Denaro non significa successo.
I senatori in carica in questa legislatura hanno presentato richiesta, per sé medesimi, perché i loro vitalizi vengano calcolati con il metodo retributivo anziché con il contributivo, metodo quest’ultimo che è valido da tempo per tutti i comuni cittadini, per tutti gli italiani.
Qualsiasi studente sa che le riforme di natura retributiva non possono essere retroattive; e d’altronde le riforme delle pensioni hanno danneggiato sia i comuni mortali che i parlamentari; parlamentari che però hanno il vantaggio -in Italia- di poter scrivere da se stessi le regole e persino le leggi che li riguardano.
Gli incassi dei parlamentari non sono solamente quei 4.718 euro al mese, come ha provato a far credere in aula l’onorevole Fassino (parlamentare pd) alcune settimane fa. Sappiamo tutti che le varie e vere voci del cedolino dei parlamentari sono il triplo, cifre che non le guadagna nessun lavoratore dipendente e (lo scrivono i giornali) neppure i chirurghi che salvano vite e i magistrati che decidono sulle vite.
Certo, il discorso sull’avidità riguarda tutti, politici e non. Qualcuno ha detto: «Il metro del successo è il denaro». Forse costui potrebbe avere ragione se solo aggiungesse contestualmente la capacità di creare lavoro, innovare, lasciare traccia di sé, partecipare nel garantire la sanità, l’istruzione, la sicurezza ai propri compatrioti.
Riflettiamo: se la misura del successo dell’uomo è il denaro, allora i più grandi italiani — san Francesco che si spoglia dei suoi averi, Dante che muore in esilio, Cristoforo Colombo che si spegne in povertà, Garibaldi che dal Regno di Napoli porta via solamente un sacco di sementi e uno scatolone di merluzzo secco — erano dei falliti.
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