Il mondo che gira al contrario
1) Gli ex comunisti oggi sono liberisti
2) La Previdenza è nuovamente in attesa della controriforma
EMANUELE MACALUSO, già dirigente della Sinistra
NEL VOCABOLARIO ALLA PAROLA SOCIALISMO
Nadia Urbinati insegna alla Columbia University e da molti anni scrive su La Repubblica. E scrive sempre cose interessanti anche se a volte non coincidenti con le mie idee. Cose interessanti perché segue con intelligenza e passione le vicende della politica della sinistra, non solo in Italia. Oggi il suo articolo ha un titolo stimolante: “Se la sinistra dimentica il socialismo”. Un titolo che è già un richiamo alla realtà in cui viviamo, in un Paese come il nostro dove la sinistra che si richiama al socialismo ha una storia antica e forte ma dove oggi non c’è più un partito che si richiami al socialismo, nemmeno nel nome. In nessun Paese europeo i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti hanno cancellato un riferimento alla nascita stessa di quel partito.
In Italia il partito socialista è praticamente scomparso per le vicende note e su cui si è tanto discusso. Il Pci, dopo la svolta del 1989, si chiamò Pds. In quegli anni, chi rifiutò la svolta costituì il partito della Rifondazione comunista, oggi pressoché sparito. Nel Pci-Pds fu solo l’area riformista a proporre un nome che richiamasse la matrice socialista. Sia chiaro, il problema non è solo nel nome ma soprattutto nella sostanza politica. Infatti, la Urbinati di questo si occupa e inizia scrivendo di quel che in questi giorni è avvenuto in Spagna, una nazione che non ha mai cessato “di avere un partito socialista che non disdegna di identificarsi con le idee socialiste”. La Urbinati ricorda che l’attuale leader socialista, Pedro Sánchez, non ha giurato sulla Bibbia e ha formato un governo per la maggioranza composto da donne.
Sappiamo bene che il socialismo non è la costituzione della città del Sole ma è il riferimento ad un cammino su una strada da costruire, con una politica sociale da fare valere nella società di oggi, in competizione con chi difende l’esistente. La Urbinati scrive: “L’assenza della parola socialismo dal vocabolario della sinistra italiana, non solo del Pd, denota la trascuratezza di alcuni principi: uguaglianza di condizione per godere di una cittadinanza non fittizia, solidarietà con chi ha bisogno di intervento sociale, non per elargire pochi denari ma per rimuovere gli ostacoli che impediscono di godere della libertà che i diritti riconoscono, libertà di progettare e fare, di respirare a pieni polmoni la condizione umana. Insieme a questi nomi di principi sono stati accantonati i nomi di condizioni problematiche”.
Io condivido queste riflessioni e anche le indicazioni di Nadia Urbinati dal momento che lei indica una linea politica di un partito che si definisce di sinistra o anche di centrosinistra. Penso che la battaglia politica nel Pd e nell’area più larga del centrosinistra debba svolgersi su questi temi.
GIULIANO CAZZOLA, economista esperto in materia previdenziale
Man mano che si concretizzano le proposte del governo giallo-verde in materia di pensioni emergono non solo differenti posizioni tra i due partiti della maggioranza, ma anche soluzioni per lo meno strambe, tanto da smentire il povero Polonio, il quale non riuscirebbe ad intravvedere nella loro follia la logica che trovava in quella del principe Amleto. In sostanza, la revisione della riforma Fornero (quota 100 come somma dei requisiti anagrafici e contributivi o 41 anni di versamenti a prescindere dall’età), di antica matrice leghista, si aggiunge al sarchiapone della pensione di cittadinanza, inventata e proposta da Beppe Grillo nelle ultime battute della campagna elettorale. La prima misura, di carattere previdenziale, vuole favorire le persone che sono entrate presto nel mercato del lavoro, ci sono rimaste a lungo in modo generalmente continuativo e sono in grado di presentarsi, tutt’altro che anziani, all’appuntamento con l’agognata quiescenza.
La seconda è un classico provvedimento di natura assistenziale
che, per l’importo garantito (un trattamento mensile di circa 800
euro lordi), incentiverebbe – al di là dei costi
– l’evasione contributiva. Fin qui, non c’è nulla di nuovo sotto il
sole; non sarebbe la prima volta che delle contorte alleanze
politiche impongono una sommatoria delle rivendicazioni di ciascuna forza che
vi partecipa. Del resto, la coalizione di centro-destra aveva inserito nel
programma il progetto di elevare a mille euro mensili il livello della pensione
minima. Il fatto è che, più si approfondiscono i problemi attraverso lo
stillicidio di frammenti di proposte, ancor più si
divarica l’impostazione dei ‘’verdi’’ rispetto a quella dei ‘’gialli’’. Soprattutto
da quando è sceso in campo il prof. Alberto Brambilla, da sempre ideologo
previdenziale del Carroccio: una persona di sicura
competenza (probabilmente entrerà a far parte dell’esecutivo), in mezzo ad
massa di suonatori ad orecchio del pettine e la carta velina.
Leggiamo un brano del Quinto Rapporto di Itinerari previdenziali: ‘’ per contro la
spesa per assistenza, come si è evidenziato più volte, rischia di andare fuori
controllo anche a causa della eccessiva competizione politica che la incrementa
di anno in anno (si veda il recente aumento delle quattordicesime mensilità e l’introduzione
del REL) senza peraltro armonizzare le norme di accesso e prevedere forme di
controllo efficaci attraverso il casellario centrale dell’assistenza, mai
partito, che potrebbe generare migliore allocazione delle risorse e
risparmi’’. Come si concilia una siffatta affermazione con l’introduzione
di una bizzarra ed onerosa pensione di cittadinanza? Il pensiero
di Alberto Brambilla risulta ancora più chiaro da un altro punto di vista:
‘’Sono quindi preferibili politiche – è scritto nel Quinto Rapporto
– che tendano a premiare il “lavoro”, la “fedeltà contributiva” e le lunghe
carriere per cui l’indicizzazione dell’età di pensionamento alla aspettativa di
vita resta un requisito irrinunciabile per gli equilibri del sistema
(soprattutto per le pensioni di vecchiaia con carriere brevi e per quelle
assistenziali), ma occorre altresì reintrodurre elementi di flessibilità in
uscita ripristinando le caratteristiche della legge n. 335/1995.Brambilla è
il patron di Itinerari
previdenziali, una fondazione che presenta ogni anno un
interessante rapporto il quale tiene insieme, con un certo
rigore, tutti gli aspetti riconducibili ad un sistema di sicurezza
sociale e al suo finanziamento. Da vigoroso uomo del Nord, il nostro è
molto critico dell’andazzo assistenziale italiota che rappresenta i pensionati
come un esercito di poveri in canna. E, quindi, ritiene che il Paese
non sia fuori linea per quanto riguarda la c.d. previdenza, ma che abbia troppo
piombo nelle ali per colpa della spesa assistenziale. Sono idee parecchio
discutibili, ma non è questa la sede per ridiscutere il falso mito della
separazione dell’assistenza dalla previdenza. Ci interessa piuttosto ricordare
che Brambilla sostiene che il riequilibrio dei conti pubblici deve avvenire a
spese dell’assistenza.
Ma il bello deve ancora venire. A chi scrive non piace
partecipare al gioco delle coperture con il quale si cerca di incastrare la
nuova maggioranza. Soprattutto se si parla di pensioni. Tanto più che negli
ultimi giorni lo stesso Brambilla ha reso note alcune proposte per quanto
riguarda lo ‘’stop’’ alla legge Fornero che hanno meravigliato chi
scrive. Il saccheggio della riforma del 2011 verrebbe realizzato così: i
requisiti di quota 100 e dei 41 anni (c’è chi dice 41 e mezzo) sono i punti di
riferimento certi. Ma potrebbe optare per il
primo solo chi è in possesso di un’età minima di 64 anni.
In ambedue i casi – a quanto pare – farebbero anzianità tre anni al massimo di
contribuzione figurativa. Inoltre, per le nuove pensioni, il periodo intercorrente
tra il 1° gennaio 1996 e il 31 dicembre 2011 sarebbe calcolato con il metodo
contributivo anche per coloro ai quali la riforma Dini aveva garantito la
permanenza nel retributivo (quanti, alla fine del 1995, avevano
maturato almeno 18 anni di anzianità contributiva).
In sostanza, quello che non si ebbe il coraggio di fare allora
(cioè passare tutti al calcolo contributivo pro rata dal 1° gennaio 1996)
sarebbe attuato ora in modo sostanzialmente retroattivo. Sfugge la
logica di un’impostazione siffatta (peraltro meno conveniente dell’utilizzo
dell’Ape sociale, che invece sarebbe abolito), rivolta ad anticipare di poco la
possibilità di andare in quiescenza a spese della adeguatezza
dei trattamenti, in linea generale ridotti. Vuol dire che tra pochi mesi
assisteremo a grandi manifestazioni raccolte dietro un grande striscione con la
scritta a carattere cubitali: “aridatece la Fornero".
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