LA SICILIA
MARIO BARRESI
Se nella storia il tradimento è «un'arte
sopraffina, perché è una questione di tempi e di risultati», allora quello di
Matteo Renzi subentrato a Enrico Letta a Palazzo Chigi fu «un capolavoro».
La cronaca raccontata da un maestro del giornalismo,
con i canoni del raffinato storico. Paolo Mieli, a Catania per presentare il
suo L'arma della memoria nel ciclo
"L'autore per cena" dello Sheraton, ci ha concesso una lunga
intervista nel corso di una visita in redazione.
Nella quale l'ex direttore del Corriere della
Sera non parla soltanto di vincitori e vinti, di traditori e traditi. Ma anche
di giornali e politica. E di Sicilia. A partire da quella «retorica
dell'antimafia da straccioni».
Una della tesi
del suo libro è: nella storia non ci sono mai vincitori per sempre.
«Le vittorie non sono mai definitive, ma sono
tappe di conflitti che a un certo punto possono esaurirsi o trasferirsi in
conflitti successivi».
Ci sono tanti
esempi di storia scritta dai vincitori. Quelli più recenti? «Dopo la
stagione di Mani pulite, nel '92-'93, si applicò una storia dei vincitori per
cui la Prima Repubblica era una schifezza. Poi ci fu una riproposizione
politica di reduci. E i libri hanno continuato a raccontare una storia
piuttosto fantastica: un regno del malaffare precedente sostituito da una nuova
alba radiosa. Invece non è vera ne la prima, ne la seconda cosa».
L'altra tesi
del libro riguarda i traditori. Chi vince, nella storia, non verrà mai
considerato tale. E poi è questione di date: bisogna sapertradire. Qualche
esempio a noi vicino? «Berlusconi al governo. Lo hanno tradito tutti i
suoi alleati, in vari momenti. Ma nessuno ha riportato grandi frutti perché il
tradimento fu fatto sempre in controtempo: Follini, Casini, Fini... ».
Anche Bossi?
«Quello fu un tradimento capace. Lo dico non
apprezzando il traditore, ma da analista storico. Bossi andò fino in fondo, a
costo di presentarsi contro Berlusconi e perdere. Quando diventò veramente
prezioso, si fece riacquistare».
E quelli più
contemporanei? Alfano e Verdini in che categoria rientrano?
«Se si fosse votato subito dopo, forse potevano
essere tradimenti apprezzabili, storicamente. Ma bisogna aspettare come va a
finire».
E poi ci sono
gli aspiranti traditori: la sinistra Pd...
«Loro sono sempre incerti sui tempi. Cioè: se
tradiscono adesso, e vanno fuori, e poi restano a galleggiare.,, Ma se alla
fine dei due anni sono morti nel deserto? ».
Ma allora, da storico, il tradimento perfetto
è quello di Renzi nei confronti di Enrico Letta?
«Sì, anche se fu sui generis. Perché il
tradimento comporta che tu abbandoni il campo. Ma Renzi lo fece in maniera
talmente efficace che l'intero gruppo dirigente del Pd lo votò. Quello fu un
capolavoro, un tradimento che isola il tradito e gli porta via l'intero
esercito. Come se nella Seconda guerra mondiale uno fosse riuscito a prendere
tutto l'esercito e a portarlo in un tunnel sotterraneo, lasciando Hitler da
solo. Senza fare paragoni tra Hitler e Letta, ovviamente... Con in più la beffa
del Enricostaisereno».
Qual è il suo
giudizio sul governo Renzi?
«Parlando da storici bisogna aspettare che si
chiuda il periodo. Ma due cose si possono già dire. Primo: l'entusiasmo
iniziale è scemato. Secondo: Renzi ha fatto riforme, giuste o sbagliate che
siano, che nessuno ha fatto nei vent'anni precedenti. E questo bisogna
riconoscerlo. Cavolo,. In due anni quelli stavano lì, parlavano e non facevano
niente. E ancora adesso non propongono alternative, ma dicono semplicemente
"non va bene". A far quello sono buoni tutti».
E la storia
cosa racconterà di Grillo?
«Che ha trovato una formula magica, demagógica e
populista,
sfruttando bene il web, entrando come una lama nel burro della crisi dei partiti e mischiando tutte le ideologie, comprese la pazzia e la follia. E che, alla prova del governo, tutte le sue idee assieme sono inapplicabili. Sarà decisiva la partita di Roma. Non solo la vittoria, ma il dopo».
sfruttando bene il web, entrando come una lama nel burro della crisi dei partiti e mischiando tutte le ideologie, comprese la pazzia e la follia. E che, alla prova del governo, tutte le sue idee assieme sono inapplicabili. Sarà decisiva la partita di Roma. Non solo la vittoria, ma il dopo».
Oggi c'è la
guerra contro l'Isis. Chi sono i terroristi oggi? È corretto il modello di
accoglienza dell'Europa?
«Secondo
me l'Europa ha fatto bene, è l'analisi che è sbagliata. Chi sono quelli
dell'Isis? Sono figli di integrati che protestano contro i genitori. Noi li
descriviamo come dei fanatici islamisti; in genere sono dei puttanieri, non
hanno mai pregato, fumano spinelli, trafficano droghe. Sono iper-laici che
trovano una giustificazione a una vita da marginali con l'adesione a questi
gruppi».
Quindi
l'integrazione come risposta al terrore è sbagliata?
«Non che non bisogna integrarli, per carità. Ma
l'idea che più li integri e meno vanno a fare attentati non è la soluzione.
Perché questi sono come i giovani rivoluzionari degli anni 70: non diseredati,
ma figli della buona borghesia che trovavano una legittimazione ideologica a
comportamenti ribellistici».
Parliamo di
giornali. De Bortoli, sulla fusione fra "La Stampa" e
"Repubblica", ha detto: «Se l'avesse fatta Berlusconi ci sarebbero
state le rivolte in piazza».
«Ha totalmente ragione. Ci sarebbero state le
sommosse di piazza. E avrebbero sbagliato a farle».
Perché?
«Un processo di concentrazione delle testate ci
consente di affrontare meglio la crisi. L'importante è che siano garantiti la
molteplicità delle testate e il pluralismo».
Anche se
identità diverse rischiano di uniformarsi?
«Tutti hanno identità diverse, basta che siano garantite.
Quando Berlusconi prese Einaudi o quando Monti prese "II Giorno",
"La Nazione" e "Resto del Carlino", li hanno modificati?
Penso che siano preoccupazioni antistoriche. Piuttosto si dovrebbe pensare ai
problemi veri».
Ovvero?
«I giornali sono in difficoltà, ma producono
ancora la gerarchia delle informazioni. Dal "Fatto" al "Giornale",
se non trovi cittadinanza in una delle prime pagine vuoi dire che la tua
notizia non esiste».
Ma c'è il
web...
«Il prodotto cartaceo pagato è in sofferenza a
vantaggio di un prodotto gratuito, che vive rapinando il prodotto pagato».
E il
"paywall" del "Corriere" cos'è, un passo avanti?
«Un tentativo generoso di vedere se riesci a
farti pagare contenuti di qualità. Ancora su internet non si è trovato un modo
certo per guadagnare con l'informazione. Perché c'è l'abitudine alla fruizione
gratuita».
E la "Repubblica"
di Calabresi? Ha cambiato l'anima del giornale?
«Sì. Ha eliminato alcune asperità di
"Repubblica", più adatte al ventennio passato. Ha eliminato del tutto
gli editoriali, tranne quelli di Scalfari. Si concentra sui commenti ai fatti
del giorno. È diverso da Mauro, cosi come Mauro era diverso da Scalfari».
Ma è l'addio
al giornale-partito?
«Sì, non esiste più. Calabresi non ci crede.
Davvero, Perché farlo nell'epoca di Renzi non ha senso, non ha futuro».
Perché è più
accomodante nei confronti di Renzi?
«Nei giornali, checché se ne dica, l'umore non è
simpatizzante nei confronti di Renzi. "Repubblica" adesso è più
compiacente nei suoi confronti, ma non in ginocchio. Perché hanno capito che
non possono fare come il "Fatto", che fa la guerra a Renzi con gli
stessi stilemi con la quale si faceva a Berlusconi. "Repubblica" non
ci crede e ritiene che se lo facesse svaluterebbe le sue battaglie precedenti:
vent'anni contro Craxi, vent'anni contro Berlusconi... Se pensi a farne altri
venti contro Renzi sei un malato di mente».
E il
"Corriere" post De Bortoli? L'ex direttore ha ripreso a scrivere dopo
l'uscita di Fiat dalla proprietà. È una coincidenza?
«Le cose hanno coinciso come tempi. Io, da
storico, osservo le coincidenze cronologiche».
La Sicilia
raccontata dai giornali è passata dal luogo comune di
"coppola&lupara" a quello dell'isolamacchietta. C'entra qualcosa
Crocetta?
«Crocetta è una persona che ha delle
manifestazioni di sé che spesso fanno ridere. Uno un po' bizzarro, diciamo.
Però ci sono almeno due cose che mi sento di dire in sua difesa. Primo: le
condizioni di una Regione come la vostra sono fallimentari, è un compito
difficilissimo. Secondo: contro Crocetta è stata fatta una cosa
giornalisticamente impropria e la nostra categoria non ha fatto abbastanza
ammenda. giornalisti non possono andar
via fischiettando dopo aver scritto che le intercettazioni sulla Borsellino
erano vere. La cosa riguarda l'Espresso, ma anche tutti noi».
Quali sono gli
errori di Crocetta?
«Il fatto di aver cambiato una quarantina di
assessori, ad esempio. Uno deve sapere uscire di scena dignitosamente. La parte
peggiore è la designazione di Battiato e Zichichi. È come se il sindaco di Roma
designasse Totti e Antonello Venditti. Se si vuole imparare, la lezione di Crocetta
è: non promettere ciò che non puoi mantenere, agisci in sordina e prendi
accanto a tè delle persone competenti».
Gli ultimi
mesi sono stati quelli della caduta dei simboli dell'antimafia, travolti dagli
scandali.
Io me li sono studiati bene, questi casi: saranno
una ventina. Hanno in comune che tutti facevano parte di associazioni
antimafia, antiracket, paladini di legalità. E già questo dona un che di
ridicolo: oggi in Sicilia ammantarsi nella bandiera antimafia è diventata una
cosa gratuita. I capi mafiosi stessi consigliano agli affiliati di farne parte!
C'è una retorica dell'antimafia nei riguardi
della quale c'è stata una deresponsabilizzazione assoluta. Si è passati dai
grandi proclami di Ivan Lo Bello, che nel 2007 ci emozionarono, a casi come quello
di Montante, che nel silenzio e nell'indifferenza nazionale, si sono consumati.
È una superficialità, un'omertà continentale: colpa dei grandi dirigenti di
Confindustria, ma anche della stampa. Il terzo elemento è che questi episodi
sono ridicoli. C'è un'immagine di collusioni da straccioni, di piccoli
inghippi. Non c'è più la strage di viale Lazio, che ti dava l'impressione di
una partita importante, di una mafia forte e di interessi miliardari. Oggi c'è
una mafia ridotta a una dimensione di accattonaggio dei soggetti corrotti».
Ma, da
storico, secondo lei a che punto è la guerra vera alla mafia?
«Contro la mafia i risultati ci sono stati. Ma
nessuna guerra, come insegna la storia, ha vittorie o sconfitte definitive.
Tutto si rimette in movimento».
Così come il
giudizio sulle bandiere dell'antimafia...
«Quelle bandiere non hanno significato. Perché
s'è scoperto che dentro quelle bandiere c'è chiunque. Se io oggi volessi fare
del malaffare in Sicilia, mi iscriverei a un circolo AddioPizzo, all'associazione
Libera. Non hanno valore, sono chiacchiere. Quando Lo Bello lanciò la stagione
antimafia di Confindustria non fece un codice che espelleva chi pagava il
pizzo? Che fine ha fatto quel codice? Nessuno ha vigilato. A Siracusa c'è un
viavai di presidenti indagati o costretti alle dimissioni. Sono cose de
minimis. Nessuno è Lima o Liggio...».
E non è meglio
che non ci siano più?
«No, questo è più grave. È la distrazione di un
Paese che considera queste cose folklore, È il razzismo di un che ride della
Sicilia. Che paga un prezzo altissimo: nessuno viene a fare impresa da voi. La
cosa pubblica non funziona e per di più è pure ridicola. Un mix esiziale, grave
quanto nell'era della mafia stragista. Poi c'è stato un uso disinvolto dei
reati a sfondo mafioso. Dopo l'appello di Lo Bello si sono fatti tutti gli
errori possibili: non si è vigilato e si sono fatti passi indietro, ma poi si è
esteso il reato a sfondo mafioso anche a chi passava col rosso al semaforo...
Non si può amministrare in allegria, ci vuole rigore. Perché altrimenti il
punto d'arrivo è peggio del punto di partenza».
twitter: @MarìoBarresi
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