Mi ha colpito la lettura del Vangelo di Matteo, rivolto agli Ebrei. Il Vangelo dell'ex pubblicano in effetti vuole dimostrare che Gesù è il Messia che realizza le promesse dell' Antico Testamento. Nel mirare a questo obiettivo ha forti punte accusatorie nei confronti di farisei, grandi sacerdoti e scribi, che "avevano deciso di eliminare Gesù".
l l dibattito pubblico italiano dei nostri tempi è spesso caratterizzato dall'intenzione di avere nell'Ordinamento giudiziario i "processi giusti". Sorge allora spontanea la domanda: il processo al Nazareno fu o no un processo giusto ?
Per processo giusto ovviamente si intende quello che si svolge nel rispetto delle procedure di legge e delle garanzie degli imputati.
Dai Vangeli sappiamo che quello fu un processo ingiusto, una farsa di processo.
Seguiamo ciò che accadde.
Il Nazareno fu arrestato per "blasfemia" perchè si era dichiarato messia, "figlio di Dio". Il procedimento avrebbe dovuto concludersi nell'ambito religioso; avrebbe dovuto condurre solamente a una dichiarazione di colpevolezza non potendo il "Sinedrio", una sorta di Gran Consiglio dell'antico ebraismo, emettere condanne capitali dal momento che sull'intera Palestina vigeva il dominio romano.
Il Nazareno viene invece condotto, su volontà del Sinedrio, davanti al governatore romano Pilato per rispondere dell'accusa di "sedizione" ai danni dell'Impero. Pilato -stando ai Vangeli- non ravvisa elementi di colpevolezza e tenta di allungare il procedimento, voluto dai rappresentanti del Sinedrio, con
-il rinvio dell'imputato alla giurisdizione di Erode;
-il sottoporre al popolo demagogicamente aizzato e controllato dal Sinedrio la scelta fra la liberazione di Gesù e di Barabba, nella speranza che la scelta cadesse sul primo;
-la flagellazione che avrebbe dovuto servire a commuovere il popolo e farlo recedere dalla richiesta della crocifissione.
Il ricorso alla "politica" a cui si affida Pilato, ossia il ricorso demagogico al popolo (finta democrazia), si ritorce contro il governatore che subito viene accusato -dal popolo- di non agire da amico di Cesare Augusto se non condannerà un "sedizioso" che aveva attentato (proclamandosi Messia) alla pace romana in terra di Giudea.
Dal comportamento pseudo democratico Pilato è costretto a recedere e sulla spinta della pressione popolare -ricattato- pronuncia la sentenza di morte per crocifissione. La crocifissione era una pena prevista dall'Ordinamento romano, non in quello ebraico.
Conclusione:
Quello subito dal Nazareno è stato "un processo ingiusto", oggi diremmo che quella fu una "Giustizia ingiusta". La politica prevalse sulle leggi e sul "giudice costituito" che, vergognosamente, si tacita la coscienza con il gesto di lavarsi le mani.
Quel processo si svolse in buona sostanza davanti ad un giudice che non godeva della libertà di giudicare. Il giudice fu ricattato nell'emettere la sentenza: "se non condanni Gesù non sei amico di Cesare Augusto".
Se quella fu la farsa di processo che esce fuori dai Vangeli, scritti dopo più elaborazioni e con intenti teologici, esiste nell'ebraismo moderno una versione dei fatti che contesta -con basi giuridiche sugli ordinamenti romani ed ebraici dell'epoca- quei procedimenti giudiziari.
Un libro di Chaim Cohn, ex ministro della Giustizia israeliano "Processo e morte di Gesù - Un punto di vista ebraico", la cui edizione italiana è curata dall'ex giudice costituzionale Gustavo Zagrebelsky, tenta di smentire la versione dei fatti evangelici, che chiaramente mirano a far ricadere la responsabilità della morte di Gesù di Nazareth sugli ebrei.
Il voluminoso libro non contesta i singoli episodi evangelici ma mira a collocarli all'interno dei procedimenti legali allora vigenti e sintetizzando asserisce che non c'è stato alcun processo ebraico davanti al Sinedrio ma solamente quello di "lesa maestà" celebrato dai romani che si concluse con la condanna a morte di Gesù e poi eseguita dai romani stessi. Gli ebrei, secondo Cohn, non svolsero, ne avrebbero potuto svolgere, alcun ruolo nel processo romano. Il processo si sarebbe svolto nel rispetto delle regole romane nei confronti di qualsiasi accusato di "sedizione". La riunione del Sinedrio avvenuta nella casa del sommo sacerdote, in forma del tutto inusuale in piena notte, fu un tentativo di convincere Gesù ad abbandonare le sue rivendicazioni messianiche per rendere difendibile la sua posizione, altrimenti irrimediabilmente compromessa, nel processo che si sarebbe celebrato la mattina seguente davanti al governatore romano.
Le conclusioni di Cohen, esperto di diritto romano ed ebraico, appaiono sorprendenti. Egli trasforma la vicenda del Nazareno in una tragedia ebraica: "Gesù era un ebreo che, a Gerusalemme, col suo popolo visse, insegnò, combattè e morì" essendo sottoposto a "un processo romano, conclusosi con una condanna penale romana, eseguita da carnefici romani".
Al di là della tesi sviluppata, la conclusione a cui perviene l'autore è innovativa pure per il mondo ebraico perchè è -dopo duemila anni- una riappropriazione di Gesù da parte del popolo a cui appartenne.
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