Tomaso Montanari (1971), professore ordinario di Storia dell’arte moderna all’università di Napoli Federico II.
È editorialista per la Repubblica e vicepresidente di Libertà e Giustizia.
Ha pubblicato un e-book con Micro-Mega per spiegare su n. 8 interventi le ragioni del NO al Referendum del 4 Dicembre.
I° - La Questione Omerica
II° - Il Capo e la Pistola
III° - Decidere o Comandare ?
IV° - La Dittatura della Maggioranza
V° - La Democrazia come Ostacolo
VI° - La Costituzione del Cemento
I° - La Questione Omerica
II° - Il Capo e la Pistola
III° - Decidere o Comandare ?
IV° - La Dittatura della Maggioranza
V° - La Democrazia come Ostacolo
VI° - La Costituzione del Cemento
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Un certo numero di intellettuali di sinistra si è schierato per il Sì,
pur dichiarando di ritenere la riforma, nel merito, «una schifezza»
(così, letteralmente, Massimo Cacciari).
Il più chiaro nello spiegare le proprie ragioni è stato Michele Serra, in una «Amaca» uscita su Repubblica il 23 ottobre 2016:
«La Costituzione renziana è il punto di arrivo di una restaurazione il cui fulcro consiste nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati».
Lo spiega su Micromega il vecchio, insigne Raniero La Valle. Concetto folgorante, ma ho una domanda da fare: c’era bisogno della riforma Boschi-Renzi per raggiungere un obiettivo già ampiamente realizzato ben prima che Renzi andasse al governo, e quasi prima che Renzi nascesse?
Il «trasferimento della sovranità dal popolo ai mercati» (o meglio dalla politica all’economia) è cosa fatta da almeno una generazione, a dispetto di La Valle e di una moltitudine di altre persone, tra le quali mi annovero: politicamente parlando, una moltitudine di sconfitti.
Verbosi, animosi, generosi, virtuosi, speranzosi e tanti altri «osi», ma sconfitti, secondo la celebre battuta che recita, a bocce ferme, «la lotta di classe c’è stata davvero, e l’ha vinta il capitale». Perdere non è disonorevole, se ci si è battuti con coraggio.
Ma l’ombra della propria sconfitta non può e non deve ricadere su chi è arrivato dopo, e il «trasferimento della sovranità ai mercati» se l’è trovato bello e fatto. Quello che non mi convince, nel profondo, nella campagna per il No, è che imputa alla post-politica dei nostri tempi le sconfitte e le inadempienze che furono della veteropolitica, e a un gruppetto di trenta-quarantenni la responsabilità di quanto già ampiamente accaduto.
Alla risposta di La Valle, Serra ha replicato esplicitando ulteriormente il proprio pensiero:
Io credo che la riforma Boschi-Renzi non c’entri nulla con la perdita di sovranità del popolo e il trionfo dei mercati. Credo preveda un blando rafforzamento dell’esecutivo, una semplificazione (sperata, chissà se realizzabile) degli iter legislativi e un pasticciato rimaneggiamento del Senato che sarebbe stato molto meglio abolire per passare a un sistema monocamerale. Credo, insomma, che si tratti di una riforma tecnico-istituzionale sulla quale è assurdo scaricare il peso di mutamenti strutturali della società e dell’economia (la «sovranità dei mercati») già avvenuti da tempo, nonostante gli sforzi, a volte generosi a volte solo presuntuosi, di una sinistra che non ha retto l’urto del cambiamento e forse di quel cambiamento, in qualche caso, neppure si è avveduta.
Questo punto di vista merita una risposta articolata.
La campagna per il No non imputa a Renzi le sconfitte della generazione di Serra, ma intende salvare l’unica cosa che ha impedito che quelle sconfitte fossero definitive: la Costituzione della Repubblica. È un fatto che Confindustria, Sergio Marchionne, le grandi banche nazionali e internazionali e la maggior parte degli ultrasessantcinquenni votano Sì: mentre la Cgil, l’Arci, Libera, l’Anpi e la maggior parte di chi ha meno di sessantacinque anni votano No.
Se si trattasse solo di sveltire le pratiche parlamentari questa spaccatura non avrebbe senso: se ce l’ha, è perché la posta in gioco è la definitiva espulsione dei cittadini dalla politica.
La vera partita che stiamo giocando riguarda l’ultimo tassello di un mosaico che è stato descritto con efficacia da Luciano Gallino: in tutta Europa «la “costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, [...] [è] volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra». Ecco, con la riforma Renzi si cerca di costituzionalizzare questo stato delle cose, di scrivere nella Costituzione formale i contenuti di quelle costituzioni non scritte.
Ma – dice Serra – la riforma riguarda questioni tecniche come il rapporto tra governo e parlamento, o quello tra governo e Regioni: cosa c’entra tutto questo con la sovranità dei mercati? Ebbene, lo ha spiegato, con chiarezza cristallina, la più grande banca del mondo, la JP Morgan, in un suo documento del 2013:
Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali ad un’ulteriore integrazione della regione [nel mercato globale]. [...] All’inizio della crisi si era generalmente pensato che i problemi strutturali dei Paesi europei fossero soprattutto di natura economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è diventato evidente che ci sono problemi inveterati nella periferia [europea], che dal nostro punto di vista devono cambiare, se l’Unione Europea vuole, in prospettiva, funzionare adeguatamente.
Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori [...] e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo.
I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi. [...] Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo gover- no ha chiaramente l’opportunità di impegnarsi in importanti riforme politiche.
Quando si evoca questo documento, le sopracciglia degli uomini di mondo si aggrottano, e un sibilo fende l’aria: «complottismo!»
Ebbene, non riesco davvero a vedere cosa ci sia di complottistico nel citare un documento pubblico, redatto da una banca realmente esistente e dedicato alla riforma della Costituzione di un Paese realmente esistente. Si tratta, in ultima analisi, di prendere atto che il «lobbismo» esiste anche in Italia, e che una pressione di questo tipo è da gran tempo esercitata anche sulla riforma della legge fondamentale, così come accade per altre leggi (di quello che ha deformato lo Sblocca Italia si è appena dato un saggio). Prova ne sia che in un autorevole articolo del Corriere della sera del 1° aprile 2014 l’autorizzatissimo «quirinalista» Marzio Breda scriveva che, per comprendere la determinazione dell’allora presidente Giorgio Napolitano nel sostenere questa riforma costituzionale, «basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla JP Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella «debolezza dei governi rispetto al Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi congeniti del sistema italiano.
Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace». Non si tratta, dunque, di complottismo, ma della necessità di prendere atto che ridurre il potere del Parlamento e delle Regioni, e dunque ridurre i modi in cui i cittadini possono incidere sulle scelte politiche, va incontro ai desideri di una parte dominante del mercato finanziario: un mercato che è, evidentemente, meno sicuro di Michele Serra di aver già del tutto vinto la sua guerra di sterminio contro le sovranità nazionali. Per inciso, bisognerebbe anche notare che Matteo Renzi ha più volte detto esplicitamente che il suo modello di leader politico è Tony Blair, e ha anche più volte annunciato che, dopo due mandati alla guida del governo (e lasciamo, qua, perdere che i mandati del presidente del Consiglio sono nella disponibilità del presidente della Repubblica e del Parlamento, e non del diretto interessato!), farà come lui: cioè andrà in giro per il mondo a fare conferenze e consulenze.
La domanda è: sarà identico anche il finanziatore? Il Financial Times ha stimato in due milioni e mezzo di sterline il compenso annuo che la JP Morgan versa a Blair, e la prima volta che «Tony» e «Matteo» hanno cenato insieme l’organizzatore era proprio l’amministratore delegato della banca americana. Quella cena avvenne nel palazzo Corsini di Firenze il 1° giugno 2012, e il giorno dopo Tony Blair dichiarò a Repubblica che «Renzi comprende perfettamente la sfida che ha di fronte.
Se facesse solo dei piccoli passi rischierebbe di perdere la spinta positiva con cui è partito. Perciò c’è una coerenza tra il suo programma di riforme costituzionali e le riforme strutturali per rilanciare l’economia».
Ricapitolando: se la nostra Costituzione è ritenuta un ostacolo dalla JP Morgan, e se la riforma costituzionale Renzi scioglie alcuni dei nodi indicati dalla JP Morgan, è legittimo ritenere che questa riforma abbia a che fare con una partita che non è ancora chiusa. È assai significativo che ad essere d’accordo con Serra siano gli elettori di oltre 65 anni, l’unica fascia di età in cui il Sì è dato in vantaggio dai sondaggi.
E il punto non è il rimbecillimento senile (come ha detto, con infelice battuta, Massimo D’Alema: che d’altra parte appartiene a quella fascia d’età), ma semmai la rassegnazione: la profonda convinzione che ormai non si possa far nulla se non piegare la testa sotto la forza di un’onda inarrestabile. È in quest’ottica che un’intera generazione ritiene accettabile, e anzi desiderabile e pacificatorio, far cadere l’ultima ragione di attrito, quella Costituzione che ricorda, fin troppo dolorosamente, tante battaglie perdute.
A ben vedere, questa rassegnazione si traduce in una sfiducia radicale nella democrazia, e nella politica stessa. È un atteggiamento diffuso, ben sintetizzato in queste parole di Claudio Giunta: «Matteo Renzi ha opinioni spesso ragionevoli, come le hanno più o meno tutti, ma a differenza di più o meno tutti sembra avere la capacità di coagulare attorno a sé il consenso e sembra possedere la serena incoscienza per mettere in pratica qualcuna di quelle idee, in modo che ne esca un effetto positivo non in relazione ai problemi reali che dobbiamo affrontare, che stanno ormai al di là della portata della politica, ma in relazione a certe piccole questioni di contorno, a certi ingranaggi del macchinario».
L’equazione, dunque, è la seguente. La politica ormai non conta più molto, visto che a governare le nostre vite è il mercato: e siccome Renzi può forse oliare il binario della gestione di questa resa quotidiana, facciamo quel che ci chiede, e votiamo Sì.
Si tratta dell’ultima versione – soft, depressa, mansuetamente sfibrata – del famoso TINA: There Is No Alternative, il motto dell’età del neoliberismo rampante della Thatcher e di Reagan, rivitalizzata da Blair.
È questo il vero nucleo del messaggio di Serra: non c’è alternativa, dunque per favore smettiamo di illuderci e di lottare. E sdraiamoci in pace. Si tratta, naturalmente, della fine dell’idea stessa di una qualsiasi Sinistra: cioè di una politica che cerchi di mutare lo stato delle cose contestando il primato del denaro in nome del primato della persona umana e dell’eguaglianza. Ma la fede in Tina (cioè nella mancanza di alternativa allo stato presente delle cose) è accettabile solo per chi abbia qualche forma di garanzia: ma per una maggioranza crescente di occidentali, qualunque alternativa comincia ad esser preferibile allo stato presente delle cose.
Perché anche per l’Occidente vale ormai questa constatazione di Joseph Stiglitz: «Vari paesi nel mondo offrono esempi spaventosi di ciò che accade a una società quando raggiunge il livello di disuguaglianza verso il quale ci stiamo dirigendo. Non si tratta di una bella immagine: sono paesi in cui i ricchi vivono in comunità recintate, assediate da masse di lavoratori a basso reddito; sono sistemi politici instabili, dove il populismo promette alla gente una vita migliore soltanto per disilluderla».
Dal 9 novembre 2016 questo ritratto impietoso vale anche per gli stessi Stati Uniti d’America. Fino a quel momento Tina non aveva cognome, perché il suicidio della Sinistra aveva spinto metà dell’elettorato all’astensione. Ma da quel giorno la terribile Tina ha assunto un cognome non meno terribile: Trump. Perché è fin troppo evidente che la svolta davvero epocale dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca è il frutto avvelenato e mostruoso del tradimento radicale della Sinistra: a forza di dire che non c’è alternativa, la disperazione degli scartati, dei marginali, dei sommersi ha trovato la sua alternativa.
In breve, il tradimento delle élites intellettuali sta costringendo al suicidio non solo le masse che credono di aver trovato un’alternativa, ma l’intera democrazia occidentale. E qui – una volta tanto – l’analisi dei contenuti coincide con la reazione più istintiva: perché il fatto che la giovane ministra per le Riforme sia indelebilmente associata, per via familiare, ad un odioso scandalo bancario suscita in larga parte della cittadinanza italiana sentimenti di rigetto del tutto analoghi a quelli provocati da Hillary Clinton ad ogni sua apparizione televisiva.
In breve: quando la dottrina della Sinistra afferma che il sistema non è modificabile, una parte crescente di cittadini affida il proprio consenso a chi promette di abbatterlo, quel sistema.
Allora, dev’essere ben chiaro che chi voterà Sì perché «non c’è alternativa» lavora attivamente per preparare il terreno ad altri Trump.
Votare No, invece, significa dire che crediamo che la battaglia non sia ancora perduta: significa che un’alternativa è possibile.
VII
TINA TRUMP
Il più chiaro nello spiegare le proprie ragioni è stato Michele Serra, in una «Amaca» uscita su Repubblica il 23 ottobre 2016:
«La Costituzione renziana è il punto di arrivo di una restaurazione il cui fulcro consiste nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati».
Lo spiega su Micromega il vecchio, insigne Raniero La Valle. Concetto folgorante, ma ho una domanda da fare: c’era bisogno della riforma Boschi-Renzi per raggiungere un obiettivo già ampiamente realizzato ben prima che Renzi andasse al governo, e quasi prima che Renzi nascesse?
Il «trasferimento della sovranità dal popolo ai mercati» (o meglio dalla politica all’economia) è cosa fatta da almeno una generazione, a dispetto di La Valle e di una moltitudine di altre persone, tra le quali mi annovero: politicamente parlando, una moltitudine di sconfitti.
Verbosi, animosi, generosi, virtuosi, speranzosi e tanti altri «osi», ma sconfitti, secondo la celebre battuta che recita, a bocce ferme, «la lotta di classe c’è stata davvero, e l’ha vinta il capitale». Perdere non è disonorevole, se ci si è battuti con coraggio.
Ma l’ombra della propria sconfitta non può e non deve ricadere su chi è arrivato dopo, e il «trasferimento della sovranità ai mercati» se l’è trovato bello e fatto. Quello che non mi convince, nel profondo, nella campagna per il No, è che imputa alla post-politica dei nostri tempi le sconfitte e le inadempienze che furono della veteropolitica, e a un gruppetto di trenta-quarantenni la responsabilità di quanto già ampiamente accaduto.
Alla risposta di La Valle, Serra ha replicato esplicitando ulteriormente il proprio pensiero:
Io credo che la riforma Boschi-Renzi non c’entri nulla con la perdita di sovranità del popolo e il trionfo dei mercati. Credo preveda un blando rafforzamento dell’esecutivo, una semplificazione (sperata, chissà se realizzabile) degli iter legislativi e un pasticciato rimaneggiamento del Senato che sarebbe stato molto meglio abolire per passare a un sistema monocamerale. Credo, insomma, che si tratti di una riforma tecnico-istituzionale sulla quale è assurdo scaricare il peso di mutamenti strutturali della società e dell’economia (la «sovranità dei mercati») già avvenuti da tempo, nonostante gli sforzi, a volte generosi a volte solo presuntuosi, di una sinistra che non ha retto l’urto del cambiamento e forse di quel cambiamento, in qualche caso, neppure si è avveduta.
Questo punto di vista merita una risposta articolata.
La campagna per il No non imputa a Renzi le sconfitte della generazione di Serra, ma intende salvare l’unica cosa che ha impedito che quelle sconfitte fossero definitive: la Costituzione della Repubblica. È un fatto che Confindustria, Sergio Marchionne, le grandi banche nazionali e internazionali e la maggior parte degli ultrasessantcinquenni votano Sì: mentre la Cgil, l’Arci, Libera, l’Anpi e la maggior parte di chi ha meno di sessantacinque anni votano No.
Se si trattasse solo di sveltire le pratiche parlamentari questa spaccatura non avrebbe senso: se ce l’ha, è perché la posta in gioco è la definitiva espulsione dei cittadini dalla politica.
La vera partita che stiamo giocando riguarda l’ultimo tassello di un mosaico che è stato descritto con efficacia da Luciano Gallino: in tutta Europa «la “costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, [...] [è] volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra». Ecco, con la riforma Renzi si cerca di costituzionalizzare questo stato delle cose, di scrivere nella Costituzione formale i contenuti di quelle costituzioni non scritte.
Ma – dice Serra – la riforma riguarda questioni tecniche come il rapporto tra governo e parlamento, o quello tra governo e Regioni: cosa c’entra tutto questo con la sovranità dei mercati? Ebbene, lo ha spiegato, con chiarezza cristallina, la più grande banca del mondo, la JP Morgan, in un suo documento del 2013:
Le Costituzioni e i sistemi politici dei Paesi della periferia meridionale, costruiti in seguito alla caduta del fascismo, hanno caratteristiche che non appaiono funzionali ad un’ulteriore integrazione della regione [nel mercato globale]. [...] All’inizio della crisi si era generalmente pensato che i problemi strutturali dei Paesi europei fossero soprattutto di natura economica. Ma, con l’evoluzione della crisi, è diventato evidente che ci sono problemi inveterati nella periferia [europea], che dal nostro punto di vista devono cambiare, se l’Unione Europea vuole, in prospettiva, funzionare adeguatamente.
Queste Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica che le sinistre conquistarono dopo la sconfitta del fascismo. Questi sistemi politici periferici mostrano, in genere, le seguenti caratteristiche: governi deboli; stati centrali deboli rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori [...] e il diritto di protestare se cambiamenti sgraditi arrivano a turbare lo status quo.
I punti deboli di questi sistemi sono stati rivelati dalla crisi. [...] Ma qualcosa sta cambiando: il test chiave avverrà l’anno prossimo in Italia, dove il nuovo gover- no ha chiaramente l’opportunità di impegnarsi in importanti riforme politiche.
Quando si evoca questo documento, le sopracciglia degli uomini di mondo si aggrottano, e un sibilo fende l’aria: «complottismo!»
Ebbene, non riesco davvero a vedere cosa ci sia di complottistico nel citare un documento pubblico, redatto da una banca realmente esistente e dedicato alla riforma della Costituzione di un Paese realmente esistente. Si tratta, in ultima analisi, di prendere atto che il «lobbismo» esiste anche in Italia, e che una pressione di questo tipo è da gran tempo esercitata anche sulla riforma della legge fondamentale, così come accade per altre leggi (di quello che ha deformato lo Sblocca Italia si è appena dato un saggio). Prova ne sia che in un autorevole articolo del Corriere della sera del 1° aprile 2014 l’autorizzatissimo «quirinalista» Marzio Breda scriveva che, per comprendere la determinazione dell’allora presidente Giorgio Napolitano nel sostenere questa riforma costituzionale, «basterebbe rileggersi il rapporto stilato dalla JP Morgan il 28 maggio 2013, là dove indica nella «debolezza dei governi rispetto al Parlamento» e nelle «proteste contro ogni cambiamento» alcuni vizi congeniti del sistema italiano.
Ecco una sfida decisiva della missione di Renzi. La velocità impressa dal premier, quindi, a Napolitano non dispiace». Non si tratta, dunque, di complottismo, ma della necessità di prendere atto che ridurre il potere del Parlamento e delle Regioni, e dunque ridurre i modi in cui i cittadini possono incidere sulle scelte politiche, va incontro ai desideri di una parte dominante del mercato finanziario: un mercato che è, evidentemente, meno sicuro di Michele Serra di aver già del tutto vinto la sua guerra di sterminio contro le sovranità nazionali. Per inciso, bisognerebbe anche notare che Matteo Renzi ha più volte detto esplicitamente che il suo modello di leader politico è Tony Blair, e ha anche più volte annunciato che, dopo due mandati alla guida del governo (e lasciamo, qua, perdere che i mandati del presidente del Consiglio sono nella disponibilità del presidente della Repubblica e del Parlamento, e non del diretto interessato!), farà come lui: cioè andrà in giro per il mondo a fare conferenze e consulenze.
La domanda è: sarà identico anche il finanziatore? Il Financial Times ha stimato in due milioni e mezzo di sterline il compenso annuo che la JP Morgan versa a Blair, e la prima volta che «Tony» e «Matteo» hanno cenato insieme l’organizzatore era proprio l’amministratore delegato della banca americana. Quella cena avvenne nel palazzo Corsini di Firenze il 1° giugno 2012, e il giorno dopo Tony Blair dichiarò a Repubblica che «Renzi comprende perfettamente la sfida che ha di fronte.
Se facesse solo dei piccoli passi rischierebbe di perdere la spinta positiva con cui è partito. Perciò c’è una coerenza tra il suo programma di riforme costituzionali e le riforme strutturali per rilanciare l’economia».
Ricapitolando: se la nostra Costituzione è ritenuta un ostacolo dalla JP Morgan, e se la riforma costituzionale Renzi scioglie alcuni dei nodi indicati dalla JP Morgan, è legittimo ritenere che questa riforma abbia a che fare con una partita che non è ancora chiusa. È assai significativo che ad essere d’accordo con Serra siano gli elettori di oltre 65 anni, l’unica fascia di età in cui il Sì è dato in vantaggio dai sondaggi.
E il punto non è il rimbecillimento senile (come ha detto, con infelice battuta, Massimo D’Alema: che d’altra parte appartiene a quella fascia d’età), ma semmai la rassegnazione: la profonda convinzione che ormai non si possa far nulla se non piegare la testa sotto la forza di un’onda inarrestabile. È in quest’ottica che un’intera generazione ritiene accettabile, e anzi desiderabile e pacificatorio, far cadere l’ultima ragione di attrito, quella Costituzione che ricorda, fin troppo dolorosamente, tante battaglie perdute.
A ben vedere, questa rassegnazione si traduce in una sfiducia radicale nella democrazia, e nella politica stessa. È un atteggiamento diffuso, ben sintetizzato in queste parole di Claudio Giunta: «Matteo Renzi ha opinioni spesso ragionevoli, come le hanno più o meno tutti, ma a differenza di più o meno tutti sembra avere la capacità di coagulare attorno a sé il consenso e sembra possedere la serena incoscienza per mettere in pratica qualcuna di quelle idee, in modo che ne esca un effetto positivo non in relazione ai problemi reali che dobbiamo affrontare, che stanno ormai al di là della portata della politica, ma in relazione a certe piccole questioni di contorno, a certi ingranaggi del macchinario».
L’equazione, dunque, è la seguente. La politica ormai non conta più molto, visto che a governare le nostre vite è il mercato: e siccome Renzi può forse oliare il binario della gestione di questa resa quotidiana, facciamo quel che ci chiede, e votiamo Sì.
Si tratta dell’ultima versione – soft, depressa, mansuetamente sfibrata – del famoso TINA: There Is No Alternative, il motto dell’età del neoliberismo rampante della Thatcher e di Reagan, rivitalizzata da Blair.
È questo il vero nucleo del messaggio di Serra: non c’è alternativa, dunque per favore smettiamo di illuderci e di lottare. E sdraiamoci in pace. Si tratta, naturalmente, della fine dell’idea stessa di una qualsiasi Sinistra: cioè di una politica che cerchi di mutare lo stato delle cose contestando il primato del denaro in nome del primato della persona umana e dell’eguaglianza. Ma la fede in Tina (cioè nella mancanza di alternativa allo stato presente delle cose) è accettabile solo per chi abbia qualche forma di garanzia: ma per una maggioranza crescente di occidentali, qualunque alternativa comincia ad esser preferibile allo stato presente delle cose.
Perché anche per l’Occidente vale ormai questa constatazione di Joseph Stiglitz: «Vari paesi nel mondo offrono esempi spaventosi di ciò che accade a una società quando raggiunge il livello di disuguaglianza verso il quale ci stiamo dirigendo. Non si tratta di una bella immagine: sono paesi in cui i ricchi vivono in comunità recintate, assediate da masse di lavoratori a basso reddito; sono sistemi politici instabili, dove il populismo promette alla gente una vita migliore soltanto per disilluderla».
Dal 9 novembre 2016 questo ritratto impietoso vale anche per gli stessi Stati Uniti d’America. Fino a quel momento Tina non aveva cognome, perché il suicidio della Sinistra aveva spinto metà dell’elettorato all’astensione. Ma da quel giorno la terribile Tina ha assunto un cognome non meno terribile: Trump. Perché è fin troppo evidente che la svolta davvero epocale dell’arrivo di Trump alla Casa Bianca è il frutto avvelenato e mostruoso del tradimento radicale della Sinistra: a forza di dire che non c’è alternativa, la disperazione degli scartati, dei marginali, dei sommersi ha trovato la sua alternativa.
In breve, il tradimento delle élites intellettuali sta costringendo al suicidio non solo le masse che credono di aver trovato un’alternativa, ma l’intera democrazia occidentale. E qui – una volta tanto – l’analisi dei contenuti coincide con la reazione più istintiva: perché il fatto che la giovane ministra per le Riforme sia indelebilmente associata, per via familiare, ad un odioso scandalo bancario suscita in larga parte della cittadinanza italiana sentimenti di rigetto del tutto analoghi a quelli provocati da Hillary Clinton ad ogni sua apparizione televisiva.
In breve: quando la dottrina della Sinistra afferma che il sistema non è modificabile, una parte crescente di cittadini affida il proprio consenso a chi promette di abbatterlo, quel sistema.
Allora, dev’essere ben chiaro che chi voterà Sì perché «non c’è alternativa» lavora attivamente per preparare il terreno ad altri Trump.
Votare No, invece, significa dire che crediamo che la battaglia non sia ancora perduta: significa che un’alternativa è possibile.
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