di Paolo Borgia
Il contesto dell’Arbrescio del Belìce e dintorni
Il contesto dell’Arbrescio del Belìce e dintorni
Il linguaggio è un prodotto
umano, è parte della vita degli uomini e, per questo, frutto delle loro
decisioni ma in modo collettivo, riflesso sociale peculiare, immagine del
proprio mondo reale e mitologico -Costantino,
Morea, Skanderbeg. Non c’è un potere indipendente da noi che dà significato
alla parola. La tradizione, oggi si stempera rapidamente e con essa la lingua
muta o scompare. Riflettere sulla nostra lingua che interagisce col ricordo
delle condizioni esistenziali di appena ieri della nostra popolazione ha la
pretesa di rendere omaggio a quel Bene Culturale immateriale chè l’Arbrescio
Le relazioni. I nostri padri ci
tenevano che si mettesse il loro nome ai propri nipoti. Una forma certamente di
orgoglio personale ma anche una sicura forma di economia comunitaria. Infatti se
un ragazzo era interpellato da un adulto, la prima domanda che gli veniva posta
era: «Di chi sei figlio? – Kujt je bir?». E la risposta, « Sono il figlio di Felice
di Filodoro – Jam i biri i la’ Gazmënit të Fillarit», consentiva all’adulto di
accostare mentalmente la persona giovane ad un suo coetaneo sicuramente
conosciuto - si conoscevano tutti in paese.
Come al Signore e a Maria,
anche agli uomini e alle donne si usava dare del ‘tu’. Alle persone più anziane
– anche di poco – ci si rivolgeva aggiungendo forme di cortesia. Così, a «Scusi
Signore, Signora» corrispondeva «Ti Burrë, ti Grua! Zoteria Jote (o) Zotrote (o
ancora) Strote».
E’ evidente che la apparente
impertinenza relazionale è poi in realtà
vincolata ad una gerarchia sociale legata alla età, oltreché alla ricchezza,
alla appartenenza di ceto in ordine decrescente: degli agricoltori, degli artigiani,
dei lavoratori giornalieri. Dunque chi era più giovane doveva interpellare i
più anziani che si conoscevano, facendo precedere al nome il titolo di ‘lala’
se uomini e quello di ‘vova’, se donne e questo obbligo comprendeva anche i
fratelli e le sorelle maggiori. Per esempio: La’Ndoni, Vo’Mariqja.
Facevano eccezione gli artigiani. Il loro titolo è ‘Mas’ (forse da ‘mas-misuro’
o dal siciliano ‘Mastru’, per esempio: Mas Paluci, Mas Mara, anche se parlando
con loro (e di loro) si chiamavano ‘Mjeshtër’ o anche ‘Zoti Mjeshtër’. Senza
far differenza per i maestri di scuola. Oggi, per questi, è entrato nell’uso ‘Mësuesi,
Mësuesja’ (a la shqipa), parole che vengono da ‘mëson – insegna’. _________
Le case. La
maggior parte delle case erano eufemisticamente ‘au rez-de-chaussèe’. Erano in
realtà il più delle volte dei ‘loft – katonj’, dei bassi con una sola luce, monolocali
in cui animali – galline, capra, mulo – ed esseri umani condividevano la loro
grama vita. Mercè questa angusta esiguità delle abitazioni la strada si
trasformava in una sorta di salotto comunitario, in cui di giorno ci si
riversava: la ‘gjitonia’, un promiscuo vicinato. Accanto all’uscio – përkrahu
pragut –, chiuso dal portone notturno e dalla mezzaporta con gattaiola, c’era spesso una grossa panchina di pietra: dhoqéja.
Serviva per salire sul mulo, ci si sedevano le donne all’alba per spettegolare
mentre si pettinavano – krëheshin – magari
col pettine fitto e facevano le trecce – këshetë –. Vi si lucidavano le pentole
– kusìtë di rame, si ricevevano visite brevi, ecc. _________
Nonni Gjish-i
(tatëmadh-i, tot-i, nan-i, non-i) Gjish-e -ja (non/ë -a)
Gentori At/ë -i (tat-a) [patrigno
= i njerk-u] < prind-i
> Ëm/ë -a (mëm/ë -a, mo) [e njerk/ë -a]
Figli Bir
-i
Bi/jë -ja
Fratelli Vëllà
-u/-i [adottivo=i gjetur] Mot/ër -ra
Signor Lal/ë
-a Vov/ë -a
Coniugi
i
Shoq -i e Shoq/e -ja
Zii di sangue i
Un/gël -gli e Emt/ë -a
Zii legali
Lalëbukur -i Nus/e -ja
Zii (domestico)
Vov -i (vëllà i tatës, i mëm Motërmëm/ë
-a Motërtat/ë -a
Nipoti i
Nip -i e Mbes/ë -a
Suoceri i vjeh/ërr -rri
e Vjeh/ërr -a
Genero e nuora i dhënd/ërr -rri e Re -ja
Fidanzati
dhënd/ërr
-rri
Nus/e -ja
ecc._________
Possiamo notare come il grado
di parentela ha una gamma di termini molto estesa: una prima serie, direi quasi
legale ed una seconda più familiare. Con i parenti acquisiti c’è quasi un
rispettoso distacco. E’ da notare come da tempo immemore i coniugi qui si sono chiamati ‘il compagno e la compagna’,
segno di una parità tra di loro che solo oggi in molte altre zone europee si è
raggiunta.
Da tutti gli studiosi è
notata la parola ‘motër’ che non vuol dire ‘madre’ come nelle altre lingue
bensi ‘sorella’, tuttavia il termine
‘mo’ depone per un probabile precedente significato di motër. Però, per quello
che è il nostro discorso, la parola più interessante è “At o Atë”. Questa come molte parole fanno il
plurale addolcendo la vocale “a” divenendo “etra”. Ma oltre a ciò, anche nel
singolare addolcisce la vocale come per esempio: la casa di tuo padre - shpìa e
t’yt eti, l’ho data a tuo padre - ia
dhash t’yt eti. Questa come molte
altre singolarità rendono problematiche le origini dell’Arbrescio. A me sembra
che ci troviamo davanti a due o più lingue che si sono incastrate nel tempo una
nell’altra dopo aver passato la verifica della orecchiabilità. Una lingua,
forse semplice, ma non facile.
Salve
RispondiEliminaLe relazioni
Penso che il fatto che i padri tenessero, al che, i loro nomi venissero messi ai nipoti non sia un fatto di orgoglio,ma l'evidenziarne il DNA. Ovvero un principio di onore.
Molti valori oggi vanno perduti,ad esempio il sentimento di metterne il nome anche soltanto per rendere culto ad un genitore morto,oppure perché si ha un legame profondo con il genitore.
Sicuramente molti nomi sono brutti,ma a volte prenderne le lettere e farle ruotare può trasformare quel nome in un nome non comune,in un nome apparentemente moderno senza nulla togliere alle proprie idee e valori.
,Questo,però, penso che sia quello che non si capisce e di conseguenza si pensa che non esista più" usare il nome dei nonni"
Come dice il Papa nella messa a S.Marta :anche oggi c'è dittatura del pensiero unico.
Penso sia una voglia di modernità senza senso,mentre rinnovarsi e rimanere nelle proprie tradizioni è un continuo lavoro di fantasia.
Nell'uso di Strote ad esempio,so che non è più usato perché appunto rivolto a persone anziane.
Ma se dovessi rivolgermi ad una persona con eleganza e di conseguenza con il LEI
Come dovrei dire?
Ecco che per evitare che gli stessi arberesh si offendano si usa l'italiano.
Saluti
Io risponderei "strote"
EliminaSe diamo del tu a Dio Ati yn çè "je" nè qiell oppure a Maria "ti çè ruajte gjishtrat tané, possimo dare del tu a tutti. Poi ognuno fa come vuole
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