dalla Presentazione del Prof. Italo
Costante Fortino
La letteratura arbëreshe fin dalle origini
ha dimostrato di essere un robusto pilastro identitario della comunità
minoritaria, in un contesto in cui la cultura ospitante esercitava una forte attrazione per il suo
elevato prestigio.
Nel Settecento Nicolò Chetta, rettore del
Seminario greco-albanese di Palermo, centro di formazione religiosa culturale e
politica degli arbëreshë di Sicilia, soprattutto per coloro che aspiravano a
diventare sacerdoti di rito greco, inaugurava gli studi etnoantropologici con
metodo pluridisciplinare sulla popolazione albanese - in lingua italiana - ma
creava anche originali composizioni poetiche in cui metteva a prova la
consistenza linguistica dell’albanese dell’epoca.
In contemporanea Giulio Varibobba, anche
lui rettore ma del Collegio “Corsini” di S. Benedetto Ullano, in Calabria,
affermava la poesia albanese con straordinari picchi estetici che gli avrebbero
procurato il riconoscimento di “poeta nato”. Questi due personaggi aprivano, in
maniera lodevole, la strada alla letteratura albanese in Italia, foriera di più incisivi successi
soprattutto nel secolo successivo, quando gli scrittori arbëreshë, e
soprattutto gli autori di opere letterarie, davano alla letteratura un posto
rilevante nel dibattito politico culturale, tanto per la rinascita della
civiltà degli albanesi d’Italia, quanto per il recupero della coscienza
nazionale in Albania, nel momento in cui era necessario emanciparsi dalla
dominazione della cultura e della politica turca e musulmana.
La letteratura, dunque, rivestiva un ruolo
che andava al di là del suo valore estetico, in quanto dava consistenza
all’identità albanese, minacciata, in Italia,
dall’assorbimento nella cultura prestigiosa italiana, e in Albania, dalla
sopraffazione da parte della cultura
turca e poi dalle mire politiche degli Slavi al
nord e dei Greci al sud.
Sorgevano voci letterarie di prim’ordine
nel quadro della storia della letteratura albanese: G. De Rada, G. Serembe, G.
Dara, A. F. Santori, G. Schirò; una pleiade di intellettuali che avrebbero
segnato una tappa importante nel percorso di
formazione e affermazione della nazionalità
albanese, intesa nell’accezione più ampia.
Due opere emblematiche, I canti di Milosao di G. De Rada e Kënga e sprasme e Balës di G. Dara
riportavano gli arbëreshë alle origini, al XV secolo, allo stato dell’Albania
prima delle invasioni turche e alle inquietudini delle emigrazioni nel Regno di
Napoli e di Sicilia. Con esse i due autori
rinnovavano la memoria storica atta a orientare il presente che si consolidava
giorno dopo giorno nel coinvolgimento dei soggetti politici più sensibili, a
livello nazionale e internazionale: una nuova era prospettavano gli
intellettuali arbëreshë nell’Ottocento
con la loro opera creativa poetica, con gli scritti di ogni genere e con
l’impegno politico e sociale.
Un secondo risveglio della consapevolezza
del proprio patrimonio orale e colto, letterario, linguistico, gli arbëreshë
l’hanno vissuto e continuano a viverlo dal secondo Dopoguerra ad oggi. Dopo i
primi sussulti dati dalla rivista di E. Koliqi Shêjzat (Le pleiadi), dove sono apparse le prime composizioni
poetiche originali di una nuova fase, sorsero altri organi di stampa periodica
che hanno risvegliato la coscienza e la consapevolezza che un mondo culturale,
ricco di storia e di letteratura, meritava più concreta attenzione.
La concretezza di queste brevi
considerazioni ci induce a ricordare i principali artefici di questa nuova
stagione letteraria che va a consolidare una tradizione ricca e
qualitativamente consacrata dalla critica più attenta:
V. Ujko (1918-1989), D.
Vetmo (1914-1999), L. Perrone (1920-1984), F.
Pace (1925-1999), G. Del Gaudio (1921-2011), E. Scutari (1926-), C.
Candreva (1931-1982), C. Rocco (1925-2002), V. Goletti Baffa (1924- 2009), P.
Napolitano (1931-), V. Borrescio (1927-1995), G. Schirò Di Modica (1938-), L.
De Rosa (1944-), G. Schirò Di Maggio (1944-), V. Belmonte (1943-), V. Bruno
(1947-), F. Fusca (1948-), Buzëdhelpri
(1950-), P. Renda (1955-2014), K.
Zuccaro (1955-), Z. Kakoca (1957-), M. Bellizzi (1957-), M. La Luna (1967-).
A questi autori oggi va ad aggiungersi il
nome di Zef Chiaramonte, noto al mondo arbëresh per i suoi interventi sulla
cultura orale e colta tanto degli arbëreshë quanto degli albanesi d’Albania e
della Kosova. Una raccolta di fresche e interessanti liriche, dal titolo Marca d’Acqua – Vulë uji, si inserisce
in questo flusso creativo della letteratura contemporanea degli arbëreshë e ne
arricchisce le tematiche e le forme, interpreta la cultura attraverso le
immagini del vissuto personale, osserva l’evolversi della cultura della minoranza
in un momento singolare e inedito rispetto al passato, e conferma la fiducia
nell’uomo e nella comunità di appartenenza. Questa raccolta rappresenta la
sintesi di un percorso durato svariati anni che hanno visto l’autore operare
riflessioni attinenti alla consistenza della cultura arbëreshe e al suo continuo evolversi.
Consapevole, l’autore, che ogni contributo
reso pubblico con la scrittura diventa patrimonio della comunità minoritaria
che se ne appropria, ha voluto dare quest’altro contributo che si ascrive alla
creatività letteraria perché ha sentito ribollire nel cuore e nella mente
sensazioni, emozioni, impressioni estemporanee e soggettive, ma ha sentito
anche riconfermarsi ed emergere consolidati motivi culturali, arbëreshë e
shqiptarë, che nella loro entità storica riescono a commuoverlo trasformandosi
in vibrazioni che animano le immagini della sua poesia.
Le liriche diventano ancor più suggestive
quando, appunto, contemplano con la stessa intensità di sentimento quel che è
simbolo della propria esperienza personale e quel che è immagine di luoghi
pregnanti di ricordi comuni, di storia comune, di riferimenti comuni. Nel
profondo dell’immaginario personale, sulla sedimentazione della cultura di
appartenenza, espressa nel verso Arbëria
e Sicilisë, la poesia abbraccia mondi culturali vicini e distanti, vissuti
con rara sensibilità, costellanti un’area che si estende a tutto il Mediterraneo e che spazia sulla traiettoria della
storia e sulla constatazione degli impulsi del presente.
Risuonano gli echi dell’antica Aquileia,
testimonianza di una ricca civiltà religiosa, che ancora oggi riesce a
suggerire la trama dell’interpretazione storico-culturale; così come splende lo
sfavillio delle tessere mosaiche di Istanbul, luogo di apertura a mondi
sconosciuti, sommersi dalle contraddizioni di più culture.
L’immagine
della confluenza di più culture, tinteggiata da
una
pennellata tratta da
un verso di un grande autore contemporaneo
kosovaro, concorre
a interpretare la personalità del
poeta, che
diventa simbolo
dell’umanità che ha segnato la storia nel dispiegarsi del tempo, quel tempo che
si vorrebbe fermare per riappropriarsene e riviverlo, forse, più
consapevolmente.
Le culture, però, possono considerarsi
morte se non sono animate dall’intensità del sentimento con cui l’uomo le vive:
solo in questo caso diventano ricche di suggestioni, di attrazioni, di una
magica energia che le vitalizza. La vitalità delle culture, e della cultura
propria in particolare, è tutta presente nella visione del poeta e nelle
liriche che ora egli presenta all’attenzione del pubblico.
E nella visione del poeta è l’amore che
riscatta l’uomo dalle contraddizioni della propria esperienza e da quelle della
storia, sia che esso si realizzi nella contemplazione della natura, sia che si
compenetri nello stato degli altri esseri, sia che si fondi nella persona
amata. Immagini terse e sentimenti cristallini scorrono tra i versi che sono un
omaggio a questo grande sentimento.
L’ottimismo domina la visione del poeta,
trova nella poesia la motivazione estetica per appropriarsi delle sensazioni
emergenti dal visibile ma anche dall’extrasensibile: la poesia diventa motivo
di contemplazione di quel “bello” che affascina la mente e il cuore dell’individuo,
divenendo intuito lirico rasserenante.
Come la gran parte delle opere degli autori arbëreshë, anche questa raccolta si
presenta bilingue, in albanese e italiano. E’ nota la problematica della scelta linguistica presso gli
arbëreshë: alcuni autori scelgono di scrivere nella parlata arbëreshe locale,
altri in una koiné tra le parlate e la lingua d’Albania, infine un terzo gruppo
di autori si esprime nella lingua standard nazionale albanese. La scrittura di Chiaramonte rispecchia
sostanzialmente lo standard della lingua albanese, con qualche concessione a
forme lessicali e talora anche morfologiche delle parlate arbëreshe.
Con questa raccolta di liriche un’altra
tessera interessante, dai colori vivaci e splendenti, si aggiunge al patrimonio
letterario degli albanesi d’Italia che da più di cinque secoli, anche
attraverso l’arte letteraria, hanno saputo conservare forti legami con la terra
madre d’Oltre Adriatico.
Italo Costante Fortino
Università di Napoli “ l’Orientale”
OI TOΠOI
pietre di confine
invalicato
luoghi
dei nostri incontri
Arberia
di Sicilia
lago
cavalli icone e papás
Roma così bella quella sera
già nemica l’indomani
Orvieto
Trieste
dolcissima Aquileia
di là le porte dell’Oriente
bianche città
bellissime
di mura e di merli
cintate
dallo sciabordio del mare
lambite
tra Bisanzio e Stanbull
sospese
e tra nubi che
in alto giocano come agnelli *
sempre sognerò
e Te
se il fato ci divise
chi fermò la corsa
il tempo
il tempo vorrei fermare
farlo tornare indietro
OI TOΠOI
pietre di confine
invalicato
luoghi
dei nostri incontri
Arberia
di Sicilia
lago
cavalli icone e papás
Roma così bella quella sera
già nemica l’indomani
Orvieto
Trieste
dolcissima Aquileia
di là le porte dell’Oriente
bianche città
bellissime
di mura e di merli
cintate
dallo sciabordio del mare
lambite
tra Bisanzio e Stanbull
sospese
e tra nubi che
in alto giocano come agnelli *
sempre sognerò
e Te
se il fato ci divise
chi fermò la corsa
il tempo
il tempo vorrei fermare
farlo tornare indietro
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