice. 

Nave senza pilota a fondo va. 

Con l'amico patto; col parente contratto. 

Ogni sangue ha il suo colore. 

Lu livanti jinci lu vacanti. 

Chi ha bocca ha spada. 

Dio soltanto è ricco. 

Amare chi non t’ama è tempo perso. 

Bocca piena non parla. 

Il villano allora si corica che non s’alza più.

 CALATAFIMI 

 Udita la nuova della Gancia, Garibaldi decise di affrettare la spedizione in Sicilia. 

 Per giorni e giorni egli andava pensoso lungo la spiaggia del mare, e nel petto gli ruggiva il gran cuore di leone. Talvolta restava fiso lontano, e sentiva la Sicilia insanguinata domandare aiuto. 

 Come finalmente le armi e gli uomini furono pronti, egli ordinò la partenza. 

 La notte del 5 maggio, Nino Bixio si impadronì di sorpresa, nel porto di Genova, dei due bastimenti Lombardo e Piemonte della società Rubattino, e li condusse a Quarto, ch'era il luogo convenuto. Prima dell'alba Garibaldi e i Mille si imbarcarono, e salparono col cuore gonfio di ansiose speranze verso la Sicilia, e le ultime stelle salutarono il cammino degli eroi, sparendo d’un tratto dal cielo. Fatta una breve sosta a Talamone, essi videro dopo sei giorni e sei notti di mare, venirsi incontro da lungi le desiate rive della Sicilia, e gridarono la loro gioia, mentre Garibaldi guardava pensoso con la spada inguaianata sulla spalla. 

 - Sicilia! - lo sentirono mormorare - dà anche a noi le campane dei Vespri. 

 

 Sbarcati a Marsala, appena in tempo per sfuggire all'inseguimento della squadra borbonica che si mise a fulminare rabbiosa la spiaggia e il molo, i Mille con alla testa il biondo Generale si misero subito in marcia.

 Le popolazioni, dapprima diffidenti e dubbiose, via via si accendevano d'entusiasmo, e suonarono a stormo le campane. Il grido della venuta rapidamente si diffuse, e giovani d'ogni ceto, vecchi, monaci, corsero ad ingrossare le fila dei liberatori. 

 Le donne piangevano d’allegrezza e come le antiche di Messina volevano essere le prime alla guerra; i fanciulli si sentivano ingrandire e diventavano atti alle armi. 

 - Viva la libertà! -fu nuovamente il grido della Sicilia. 

 Numerose squadre dipicciotti si congiunsero ai Mille, e battendo avanti la strada verso Palermo rendevano preziosi servigi. 

 A Calatafimi, il 15 maggio, s’impegnò aspra zuffa coi borbonici che il generale Landi aveva disposti per sette scaglioni su un colle difficile alla salita, e i Garibaldini bagnavano di sangue ogni passo in avanti. 

 La difficoltà della posizione, la rabbia dei nemici che, esaurite le munizioni, si difendevano da disperati scagliando sassi e macigni, rendevano quasi perduta la battaglia. Elia, Schiaffino e Sartori, fiore di ogni gentilezza, erano morti, e molti altri ancora. 

 Terreo in volto, Nino Bixio vi volse a Garibaldi: 

 - Generale, se non vogliamo tutti morire, bisogna ritirarsi! 

 Garibaldi lo fulminò dagli occhi, e sguainando la spada che fra le 

 sue mani avvampava, gridò: » 

 - Qua si fa l’Italia, o si muore! 

  Primo fra tutti si slanciò Bixio, come a cercare la morte, e in tutti l’ardore si moltiplicò. Ancora uno sforzo sanguinoso, e il colle fu conquistato. Sconvolte, le truppe borboniche si diedero alla fuga, e scortate dalla cavalleria sparirono lontano, alla volta di Palermo. 

 Calatafimi festante accolse i liberatori, e nella chiesa, cantato il Te Deum, un monaco benedisse nel nome di Dio, Garibaldi. 

 La marcia continuò fra il crescente entusiasmo, e i paesi man mano si svegliavano alla libertà, suonando a gloria le campane. 

 La colonna andava ebbra di gioia cantando, e la Sicilia amorosa e selvaggia tutta risuonava alla cadenza dei passi. La campagna in fiore odorava come un giardino, e i campi di spighe ammantavano di verde i monti e le pianure. Un meraviglioso splendore era nell'aria. 

 Finalmente da lontano apparve agli occhi dei Mille Palermo, la bianca regina del mare, e tutti ammutolirono guardando, col cuore ansante; e Garibaldi additandola con la mano, disse: 

 - Domani bisogna che essa sia nostra! E l’indomani Palermo fu presa, e da Palermo cominciò l'Italia. 

LE TRE PIAGHE DELLA SICILIA 

 Le tre principali piaghe della Sicilia sono: la mancanza di scuole, il latifondo, la malaria. 

 La mancanza di scuole costringe il contadino nell'ignoranza; e l’ignoranza annebbia i cuori e i cervelli. Fa l'uomo barbaro e superstizioso. 

 Il latifondo, che spesso nell’interno è un vero deserto, per la difficoltà delle comunicazioni e la lontananza dei centri abitati, rende più penoso il lavoro umano e favorisce il delitto e l’abigeato

 La malaria e il flagello fisico aggiunto ai flagelli morali. Essa mina la salute del contadino, e gli fa il pane più nero e più dura la miseria. 

 Che bisogna fare per combattere queste tre piaghe? ' 

 Qualche cosa ha fatto l’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d'Italia, aprendo scuole serali e festive, impiantando e sussidiando sanatori e colonie marine per i bimbi poveri, regalando libri utili e dilettevoli. 

 Ma molto dobbiamo fare noi stessi, ognuno per quel poco che può; molto devono fare i ricchi che dei sudori del contadino traggono i migliori frutti, molto ha fatto e deve fare l'Italia, di cui la Sicilia è la più bella gemma. 

IL VERSO 

 A ognuno conosci il suo verso: la zappa si prende per il manico; il fuoco non s'acchiappa con le mani. La terra ti rende di più se la sai lavorare: così l'uomo. 

 Non c'è bestia che non abbia il suo vizio; non c'è cosa senza il suo modo. 

 E si dice: - ogni legno ha il suo fumo, ogni uomo il suo costume. 

 TIFEO 

  Raccontavano gli antichi che una volta vissero sulla terra dei giganti smisurati e fortissimi, che venuti in superbia per la loro potenza, non vollero più riconoscere l'autorità di Giove, padre degli Dei, e pensarono di spodestarlo. 

 Tagliate delle montagne, le posero le une sulle altre, e armati di macigni diedero la scalata al cielo. 

 Ma Giove, fattosi fabbricare dei fulmini, come salivano man mano li fulminava, ed essi rotolavano giù rumorosamente, squassando la terra. 

 Ultimo restò Tifeo, il più gagliardo e il più superbo di tutti. 

 Dopo terribile lotta Giove lo vinse, e aiutato dagli altri Dei lo legò supino alla Sicilia, che egli con la sua mole occupava tutta da Peloro e Pachino sino a Lilibeo, e perché non potesse più muoversi gli mise sulla testa il monte Etna. 

 E così ancora resta il gigante. Ruggendo di collera egli tutto si torce cercando di liberarsi, e dei suoi sforzi trema ogni volta la terra; e per la rabbia vomita dalla bocca fuoco e fiamme. 

 IL GALLO 

 Il Gallo è Gaudio di casa. Dove squilla il suo canto c'è vita d’uomo. 

 Egli ha corona di re in testa, e comanda meglio di un re. Annunzia l'alba al cielo e alla terra: la natura si sveglia al suo comando, il viandante si mette in cammino. Segna le ore di sonno al contadino che dorme, e ogni ora che passa lo avverte col suo chicchirichì. Se il tempo muta, canta alla distesa, e il villano sa regolarsi. 

 Il gallo è stato sempre l’amico dell'uomo. 

 Anticamente, chi guariva d'un male portava in ringraziamento un gallo al Dio della salute. Gesù disse a Pietro: - Prima che il gallo canti tu mi avrai rinnegato tre volte. 

 Quando hai commesso una cattiva azione, o contadino, il gallo canta per ricordartelo; e ti insegna anche che c'è sempre qualcosa da fare. 

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