Tomaso Montanari (1971), professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’università di Napoli Federico II.
È editorialista per la Repubblica e vicepresidente di Libertà e Giustizia.
Ha pubblicato un e-book con Micro-Mega per spiegare su n. 8 interventi le ragioni del NO al Referendum del 4 Dicembre.
I° - La Questione Omerica
II° - Il Capo e la Pistola
III° - Decidere o Comandare ?
IV° - La Dittatura della Maggioranza
I° - La Questione Omerica
II° - Il Capo e la Pistola
III° - Decidere o Comandare ?
IV° - La Dittatura della Maggioranza
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V
LA DEMOCRAZIA COME OSTACOLO
Ma questa ferita alla democrazia è «solo» il peccato originale della
riforma, o ha anche a che fare con la sua sostanza?
Una risposta molto chiara e molto ponderata l’ha data don
Luigi Ciotti:
La democrazia, con il suo sistema di pesi e contrappesi, di divisione
e di controllo dei poteri, rappresenta un ostacolo per il pragmatismo
esibito da certa politica come segno di forza. Le richieste di
delega, la sollecitazione a fidarsi delle promesse e degli annunci,
l’ottimismo programmatico, così come l’accusa di disfattismo o di
malaugurio (il «partito dei gufi») verso chi critica o solo esprime
perplessità, rivelano una concezione paternalistica e decisionista
del potere, dove lo Stato rischia di ridursi a una multinazionale gestita
da supermanager e il bene comune a una faccenda in cui il popolo
non deve immischiarsi.
Tentazione anche questa non nuova
ma a cui la globalizzazione ha offerto inedite opportunità, visto
l’asservimento, salvo eccezioni, delle istituzioni politiche alla logica
esclusiva del «mercato», cioè di quel sistema che proprio la politica
dovrebbe regolamentare.
La democrazia come ostacolo.
È in fondo questo ciò che dovrebbe
essere scritto sulle schede del 4 dicembre: «Siete voi convinti
che la democrazia sia un ostacolo al governo?»
Perché la diagnosi cui fa seguito la terapia della riforma è proprio
questa: l’Italia sarebbe malata di troppa democrazia.
Votiamo troppo, protestiamo troppo, siamo troppo rappresentati e
troppo garantiti: i cittadini hanno troppa voce in capitolo, e se vogliamo
che il governo decida, è necessario ridurre gli spazi di democrazia.
Ma chi di noi pensa che nell’Italia di oggi i cittadini contino
troppo?
Chi pensa che siano i nostri diritti ad ostacolare le decisioni
di coloro che ci governano?
Eppure è proprio questa la cifra della riforma, a partire dalla
lingua in cui è stata riscritta la Carta.
Prendiamo l’articolo 70.
Ecco come era stato scritto nella Costituzione del 1948: «La
funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere».
Ed ecco il testo partorito dai «ricostituenti» di oggi:
La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere
per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali,
e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni
costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i
referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo
71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione
elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei
Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio
sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le
norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia
alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche
dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità
e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo
65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto
comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma,
117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo
comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma.
Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate,
modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate
dalla Camera dei deputati. Ogni disegno di legge approvato dalla
Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della
Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi
componenti, può disporre di esaminarlo.
Nei trenta giorni successivi
il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione
del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in
via definitiva.
Qualora il Senato della Repubblica non disponga di
procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare,
ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in
via definitiva, la legge può essere promulgata.
L’esame del Senato
della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117,
quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di
trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati
può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato
della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo
pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta
dei propri componenti. I disegni di legge di cui all’articolo 81,
quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati
dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di
modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione.
I
Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali
questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi
regolamenti.
Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto
dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché
formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera
dei deputati.
Qui la farragine, il disordine, l’oscurità della procedura legislativa
(alla faccia della semplificazione e dello snellimento!) si traducono
in una lingua farraginosa, disordinata, oscura: che è essa
stessa un sintomo fortemente rivelatore.
E fa una certa impressione ricordare che nel 1309, quando a Siena si deliberò di «fare scrivere uno statuto del Comune di nuovo», si scelse di farlo «in volgare di lettera grossa, bene leggibile et bene formata, in buone 26 carte pecorine [...] el quale statuto sia et stare debia legato ne la Biccherna, acciocché le povare persone et altre persone che non sanno grammatica, et li altri, e’ quali vorranno, possano esso vedere et copia inde trarre et avere a loro volontà» .
E fa una certa impressione ricordare che nel 1309, quando a Siena si deliberò di «fare scrivere uno statuto del Comune di nuovo», si scelse di farlo «in volgare di lettera grossa, bene leggibile et bene formata, in buone 26 carte pecorine [...] el quale statuto sia et stare debia legato ne la Biccherna, acciocché le povare persone et altre persone che non sanno grammatica, et li altri, e’ quali vorranno, possano esso vedere et copia inde trarre et avere a loro volontà» .
Sette secoli fa ci si preoccupava che anche gli illetterati capissero
il Costituto, nel 1948 si commissionava una ripulitura formale
che rendesse il testo della Costituzione bello e comprensibile a tutti:
e oggi, invece, si riscrive la Costituzione in modo da non farla
capire nemmeno ai costituzionalisti.
È anche così che ai cittadini vengono chiuse in faccia le porte del palazzo della politica. Questa pessima forma rispecchia una pessima sostanza: perché l’accentramento del potere in poche mani e l’espulsione dei cittadini dai processi decisionali sono il cuore di questa scellerata riforma.
È anche così che ai cittadini vengono chiuse in faccia le porte del palazzo della politica. Questa pessima forma rispecchia una pessima sostanza: perché l’accentramento del potere in poche mani e l’espulsione dei cittadini dai processi decisionali sono il cuore di questa scellerata riforma.
Prendiamo il Senato.
Potremmo iniziare da un dettaglio, in sé non molto rilevante, ma che rivela l’approssimazione (possiamo dirlo: l’imperdonabile cialtroneria) con cui si sono messe le mani nella nostra legge fondamentale. Ebbene, fino ad oggi si poteva essere eletti alla Camera a 25 anni, mentre ce ne volevano 40 per entrare al Senato: il cui nome viene dal latino senex («vecchio») e significa «assemblea dei più anziani».
Potremmo iniziare da un dettaglio, in sé non molto rilevante, ma che rivela l’approssimazione (possiamo dirlo: l’imperdonabile cialtroneria) con cui si sono messe le mani nella nostra legge fondamentale. Ebbene, fino ad oggi si poteva essere eletti alla Camera a 25 anni, mentre ce ne volevano 40 per entrare al Senato: il cui nome viene dal latino senex («vecchio») e significa «assemblea dei più anziani».
Ma i padri ricostituenti non hanno considerato che
si può diventare sindaci, o consiglieri regionali, anche a 18 anni, e
che dunque il Senato sarà da chiamare piuttosto Juvenato (da juvenis,
«giovane»), e che a quel punto è davvero bizzarro che per la
Camera rimanga lo sbarramento a 25 anni. E lo ripeto: qua non
c’è alcun danno oggettivo, ma se l’attenzione, la cura, la precisione
del nuovo costituente sono queste, ne vedremmo delle belle in
una eventuale fase di applicazione.
E potremmo continuare: che senso ha che gli ex presidenti della
Repubblica, che sono stati i supremi rappresentanti della nazione,
si trovino a sedere in un Senato che – stando alla proposta
di riforma costituzionale – non rappresenta più la nazione?
E ancora:
la riforma conserva al presidente della Repubblica la facoltà
di «nominare senatori cittadini che hanno illustrato la Patria
per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario»
(articolo 59). Ma se si tratta della patria, perché non nominarli
deputati, visto che solo la Camera conserverà la rappresentanza
della nazione?
Che ci faranno questi campioni della patria
tra i sindaci e i consiglieri regionali del Molise, della Liguria e della
Sardegna?
Ma anche questo, in fondo, è un dettaglio secondario: veniamo
finalmente alla domanda centrale.
Davvero il problema dell’Italia
è il bicameralismo perfetto?
Avere due camere che fanno lo stesso lavoro rallenta il ritmo dell’approvazione delle nostre leggi, o ne riduce il numero?
La risposta è no.
Solo il 20% delle leggi approvate nel 2015 ha richiesto due letture, e le leggi proposte dal governo hanno avuto una gestazione parlamentare media decisamente breve: 156 giorni (dati Openpolis).
Avere due camere che fanno lo stesso lavoro rallenta il ritmo dell’approvazione delle nostre leggi, o ne riduce il numero?
La risposta è no.
Solo il 20% delle leggi approvate nel 2015 ha richiesto due letture, e le leggi proposte dal governo hanno avuto una gestazione parlamentare media decisamente breve: 156 giorni (dati Openpolis).
E sono poche le nostre leggi?
Mediamente ne produciamo il triplo di quelle britanniche e spagnole,
e il doppio che in Francia. Insomma, avere due camere non
ci impedisce (purtroppo) di legiferare a un ritmo indiavolato:
mentre sarebbe assai meglio disboscare la foresta di leggi assurde,
contraddittorie, inapplicate.
Dovremmo fare meno leggi, e farle
meglio: e dunque possiamo tranquillamente archiviare questo caposaldo
della propaganda del Sì.
Ma la cosa più importante è che, contrariamente a quanto continuamente
il governo cerca di far passare, il Senato non viene affatto
abolito: ad essere aboliti sono invece gli elettori che lo votavano.
Ad essere aboliti siamo noi: cittadini cancellati da una politica
ripiegata su se stessa.
Il Senato rimane, e rimane in mano alla politica dei partiti (ormai
ridotti a comitati d’affari): perché l’unico vero cambiamento
è che non lo eleggiamo più noi. A votarlo saranno invece i consigli
regionali: con una modalità che oggi nessuno conosce, perché
dovrà essere stabilita «con legge approvata da entrambe le Camere»
(articolo 57).
E questa è l’ennesima mancanza di serietà: gli italiani sono chiamati a votare su una scatola ancora vuota.
E questa è l’ennesima mancanza di serietà: gli italiani sono chiamati a votare su una scatola ancora vuota.
Ma – si replica – i cittadini non votano perché il nuovo senato
è una «camera delle regioni» che rappresenta i territori, e non i
cittadini. E questo è del tutto falso, perché in tutto il mondo le camere
regionali prevedono: che i membri si riuniscano secondo
l’appartenenza, appunto, regionale; che ci sia un vincolo di mandato
e un voto di blocco; che ci sia una perequazione tra regioni
grandi e piccole, perché non sia vanificata la rappresentanza dei
territori «minori». E invece nel Senato che uscirebbe dal Sì i
membri si riunirebbero e voterebbero per appartenenza politica
(il gruppo di Forza Italia, non quello del Veneto, per intenderci), e
senza vincoli da parte della regione di provenienza; e non ci sarebbe
alcun riequilibrio: la Lombardia avrebbe 14 senatori, contro
i 3 della Calabria.
Tutto questo rivela che il nuovo Senato è stato progettato come
una Camera dei Partiti: i cui rappresentanti si eleggeranno tra loro,
al riparo delle mura dei consigli regionali. Succederà come per
le province: i cui governi non sono stati soppressi, semplicemente
sono stati sottratti all’elezione da parte dei cittadini. Chi di noi sa
come, quando e chi viene eletto negli organi delle città metropolitane?
Tutto si risolve in riti che si consumano all’interno delle
stanze dei poteri locali, all’insaputa dei cittadini: e lo stesso avverrà
per questo grottesco Senato.
E non entriamo negli aspetti pratici del funzionamento:
Matteo Renzi ha detto che il Senato potrà riunirsi anche solo una
volta al mese, ma questo pare francamente difficile, dal momento che esso dovrebbe fornire pareri anche entro dieci giorni!
E come
faranno a riunirsi tanto frequentemente i sindaci, già oberati
di lavoro, di città come Milano o Napoli?
Questa sorta di «dopolavoro
di lusso» (immunità giudiziaria inclusa) per amministratori
locali rischia di trasformarsi in un caos permanente. Un caos
dai tratti surreali, visto che questo «senato delle regioni» non ha,
tra le sue mille competenze, l’unica che dovrebbe avere: quella
sulle materie regionali, che invece toccano alla Camera.
Un vero
capolavoro!
Ma la cosa più grave non è la pur gravissima cialtroneria pratica,
bensì la sottrazione di potere, rappresentanza, voce – in una
parola: sovranità – che viene inflitta a tutti noi cittadini.
La sentenza
della Corte Costituzionale che ha condannato il Porcellum
rileva che una delle sue colpe più gravi è che «una simile disciplina
priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti,
scelta che è totalmente rimessa ai partiti»: ecco che il peccato
originale della legge con cui è stato eletto questo Parlamento va
a deformare tutti i parlamenti futuri, così come sono disegnati dalla
riforma. Perché se vincesse il Sì la scelta dei nuovi senatori sarebbe
«totalmente rimessa ai partiti». E, se si ricorda che tra le
materie su cui dovrà legiferare questo Senato dei Partiti ci sono
anche le materie costituzionali
(art. 70: « La funzione legislativa è
esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione
della Costituzione e le altre leggi costituzionali»), si comprende
che il danno democratico sarebbe ancora più grave: perché ad
essere messo in discussione è addirittura l’articolo 1 della Carta
(«L’Italia è una repubblica democratica. La sovranità appartiene
al popolo»). Se, infatti, d’ora in poi la Costituzione potrà essere
cambiata da un’assemblea non eletta direttamente dal popolo,
che ne è della nostra sovranità?
Insomma, non saranno più i cittadini a decidere la sorte dei
partiti: saranno i partiti a decidere dei diritti fondamentali e delle libertà di noi cittadini. Parafrasando Bertold Brecht, si potrebbe
dire che un governo che non riusciva a governare ha deciso di
sciogliere il popolo.
Ma il 4 dicembre il popolo può ancora dire di No.
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