Tomaso Montanari (1971), professore ordinario di Storia dell’arte moderna
all’università di Napoli Federico II.
È editorialista per la Repubblica
e vicepresidente di Libertà e Giustizia.
Ha pubblicato un e-book con Micro-Mega per spiegare su n. 8 interventi le ragioni del NO al Referendum del 4 Dicembre.
(lo pubblicheremo in più tempi)
(pubblicheremo ovviamente ragioni del SI)
(lo pubblicheremo in più tempi)
(pubblicheremo ovviamente ragioni del SI)
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I
LA QUESTIONE OMERICA
E IL REFERENDUM COSTITUZIONALE
Una mattina di novembre, mentre cercavamo di schivare le pozzanghere
di San Frediano correndo per arrivare a scuola prima
della campanella, mia figlia Maria – che va in prima media – mi
ha chiesto: «Babbo, ma perché dobbiamo studiare la questione
omerica?».
Non ero ancora del tutto sveglio, era davvero tardi e stava
iniziando a piovere, così ho cercato di cavarmela nel modo più
sintetico: «Per capire se al referendum sulla Costituzione si deve
votare Sì o No».
Ovviamente, ho peggiorato le cose: «Questa stasera
me la spieghi, babbo!», mi ha detto, con uno sguardo severo.
Già, perché la Repubblica crede che sia utile che a undici anni
gli italiani studino il dibattito secolare sui poemi omerici?
Se lo deve essere chiesta anche la ministra Stefania Giannini,
concludendo che «l’Italia paga un’impostazione eccessivamente
teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche.
Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone
altamente qualificate come il mercato richiede è necessario
imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana, svincolandola
dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica
e troppo teorica».
Parole che echeggiano quelle della relazione
introduttiva al disegno di legge costituzionale firmato da
Matteo Renzi e Maria Elena Boschi – sì, proprio quello su cui voteremo
il 4 dicembre – dove si legge che la Costituzione deve cambiare
a causa delle «sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale».
Se la Repubblica obbedisce al mercato, si capisce che la sua
scuola pubblica non serva più a formare cittadini, ma consumatori
e operatori economici. E dunque a cosa mai potrebbe servire
conoscere Omero?
Si potrebbe rispondere che Omero ci riguarda, perché non c’è
giorno che non usiamo le sue parole: se dico che il «tallone d’Achille»
del governo è il legame con le lobbies, alludo ad Omero. E
anche quando il presidente del Consiglio dice che i professori del
No sono delle «Cassandre» cita Omero: anche se non ricorda che
Cassandra era, sì, un po’ drammatica, ma diceva la verità quando
ammoniva i suoi concittadini troiani a non aprire le porte della
città al bellissimo cavallo di legno, perché è dal ventre di quel cavallo
che uscirono i Greci, con le spade e le torce.
Ma se questo fosse
l’unico motivo, Omero basterebbe leggerlo.
E invece no, ai nostri ragazzi ricordiamo che c’è stata una lunghissima
discussione, che ancora continua, sulla genesi dell’Iliade
e dell’Odissea: da secoli ci si chiede se questi meravigliosi poemi
siano stati scritti da un unico autore, quando ciò sia potuto avvenire,
e se quell’autore si chiamava davvero Omero.
Insegnare la
questione omerica ai bambini significa metterli in grado di leggere
un testo in modo critico: cioè insegnare loro a smontarlo, a cercarne
le contraddizioni, a misurarne lo stile e le parole, a individuarne
il progetto complessivo, a considerarne il contesto, le intenzioni,
i tranelli.
Ecco, perché – mia carissima Maria – aver imparato a undici
anni che cosa è la questione omerica può servire agli italiani che
oggi devono leggersi i quarantasette articoli della loro Costituzione
che sono stati cambiati: per capirne il progetto, il contesto, le
intenzioni e i tranelli.
Per aiutarli a non far entrare il cavallo di legno
della cosiddetta riforma dentro la città della democrazia.
Molti anni fa, proprio mentre l’Europa si liberava dai fascisti e dai nazisti e iniziava la gestazione di questa nostra amatissima Costituzione,
un altro bambino fece una domanda simile a suo padre.
Quel padre era Marc Bloch, uno dei più straordinari pensatori
del Novecento. Un grandissimo storico, capace di insegnare a
fare la storia in un altro modo: per esempio studiando il paesaggio
o le idee invece che le battaglie e le vite dei re. Bloch era ebreo: e
così dovette lasciare la cattedra della Sorbona, e passò alla Resistenza.
Nel 1944, poco prima di essere catturato e fucilato dai nazisti,
scrisse un libro capitale, l’Apologia della storia, che inizia proprio
così:
«“Papà, spiegami allora a cosa serve la storia”. Così un
giovinetto, che mi è molto caro, interrogava, qualche anno fa, il
padre, uno storico». Tra le tante risposte di quel padre ce n’è una
che sembra scritta per l’Italia del 2016: «Nella nostra epoca, più
che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria
che vergogna che il metodo critico della storia non figuri sia pure
nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento».
Ecco: la critica è l’antidoto allo storytelling, alla narrazione ottimistica,
superficiale e menzognera del potere. La critica come difesa
dei cittadini che non vogliono essere ridotti a sudditi: aguzzare
la vista per non dover piegare la testa.
È quello che cercherò di fare in queste poche pagine, che fermano
quanto ho provato a dire in un frenetico giro d’Italia per la
Costituzione.
Non sono un costituzionalista, né un giurista o un
politologo, ma ho accettato di essere vicepresidente dell’associazione
Libertà e Giustizia perché ci sono momenti in cui le tossine
della menzogna sono così diffuse e acute che bisogna lasciare ogni
altra occupazione.
Per combatterle: possibilmente, per vincerle.
Per combatterle: possibilmente, per vincerle.
(segue)
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