Fabrizio Roncone
ROMA
Un pomeriggio intero a
ricostruire tutte le strepitose gaffe collezionate dal ministro Giuliano
Poletti. Saltano fuori anche un mucchio di imitazioni del comico Maurizio
Crozza (memorabile la gag in cui dice: «Le ore di lavoro sono parametri
odiosi...». Battuta mai pronunciata dal ministro che in compenso, però, nel
novembre del 2015, ne sfornò una forse persino migliore: «Prendere 110 e lode a
28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21».
Poi salta fuori una
foto. Una brutta foto. Roba di due anni fa, erano i giorni dell'inchiesta
denominata Mafia Capitale. Poletti è seduto a una tavolata in compagnia di
ceffi tremendi: c'è Salvatore Buzzi, responsabile della Cooperativa 29 giugno e
compare di Massimo Carminati, «er cecato», Banda della Magliana, entrambi
considerati i capi del malaffare romano e attualmente, per questo, processati.
Ci sono l'ex boss dell'Ama Franco Panzironi (poi arrestato) e un esponente del
clan dei Casamonica (la pancia debordante sotto la felpa con la scritta
Italia).
Della simpatica brigata, anche l'ex sindaco Gianni Alemanno e un
gruppetto di facce del peggior sottobosco politico capitolino. Lo scatto fu
realizzato nel 2010, quando Giuliano Poletti non era ancora ministro ma solo —
diciamo cosi — il potente presidente della Lega delle Cooperative.
La domanda,
quindi, resta identica e ancora attuale: che ci faceva li, accanto a certi
personaggi, in una cena che Buzzi aveva organizzato per ringraziare tutti «i
politici che ci sono a fianco?». La risposta di Poletti fu: «È una foto
vecchia, davvero sgradevole tirarmi in ballo».
Perché poi Poletti la risolve
sempre cosi: non avete capito, siete sgradevoli, ora vi ripeto tutto,
ascoltatemi bene. Ci prova anche adesso. Sul web sta facendo girare un breve
video in cui cerca di raddrizzare la sua ultima tragica dichiarazione: «Se 100
mila giovani se ne sono andati, non è che qui sono rimasti 60 milioni di
pistola... Questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi». Ma è teso e
goffo, nel video: chiede scusa e rispiega, modificandoli, i suoi concetti imbarazzato e scarsa mente credibile. Infatti, non gli credono. Lega Nord, M5S
e Sinistra italiana presentano mozioni di sfiducia alla Camera e al Senato: i
Giovani del Pd gli chiedono di dimettersi. Lui: «Non mi dimetto certo per una
mezza frase mal interpretata» (spiegazione fornita a un ministro. Poi, lo
stesso ministro, facendosi giurare di non finire sul giornale: «Sprecata una
grande occasione: andava cacciato un'ora dopo. Ora, purtroppo, è tardi»). Che poi:
questo secondo giro a Palazzo Chigi, secondo numerosi autorevoli retroscenisti,
Poletti se lo sarebbe dovuto guardare da casa. Da Imola.
Nasce, a Spazzate
Sassatelli (una frazione di Imola) 65 anni fa, famiglia di contadini, diploma
da agrotecnico (a volerli contare, dopo Valeria Fedeli, siamo già al secondo
ministro senza laurea). Comunque per quello che deve fare Poletti,
l'università sarebbe stata una pura perdita di tempo. A 25 anni è assessore
all'Agricoltura, a 30 segretario della federazione del Pci («Si, nel Pci siam
stati in tanti... Ci dovremmo mica sparare per questa colpa?»). Poco dopo,
diventa consigliere provinciale a Bologna per il Pds. Il posto giusto per
realizzare il suo piano: entrare in LegaCoop, scalarla e diventarne capo
assoluto (ci riesce nel 2002).
Carrierona, va.
Amico di Pier Luigi Bersani,
ossequioso con Massimo D'Alema, ben visto nel centrodestra: all'apparenza mite,
si fa inseguire dalla leggenda d'essere un camperista
(«Carico mia moglie e i miei due figli e via, partiamo verso la libertà») e di
essere un buongustaio (anche se accanto a un ceffo come Buzzi, la cena dovrebbe
andarti di traverso).
In realtà: uomo astuto, pragmatico, spregiudicato. Per
capirci: quando all'orizzonte vede spuntare Matteo Renzi, tradisce Bersani e,
alle primarie, si fionda a tirargli la volata. Si volta e si ritrova, pure lui,
a Palazzo Chigi. All'inizio, spiega le linee guida del Job Acts sfoggiando un
non scontato liberismo emiliano e scatenando, perciò, dosi di curiosità (ma i
deputati con il suo stesso accento, ammoniscono: occhio, che è un bluff).
Poi
comincia a infilarne una dietro l'altra. Crozza si scatena. Non sembra
confermabile da Paolo Gentiloni al ministero del Lavoro. E invece, come direbbe
— magari — Bersani, «Oooooh, ragassi, adesso siam qui a cercare di mettere la
camicia di forza ad una pentola a pressione».
Nessun commento:
Posta un commento