«Quanto è
costato l’Expo? Dodici miliardi di euro?
Più o meno la metà di quanto la Fao
ritiene necessario, ogni anno, per nutrire quella parte del pianeta che non ha
nulla da mangiare. C’era bisogno di spendere tutti questi soldi per discutere
della fame nel mondo?». Forse no, dice lo scrittore argentino Martín Caparrós.
Forse quei (tanti) soldi potevano invece cambiare più di un destino. La vita di
Aisha, magari, a cui bastavano due vacche per sopravvivere, o il futuro dei
bambini di Tana, in Madagascar, la cui speranza di crescere dipende anche da un
bidone di latte in più. E forse il domani di Talisma che non ricorda più il
sapore di un pasto vero.
Il loro nemico si chiama F come Fame, effe maiuscola. I loro occhi raccontano la crisi mortale di un pezzo di umanità che l’Occidente si ostina a non voler guardare, dove la sopravvivenza è appesa ad un pugno di miglio e a un sorso d’acqua potabile. È un controcanto amaro nella grande festa dell’Expo che glorifica il cibo il nuovo saggio di Martín Caparrós, “La Fame”, (Einaudi), un reportage duro e appassionato tra le povertà più estreme. In Italia per il festival “Encuentro” di Perugia, Caparrós, giornalista, scrittore, storico, racconta cinque anni di cammino tra gli angoli più affamati del pianeta.
Lei parte dal ricordo del Biafra.
«Quei bambini con le mosche negli occhi e le pance gonfie furono per noi, generazione degli anni Sessanta, la prima immagine concreta di cosa fossero la fame e lo strazio di un popolo decimato dalla carestia. Siamo cresciuti con quelle immagini. Ma la fame poi continuavo ad incontrarla ovunque, in tutti reportage che facevo, la fame era sempre dietro, sotto, dentro ogni storia. Come un basso continuo. Qualcosa di irreversibile, anche senza carestie e inondazioni. Di fronte ad una tale vergogna le strade sono due: o il silenzio o la denuncia ».
Dal Niger il suo viaggio si snoda attraverso il Madagascar, l’India, il Sudamerica e approda tra i mendicanti di Chicago.
MAURO DEL BUE, direttore di Avanti!
Il loro nemico si chiama F come Fame, effe maiuscola. I loro occhi raccontano la crisi mortale di un pezzo di umanità che l’Occidente si ostina a non voler guardare, dove la sopravvivenza è appesa ad un pugno di miglio e a un sorso d’acqua potabile. È un controcanto amaro nella grande festa dell’Expo che glorifica il cibo il nuovo saggio di Martín Caparrós, “La Fame”, (Einaudi), un reportage duro e appassionato tra le povertà più estreme. In Italia per il festival “Encuentro” di Perugia, Caparrós, giornalista, scrittore, storico, racconta cinque anni di cammino tra gli angoli più affamati del pianeta.
Lei parte dal ricordo del Biafra.
«Quei bambini con le mosche negli occhi e le pance gonfie furono per noi, generazione degli anni Sessanta, la prima immagine concreta di cosa fossero la fame e lo strazio di un popolo decimato dalla carestia. Siamo cresciuti con quelle immagini. Ma la fame poi continuavo ad incontrarla ovunque, in tutti reportage che facevo, la fame era sempre dietro, sotto, dentro ogni storia. Come un basso continuo. Qualcosa di irreversibile, anche senza carestie e inondazioni. Di fronte ad una tale vergogna le strade sono due: o il silenzio o la denuncia ».
Dal Niger il suo viaggio si snoda attraverso il Madagascar, l’India, il Sudamerica e approda tra i mendicanti di Chicago.
MAURO DEL BUE, direttore di Avanti!
Oltre alla casta dei politici, quella dei giornalisti
Orbene questi signori hanno vissuto, in questo decennio, con stipendi superiori a quello dei parlamentari italiani, grazie al finanziamento pubblico che ha garantito (leggere per favore il libro di Lopez “La casta dei giornalisti”) circa 750 milioni all’anno, in forme dirette e indirette, secondo il blog di Beppe Grillo la cifra raggiungerebbe addirittura i mille milioni (1 miliardo) ai mezzi di informazione.
Il costo dei vitalizi parlamentari, secondo i dati ufficiali e resi pubblici, ammonta a 148 milioni l’anno. Un quinto del costo dei giornalisti moralizzatori. In particolare giornali come Libero. Il Foglio e Il Giornale, avrebbero dovuto chiudere senza le provvidenze pubbliche. Proprio i loro giornali, ma che strano. De L’Unità abbiamo già trattato e il suo maxi debito di 120 milioni di euro (quasi l’equivalente annuo del costo dei vitalizi parlamentari) è stato scaricato sullo Stato, cioè sui cittadini.
I grandi gruppi editoriali da Mondarori a L’Espresso-Repubblica e altri sono stati beneficiati da centinaia di milioni all’anno e già prima della legge sulle provvidenze godevamo di finanziamenti riservati alla presidenza del Consiglio, che nel 1993 vennero negati all’Avanti. Inutile parlare poi dei giornalisti pagati dal sistema televisivo pubblico o da quello, ugualmente sovvenzionato dallo Stato, delle reti private. Se fossi in Massimo Giletti, ad esempio, sarei più cauto nello sparare alzo zero contro la casta dei politici.
Si potrebbe aggiungere anche qualcosa sulle pensioni dei giornalisti. È infatti noto che l’Inpgi ovvero la cassa di previdenza dei giornalisti, è quella che attualmente regala le pensioni più elevate con un tasso di sostituzione nel 2014 del 104%. E potremmo anche continuare con l’ordine dei giornalisti, un istituto che in tanti e i radicali in prima fila, hanno tentato di abrogare invano. Veramente una colpa il sistema politico ce l’ha e cioè proprio quella di aver approvato leggi e norme, come ben descrive nel suo libro Lopez, che hanno permesso questo assurdo sperpero di risorse pubbliche.
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