L'intervista sul Corriere della Sera
(stralcio)
ROMANO PRODI, già premier
I 5 Stelle e, soprattutto, la Lega volano nei sondaggi. Non è che chi li critica usa lenti sbagliate, utili per decifrare un altro momento storico? Lenti che oggi danno solo immagini deformate?
«In passato sono stati fatti errori che hanno contribuito a portarci fin qui e oggi bisogna dare risposte nuove, come ha ammesso lo stesso segretario del Pd Martina. Questo non significa che si debbano accettare le soluzioni sbagliate. Per capirci, non si può negare il ruolo dello studio e dell’esperienza come base della politica. La politica è una attività in cui l’esercizio e la conoscenza sono elementi fondamentali».
Però il 60 per cento degli elettori è con il governo.
«Quanto tempo è passato dalla formazione del governo? Siamo ancora nella fase della luna di miele. E la luna di miele finisce quando uno deve andare a lavorare».
Si parla per l’Ungheria di Orbán di democrazia illiberale. È una definizione che lei userebbe anche per l’Italia attuale?
«È un rischio che corriamo. Ci troviamo infatti nel caso in cui chi ha avuto il mandato popolare pensa di avere diritto a fare o a dire qualunque cosa. Come se l’elezione portasse in dote la proprietà del Paese. È una deviazione non solo italiana. Penso alla Polonia e all’Ungheria, così vicina al cuore di Salvini. Penso alla scena dei ministri grillini affacciati al balcone di Palazzo Chigi».
Perché?
«Commentando e diffondendo quelle immagini Di Maio ha scritto: “Da quel balcone si sono affacciati per anni gli aguzzini degli italiani”. Veramente noi non ci siamo mai affacciati al balcone. Dove c’è l’istituzione non ci si affaccia al balcone».
È stato Trump a determinare il cambio di registro della politica mondiale?
«Siamo arrivati prima noi in Italia con il Vaffa di Grillo».
Lei è stato chiamato in causa nell’infuocato dibattito su Autostrade per la spinta che diede alla privatizzazione da presidente del Consiglio. Se tornasse indietro c’è qualcosa che non rifarebbe?
«Io decisi un controllo strettissimo sul gestore. Sono stati i governi successivi che l’hanno fatto saltare».
Quindi giusto privatizzare, sbagliato nazionalizzare?
«Lo Stato deve tendere ad essere arbitro e non proprietario».
Le europee sanciranno la definitiva vittoria del fronte populista?
«Le europee possono segnare invece un punto di svolta. Lo spostamento a destra incorso nel Ppe ci chiede e allo stesso tempo facilita la costruzione di un raggruppamento che veda insieme, non nello stesso partito, ma alleati: socialisti, liberali, Verdi e macronisti. Uno schieramento politico accomunato dalla stessa idea di Europa. Se designassero il presidente della commissione e facessero un programma comune allora un’alternativa sarebbe possibile».
Quale programma?
«Una politica economica da affiancare all’euro; la lotta alle disparità; la difesa comune e una linea condivisa su immigrazione, sicurezza, giovani e lavoro».
E il Pd che fa? Cambierà nome? Deve rifondarsi?
«Non mi interessa molto questo dibattito. Se vogliamo avere delle forze riformiste serve una coalizione ampia. Quello a cui penso è lo scenario europeo. Non confondiamo il riformismo con un partito. Le etichette del passato sono un punto di riferimento, ma non bastano. Se ci rivolgiamo solo ai nostri avremo forse l’unità, ma faremo poca strada».
Il Pd è un figlio suo, anche se lei si è ormai collocato fuori. In una tenda vicina, per usare una sua definizione.
«Spero che il Pd capisca che la differenziazione ancora esistente e così netta tra potere formale e potere reale nel partito non fa altro che disorientare l’elettore. È incredibile che mentre il segretario chiude la festa a Ravenna, il potere reale faccia il discorso a Firenze. Non ho mai visto nella mia vita nessuna organizzazione andare avanti così. Nessuna».
Tradotto: lei chiede che Renzi faccia un passo indietro?
«O un passo in avanti, veda lui. L’importante è sciogliere questa ambiguità»
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