Talenti da svendere
titola
il suo libro una ricercatrice emigrata: come i giovani stiamo buttando via il
patrimonio culturale, di cui abbiamo uno stock eccezionale e universalmente
riconosciuto.
Svendiamo
i talenti posti, nel Vangelo, a pegno del patto tra padrone e servo, che non
deve sprecarli e neppure solo custodirli: deve metterli a frutto.
La
parabola dei talenti ci insegna l’etica dell’utilizzo: sociale e sostenibile.
Sono aggettivazioni strutturali del concetto stesso di bene comune, quale è per
eccellenza il patrimonio culturale.E’ politicamente immorale ogni gestione dei beni che non comporti la loro messa a frutto sociale (in quanto patrimonio culturale, non in quanto valore economico marginale), così come è immorale la società che non si preoccupa del degrado del proprio patrimonio. Sin qui le migliori dichiarazioni di obiettivi, di politiche a cui indirizzare le energie.
Ma, dichiarate questi valori di riferimento, non riusciamo a dare spazio ad azioni strategiche: da tempo siamo impantanati nelle gore di un doppio vincolo.
Da una parte la resilienza dei tecnici, che non cede facilmente da un consolidato comportamento autoreferenziale, di conservatori erga omnes, dall’altra la troppo lenta emersione della consapevolezza del bene comune nel sentire comune.
Entrambe
le posizioni sono a un binario morto: la cultura e il suo patrimonio non sono
in agenda tra i temi di dibattito politico, di valutazione partecipata (come
mostra questa miserrima campagna elettorale), e la riduzione ogni sforzo
a conservazione, oltre che di dubbia moralità, è in Italia economicamente e
socialmente insostenibile.
Come Bateson insegna, dai doppi vincoli si esce rovesciando il tavolo.
Come Bateson insegna, dai doppi vincoli si esce rovesciando il tavolo.
Chiostro principale Santa Maria del Bosco |
E’
ormai necessario spostare l’attenzione, il campo di gioco, sulla condivisione
sociale dei valori di riferimento.
Non possiamo più contare sul clima ideologico che ci ha accompagnato fino a qualche decennio fa, per il quale la considerazione diffusa di concetti astratti come la “Storia” o la “Natura” ha molto aiutato, tra l’altro, il paradigma della conservazione del patrimonio. Il patrimonio ha rappresentato prima la riconquista dei valori storici ed identitari di Patria, nazionale o locale, poi la ricerca di un rapporto non predatorio o conflittuale con l’Ambiente, una riconciliazione con la Terra Madre. Ma quelle ideologie non sono diventate pratiche diffuse e han finito per selezionare interventi simbolici per difendere luoghi cartolina, specie-faro, aree protette, monumenti patrimonio dell’Umanità. Questi cataloghi di bandiera sono solo un pallido simulacro del paesaggio italiano, di quello fatto dagli sguardi degli amanti della bellezza diffusa, in cui l’abitare è un piacere declamato da millenni.
Si vogliono le dimissioni del ministro se crolla un muro a Pompei, ma ci siamo abituati a vedere, passando per strada, l’abbandono di chiese romaniche e palazzi seicenteschi, l’infognamento di luoghi naturali residui ai bordi delle città, il degrado di spazi pubblici infrequentabili, progettati in origine come luoghi della vita sociale e culturale di interi quartieri.
Senza rendercene conto, attestiamo la perdita del senso diffuso del paesaggio qualificato, la capacità di dare valore alla bellezza dei luoghi che abitiamo. Insomma la qualità culturale del territorio, come la pulizia di casa, si vede solo quando manca, e siamo pronti a lamentarci ex-post ma non a investire energie, denari e scelte politiche per la manutenzione dell’insediamento storico o delle fasce d’interesse naturalistico. Di fronte alla miriade di beni sul nostro territorio non sappiamo come e dove individuare le energie diffuse necessarie per la loro gestione e addirittura non sappiamo cosa fare dei beni recuperati, soprattutto se sono utilizzati come museo di se stessi.
Dunque l’impresa politica che ormai si sta profilando non è più tanto indirizzata al restauro (che nel paesaggio non è praticabile), quanto la gestione e la manutenzione, la cui mancanza costituisce un problema insormontabile anche per gli interventi recenti, una volta esauriti gli entusiasmi e gli investimenti.
Non possiamo più contare sul clima ideologico che ci ha accompagnato fino a qualche decennio fa, per il quale la considerazione diffusa di concetti astratti come la “Storia” o la “Natura” ha molto aiutato, tra l’altro, il paradigma della conservazione del patrimonio. Il patrimonio ha rappresentato prima la riconquista dei valori storici ed identitari di Patria, nazionale o locale, poi la ricerca di un rapporto non predatorio o conflittuale con l’Ambiente, una riconciliazione con la Terra Madre. Ma quelle ideologie non sono diventate pratiche diffuse e han finito per selezionare interventi simbolici per difendere luoghi cartolina, specie-faro, aree protette, monumenti patrimonio dell’Umanità. Questi cataloghi di bandiera sono solo un pallido simulacro del paesaggio italiano, di quello fatto dagli sguardi degli amanti della bellezza diffusa, in cui l’abitare è un piacere declamato da millenni.
Si vogliono le dimissioni del ministro se crolla un muro a Pompei, ma ci siamo abituati a vedere, passando per strada, l’abbandono di chiese romaniche e palazzi seicenteschi, l’infognamento di luoghi naturali residui ai bordi delle città, il degrado di spazi pubblici infrequentabili, progettati in origine come luoghi della vita sociale e culturale di interi quartieri.
Senza rendercene conto, attestiamo la perdita del senso diffuso del paesaggio qualificato, la capacità di dare valore alla bellezza dei luoghi che abitiamo. Insomma la qualità culturale del territorio, come la pulizia di casa, si vede solo quando manca, e siamo pronti a lamentarci ex-post ma non a investire energie, denari e scelte politiche per la manutenzione dell’insediamento storico o delle fasce d’interesse naturalistico. Di fronte alla miriade di beni sul nostro territorio non sappiamo come e dove individuare le energie diffuse necessarie per la loro gestione e addirittura non sappiamo cosa fare dei beni recuperati, soprattutto se sono utilizzati come museo di se stessi.
Dunque l’impresa politica che ormai si sta profilando non è più tanto indirizzata al restauro (che nel paesaggio non è praticabile), quanto la gestione e la manutenzione, la cui mancanza costituisce un problema insormontabile anche per gli interventi recenti, una volta esauriti gli entusiasmi e gli investimenti.
E’
l’asse strategico e il senso del progetto posto alla base della Convenzione
europea del paesaggio, in questo molto differente dal nostro Codice dei
Beni culturali, dove lo spazio per la gestione a scala territoriale, la
valorizzazione oltre alla tutela, l’integrazione intersettoriale e la
sussidiarietà tra i soggetti, manca o è solo adombrato genericamente.
Autore :
Paolo Castelnovi**, ( Sintesi tratta dal Giornale dell' Arte di Gennaio )
**(
Esperto in analisi e progettazione del paesaggio, docente di progettazione
urbanistica e pianificazione paesistica al Politecnico di Torino fino al 2010.
Coordinatore o consulente per il paesaggio nei piani paesistici e territoriali
della Valle d'Aosta, del Piemonte, delle province di Trento, di Venezia, di
Napoli, di Corona Verde di Torino, di piani di aree protette (Colli Euganei,
Monti Sibillini, Cilento e Vallo di Diano, Monte Beigua), progettista di parchi
urbani.)
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