27 Settembre 1557
Palermo: una spaventosa
alluvione provoca un’ondata di fango che
dai monti sovrastanti la città, si riversa su di essa lasciando per le vie una
scia di morte e distruzione. Le vittime furono più di 7000.
Riportiamo la
descizione di quell'evento come curata da Rosario La Duca (1923-2008), storico dell'arte, ingegnere, accademico e politico palermitano.
Un evento segnalato dagli annalisti che si limitano a registrare l’evento e ad attribuire la responsabilità dell’alluvione a un gabelliere che avrebbe ostruito con delle fascine il condotto del maltempo per impedire il contrabbando. L’occasionale rinvenimento della relazione di Pietro Agostino, Maestro Razionale del Regno ma anche umanista e collezionista di antichità, inviata al vicerè Juan de la Cerda duca di Medinaceli il 7 ottobre 1557 permette non solo di ricostruire l’evento, ma anche di comprendere come incise sul tessuto economico e sociale della città. Agostino inizia il suo racconto delineando le cause idrogeologiche che hanno provocato l’inondazione. Le acque meteoriche da Monreale s’incanalavano nella depressione che porta alla fossa della Garofala (viale delle Scienze) e scendevano nell’avvallamento posto nei pressi della chiesa di nostra signora de Ytria o della Pinta (Porta di Castro) da dove, utilizzando una canalizzazione sotterranea (condutto di maltempo), giungevano sino alla chiesa di San Sebastiano e al piano del Tarzanà per riversarsi in mare. Il Senato di Palermo, conscio del pericolo, aveva costruito nel 1554 un canale di gronda e un muro-diga (una sorta di briglia) a due miglia della città (circa 3 Km.) all’altezza del ponte di Corleone (Baby Luna) per intercettare le acque che scendevano da Monreale e scaricarle nel fiume Oreto. La messa in sicurezza di quest’area della città è legata alla fase espansiva economica e demografica che caratterizza la Palermo del 500. Nel 1505 gli abitanti della città ammontano a 25.000 anime, mentre nel 1570 saranno 70.000. Un motore di crescita formidabile che innesca ricadute economiche e sociali oltre a promuovere un rinnovamento della struttura urbana cittadina. Palermo si accinge a diventare una città rinascimentale che può competere con altre realtà urbane italiane ed europee. Bisogna recuperare aree destinate all’edilizia abitativa, anche se sottoposti a rischio idrogeologico come quelle che insistono nell’area del Kemonia, tradizionalmente sottoposte a inondazioni in caso di maltempo, marginali rispetto alla città medievale felicemente collocata su uno sperone roccioso che la mette al riparo dalle alluvioni. Bisogna favorire la lottizzazione e la speculazione edilizia poichè la città ha fame di spazi edilizi. Il farmacista La Valli, con il capitale accumulato esercitando l’arte dell’aromataria e del prestito a usura, inizia a comprare giardini nell’area soggetta al rischio d’inondazione in caso di maltempo (via Castro), dando il via a un piano edilizio che permetterà la realizzazione di 500 abitazioni. Un evento meteorico eccezionale mette in crisi sia il muro-diga, sia i palazzinari. Tra il 21 e il 22 settembre 1557 inizia a piovere senza alcuna pausa sino al 27 quando le precipitazioni s’intensificano rovesciando sulla città e il contado acqua senza fine et cum vehemenzia extrahordinaria. Il muro-diga di ponte di Corleone non riesce a contenere la piena e l’acqua scolma verso la fossa della Garofala e si accumula nella depressione sotto le mura della città sino a toccare i 4 metri di altezza. Verso il vespro (al tramonto del sole) del 27 le precipitazioni assumono le caratteristiche di un nubifragio e il muro-diga cede. L’onda di piena con il suo carico di fango e detriti si riversa verso la città con multa furia e intorno alle 20 colpisce le mura, spesse un metro e ottanta, all’altezza della chiesa dell’Ytria, detta anche della Pinta, come un maglio provocando una breccia lunga m. 44 metri e alta m. 4 (ampia circa 176 mq.) spandendone i detriti per un’area di circa 80 metri. Testimoni impotenti alcune persone che erano sugli spalti del palazzo reale che non poterono fare altro che gridare il loro terrore mentre crollavano la chiesa dell’Ytria e cinquecento case de novo fabbricate travolgendo tutti gli abitanti. L’onda di piena si riappropria del corso del Kemonia continuando il suo percorso sino a Ballarò e allagando la piazza che insiste sul fronte della chiesa del Carmelo. Prosegue per Rua Formaggi e la Ferraria (via dei Calderari) danneggiando il monastero della Martorana e quello della Moschitta oltre a far crollare molte case. Incanalandosi per la via dei Lattarini l’acqua si divide in più braccia: una parte allaga la Vucciria vecchia, mentre un’altra distrugge i magazzini di frumento vicino la chiesa di nostra signora della Misericordia e i depositi di legname. Le travi trasportate dalla furia della piena martellano come degli arieti le case e le botteghe della Loggia (il cuore pulsante della finanza palermitana) e ne fanno crollare 14. L’onda di piena s’incanala, quindi, nella strada della Merceria per dirigersi verso la Cala dove, abbattendo le mura vicino alla Dogana vecchia, esaurisce la sua corsa devastatrice gettandosi in mare. La massa d’acqua che si è riversata nelle strade della città è imponente dato che raggiunge nelle strade coinvolte un livello che oscilla tra m. 1,50 e m. 3. Le prime luci dell’alba illuminano una città devastata e invasa dal fango e dai detriti: i cadaveri giacciono nelle strade, nelle chiese, sotto le macerie e nel mare, dove galleggiano accanto alle carogne degli animali sorpresi nelle stalle. Agostino riesce a descrivere l’orrore di quell’evento con poche ed efficaci parole: horribile la obscurità della notte, li terremoti delle case che cascavano, li stridi de li homini, li ululati delle donne et lo spavento della morte con la continua pioggia. Il Maestro Razionale, esaurita la descrizione dell’evento, tenta di fare un bilancio dei danni subiti dalla città: le vittime sono almeno duemila senza contare le persone trascinate in mare dall’onda di piena e difficilmente recuperabili; gli animali da soma morti superano le 200 unità. La stima delle perdite subite per l’evento calamitoso è di scudi 200,000 computando: un migliaio di case completamente distrutte, moltissime altre gravemente danneggiate; oltre 3000 salme di frumento conservate nei magazzini della Misericordia irrecuperabili; merci, tessuti, arredi di numerosissime case e di due aromaterie (farmacie) scomparsi nel fango. Il Pretore e i giurati palermitani organizzarono i soccorsi ripulendo le strade, puntellando le case pericolanti e, soprattutto, facendo seppellire i morti e allontanando gli animali morti della città consapevoli dei rischi di un’epidemia che avrebbe avuto effetti devastanti. Un vero e proprio flagello di Dio che il Cardinale di Palermo esorcizza imponendo con bando: tre giorni di penitenza, confessioni, digiuni e partecipazione a processioni oltre al sacramento della comunione. L’alluvione se da un lato provoca lutti e rovine, dall’altro accelera i processi urbanistici già in atto. Una tempesta perfetta provocata da un evento meteorico eccezionale che s’innesta sui guasti provocati dall’azione degli speculatori edilizi e sulle difficoltà da parte dell’amministrazione comunale di mettere in sicurezza il territorio.
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