Il tavolo rovesciato
Sin da ragazzo mi sono chiesto perchè mai la povera gente, i contadini poveri soprattutto, avesse l'abitudine e coltivasse antiche tradizioni di portare a casa delle persone influenti del paese e regalare il primo paniere di frutta raccolto nel "loco"; non solo, di offrire il primo e più grasso galletto allevato nel pollaio.
Erano le famiglie più povere che coltivavano questi costumi, proprio loro che erano bisognose di essere aiutate.
Vediamo di capire come il modo di articolarsi della società
influisca (anche oltre la sua vigenza) sui comportamenti della
gente.
Lo faremo pigliando spunto dall'Ordinamento di
abrogazione del feudalesimo (1812)
«Non ci saranno più feudi, e
tutte le Terre si possederanno in Sicilia come in allodi … Cesseranno ancora le
giurisdizioni e quindi i baroni saranno esenti da tutti i pesi a cui finora
sono stati soggetti per tali diritti feudali. Si aboliranno le investiture,
rilevj, devoluzioni al fisco ed ogni altro peso inerente ai feudi…».
L’articolo XI delle “basi” della
Costituzione siciliana del 1812 chiuse la lunga stagione di un istituto
giuridico che condizionò profondamente, dal momento dell’insediamento normanno,
la storia politica, sociale ed economica del Regno di Sicilia.
Una determinazione quella portata avanti dal governo borbonico di allora -sospinto dalla presenza di forze militari inglesi presenti nell'isola- che travolse
un caposaldo politico e istituzionale della struttura costituzionale del Regno
di Sicilia e segnò l’inversione culturale delle posizioni
dell’aristocrazia nei confronti di quei principi che erano considerati
fondamentali per l’esistenza stessa di una società articolata su ceti.
Se il ceto nobiliare perdeva
la guida che “ope legis” le spettava della società, chi è subentrato ad esso in
quell’alba dell’Ottocento ?
Il Parlamento siciliano votò quell’affermazione
di principio, ma fu il governo borbonico che disegnò il percorso attuativo con
il decreto «Della feudalità diritti e pesi feudali».
L’articolo 1 del capitolo I del decreto ribadì
che «gli abitanti di qualunque comune saranno considerati di ugual diritto, e
condizione, e tutte le popolazioni del Regno saranno governate colla stessa
legge comune del Regno».
Questo principio smantella tutta
la complessa impalcatura giurisdizionale sulla quale si reggeva il governo del
“feudo”: l’articolo 2 del capitolo primo statuì che «cesseranno tutte le
giurisdizioni baronali» con la conseguente abolizione dell’esercizio del mero e
misto imperio;
l’articolo 3 prevedeva che i baroni non
fossero più responsabili della tenuta dell’ordine pubblico nei loro feudi;
l’articolo 4, infine, destrutturò tutto il
governo amministrativo dei comuni posti sotto la giurisdizione baronale,
deliberando che «cesseranno in conseguenza ne’ baroni gli uffizi
-di maestro-Notaro di corte,
- di bajulo,
- di catapano,
-ed altri provenienti dalla
giurisdizione signorile».
La deliberazione del parlamento e il
susseguente decreto attuativo chiusero un conflitto apertosi negli anni ’80 del
‘700 con il viceré Caracciolo e proseguito con alterne fortune per trent’anni
sino al 1812.
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Il complesso normativo con il
quale si smantella la struttura giuridico-istituzionale sulla quale si reggeva il
governo della Contessa feudale dalla fine del Quattrocento al 1812 (anno della fine del feudalesimo) era ispirato alla divisione per classi (definiti "ceti" della società).
Il comma 2 del capitolo II del decreto gvernativo prevede che «le
angherie e perangherie introdotte soltanto dalla prerogativa signorile, restano
abolite senza indennizzazione. E quindi cesseranno le corrispondenze di
galline, di testatico, di fumo, di vetture, le obbligazioni a trasportare in
preferenza i generi del barone, di vendere con prelazione i prodotti allo
stesso, e tutte le opere personali, e prestazioni servili provenienti dalla
condizione di vassallo a signore».
Non solo si aboliscono i servizi obbligatori
che devono essere forniti al barone ma, soprattutto, si rompono tutti i
monopoli che garantiscono una posizione dominante al signore feudale e si apre
il sistema economico alla concorrenza. Infatti il comma 3 prevede che «sono
ugualmente aboliti senza indennizzazione i diritti privativi e proibitivi per
non molire i cittadini in altri trappeti, o mulini, fuori che in quelli dell’
in avanti barone, di non cuocere pane, se non ne’ forni dello stesso, di non
condursi altrove, che non ne’ di lui alberghi fondachi, ed osterie; i diritti
di zagato per non vendere commestibili e potabili in altro luogo, che nella
taverna baronale, e simili, qualora fossero stabiliti sulla semplice prerogativa
signorile, e forza baronale».
Gli effetti delle predette norme furono dirompenti (avrebbero dovuto essere dirompenti) sugli assetti delle comunità e diedero origine a complessi e annosi
contenziosi presso il giudice ordinario. Non però da parte dell'intera comunità. Gli appartenenti dell'ex ceto de "civili" che colsero la portata della "riforma" puntarono ad occupare gli "spazi vuoti" creatisi nella società. Il conflitto fu alimentato dalla clausola
di salvaguardia inserita nel comma 4 del predetto capitolo II con la quale si
prevede la possibilità di compensazioni sui predetti diritti signorili «qualora
siano provenienti da una convenzione corrispettiva tra li baroni e comune, o
singoli, o da un giudicato».
Chi, dalla riforma, non ottenne benefici furono i ceti "subalterni".
Con la legge 12 dicembre 1816, il governo borbonico attivò processi amministrativi
grazie ai quali si demolì una società strutturata per ceti e si costruì
una classe dirigente nuova, per il tramite delle liste degli eleggibili
selezionati in base al censo, alla quale si affidò l’autogoverno dei
comuni.
I Borbone, pur rifiutandosi di concedere spazi di rappresentanza
politica alla società dopo la restaurazione del 1815, attivarono comunque un processo di trasformazione del governo degli enti locali
assicurando una amministrazione civile efficiente e soggetta a regole
uniformi per tutto il Regno.
In quella fase storica non fu un processo da poco.
In quella fase storica non fu un processo da poco.
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