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giovedì 31 dicembre 2020

Legalità e violenza. Dal post-Unità a ieri: banditismo, violenza e mafia

  Il 12 novembre 1875 a Roma, presso la sede della "Commissione d'inchiesta sulla condizione della Sicilia" istituita con la legge 2579 del 3 luglio 1875  fu chiamato a deporre  il Generale Alessandro  Avogadeo  Casanova. Questi era giunto a Palermo all'inizio del 1874. Quella deposizione non fu mai resa pubblica. La Commissione d'inchiesta  "anti-mafia" del dopoguerra repubblicano  la cita ma nulla riporta circa il contenuto. Ci è capitato di leggere che il nostro Camilleri l'ha riassunta in una delle sue opere e che quella relazione è rimasta inedita fino a pochi anni fa. Essendoci adesso capitato in mano un lavoro di Paolo Maninchedda (scrittore, recensore e biografo) che ha recuperato quella deposizione e l'ha pubblicata sui Quaderni camilleriani, ci pare opportuno rievocare almeno alcuni tratti di quegli atti "pubblici", dal momento che oggi pochi in Sicilia lasciano intendere che la Mafia sia attuale, che essa continui a condizionare la vita di chiunque pensa e usa la coscienza civica piuttosto che l'imposizione o la violenza privata.

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Presidente della Commissione d'inchiesta fu allora Giuseppe Borsani (1812-1886), già collaboratore di Cavour, senatore dal 1873, già procuratore generale di Palermo. Facevano parte di essa:

-Giuseppe Alasia, piemontese, in precedenza era stato prefetto di Bari,

-Carlo De Cesare, deputato del napoletano,

-Pirro De Luca, consigliere della Cassazione,

-Luigi Gravina, deputato siciliano,

-Francesco Paternostro, deputato siciliano (del corleonese), già appartenente alla carriera prefettizia,

-Carlo Verga, senatore del vercellese,

-Romualdo Bonfardini, deputato piemontese.

Il Generale di cui alla deposizione dinnanzi alla Commissione era arrivato a Palermo nel gennaio 1874.

   Manicheda ha ritenuto di premettere nella pubblicazione del verbale alcune preliminari riflessioni utili per interpretare correttamente il contenuto della deposizione del generale. Riflessioni riguardanti: 1) il conte e prefetto di Palermo Gioacchino Rasponi (già deputato), 2) il ministro degli Interni  di allora generale Medici che aveva inviato lo stesso Rasponi a Palermo. 

 L'inquadratura del contesto

= Rasponi partìva nello svolgimento della sua funzione dal presupposto di essere stato incaricato quale Prefetto di Palermo per rimediare alla situazione sociale e di ordine pubblica isolana sotto un'ottica prettamente politica. Da politico che era  stato in precedenza puntò infatti ad operare nelle vesti del buon amministratore piuttosto che in quelle del poliziotto. Si mosse da un lato per tagliare i forti legami allora esistenti fra il mondo dei politici e dei gestori della cosa pubblica e dall'altro lato del mondo della malavita. Il 14 novembre del 1874, non condividendo le Istruzioni di Polizia pervenute dal Ministro che puntavano dritto dritto ad una repressione poliziesca in una situazione che era invece nitidamente "politica" si dimise. Era prevalsa allora la teoria della Destra secondo cui la Mafia fosse una organizzazione malavitosa al servizio dei repubblicani e/o dei borbonici. Rasponi nella relazione che mandò al Ministero descrisse invece la Mafia come un reticolo di convenienze sociali, che permeava l'intero ceto medio siciliano, con radici culturali e morali nella illegalità, estirpabili con interventi "politici" e "istituzionali" da immettere nel contesto del vivere degli stessi siciliani, evitando comunque l'instaurazione di un regime di stati d'assedio. Rasponi ne fa -praticamente- una questione di crescita culturale.

=Il ministro degli Interni Medici, nel quadro politico-istituzionale di quel post-Unità deteneva sia poteri civili che militari cosicchè si era dato molto da fare nella promozione di infrastrutture viarie nella Sicilia dove invece prevalevano in assoluto le trazzere, nel campo dell'ordine pubblico non aveva disdegnato un approccio "trattativista" con la malavita; malavita che sin dai primi dell'Ottocento era divenuta -nell'Isola- "Mafia", ossia strumento della violenza privata nell'assetto e funzionamento della vita pubblica.  Manichedda scrive che il ministro Medici si trovò a percorrere "il pericoloso crinale della tolleranza di una soglia sostenibile di malaffare e di violenza, ritenendo utopistica l'eradicazione totale dell'illegalità dal corpo della società siciliana"

=In questo contesto ora trattegiato il Procuratore del re (come allora era chiamato il Procuratore della Repubblica) Diego Taiani non potè fare a meno che incriminare il Questore di Palermo Albanese, collaboratore istituzionale del Prefetto Rasponi. Taiani, successivamente diventerà deputato crispino al Parlamento e sarà uno dei deputati promotori della Commissione d'Inchiesta su cui ci proponiamo di riflettere per quanto attiene l'interrogatorio del generale Casanova. Nella seduta parlamentare dell'11-12 giugno 1875 svolse un serrato attacco alla politica della Destra storica in materia di ordine pubblico in Sicilia.

=Borsani, il presidente della Commissione, era un ex procuratore che, in Sicilia, aveva sostenuto l'accusa contro la banda di Angelo Pugliese ed in una nota indirizzata al Ministero così amaramente aveva scritto: "E' uno scandalo unito ai molti che dimostrano non essere in Sicilia soggetti alla legge penale gli uomini che hanno denaro". Secondo Manincheda, da cui stiamo attingendo, per trattegiare la cornice entro cui nella Sicilia post unitaria operavano le associazioni delinquenziali, la Mafia operava  sulla base di due livelli: a- uno costituito da evidenti ed espliciti banditi e latitanti, b- l'altro costituito da figure che gestivano affari, teneva contatti con delinquenti riconosciuti e si davano da fare per  vanificare l'opera delle istituzioni. A giustificare quella propensione mafiosa c'era l'attaccamento al denaro, il rivestirsi di prestigio e "rispetto" agli occhi delle masse e l'esercitare il "potere" effettivo sul territorio.

La Commissione di indagine si insediò il 29 agosto 1875 e visitò l'Isola  fra il 3 novembre 1875 e il 3 febbraio 1876. 

Era quello un periodo in cui le associazioni mafiose per acquisire "prestigio e risorse" e nel contempo "terrorizzare" la gente ricorreva al sequestro di persone e ad esigere per la successiva liberazione un "riscatto". Fra le bande di cui ancora oggi, almeno a Contessa, molti anziani ricordano -perchè a loro tramandate- le vigliacche imprese, c'era quella di Vincenzo Capraro che operava nell'area qui prossima o addirittura entro il territorio, stando al Giornale di Sicilia del 24 agosto 1878 che riportava un quadro quanto mai efficace della terribile attività della banda: “Capraro era a Sciacca, ma i suoi quattordici gregari erano di Sambuca, di Contessa, di Giuliana, Santa Margherita e Castronuovo, comuni posti sui confini della provincia di Girgenti con quella di Palermo. Nessuno dei codesti gregari era di Sciacca. Le grassazioni, devastazioni, assassinii, ribellioni armate, estorsioni e ricatti della banda Capraro dal 1868 al 1878 furono innumerevoli, i soli reati principali denunciati e conosciuti furono non meno che 38 e fra essi erano non meno di nove sequestri di persona.”

Nel chiudere questa pagina introduttiva alla deposizione del gernerale Casanova riportiamo come egli ha definito la Mafia ad espressa domanda: "C'è la Mafia ?"; Risposta: "Non c'è una associazione: è la tendenza a prepotere o con una raccomandazione, o con un duello o in altra guisa". In un successivo testo da lui rimesso alla Commissione il generale lascia intendere  però la presenza del "terzo livello" politico-malavitoso:

I proprietari di queste province sono ancora incerti e non danno per nulla quell'appoggio e quegli aiuti che con tutti i mezzi si è cercato di avere. Questo fatto conferma pienamente una mia previsione, manifestata fin dal settembre ultimo, che cioè non tutti i proprietari vogliono una repressione a fondo; essi si contentano di prendere il di sopra ed acquistare la perduta influenza sui briganti e sulla maffia, per servirsene, occorrendo, a soddisfare la loro ambinzione e le loro rivalità di dominio.

 Come avremo modo di capire dalla lettura integrale del verbale,  il generale molto probabilmente non era, al tempo della deposizione, informato dello scontro tra magistrati e prefettura nel periodo di Taiani procuratore. Così la pensa Paolo Manincheda, dalla cui opera abbiamo tratto ed interpretato alcune considerazioni.

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