LA STAMPA
Salvatore Lupo, 64 anni, origini senesi ma di
fatto (e di accento) catanese, docente di Storia contemporanea all'Università
di Palermo, è uno dei massimi studiosi del fenomeno mafioso: un paio di anni fa
il suo pamphlet «La mafia non ha vinto», scritto col collega docente di Diritto
penale Giovanni Fiandaca, scatenò un putiferio perché picchiava duro contro le
tesi della trattativa Stato-mafia. Ora ha scritto per Donzelli un altro saggio
sulla «Questione: come liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi».
Però, professore, i Bontate, per molti versi la storia della mafia, ora tornano
al centro delle cronache.
«Con i miei studenti studiamo l'albero genealogico di
questa famiglia, una delle più antiche della mafia palermitana, e arriviamo a
metà dell'800: nel secolo scorso brillò don Paolino, grande leader degli Anni
50 e 60, con ot timi agganci nella buona società e nella politica del
capoluogo. E anche il figlio Stefano, il Principe di Villagrazia, aveva ottimi
"ammanigliamenti" con ambienti politici».
Cognomi pesanti, la
necessità di colpire gli eredi, i giovani, in questo caso un incensurato.
«Questo fa capire come sia sufficiente un cognome, per assicurare un livello di
continuità delle questioni inframafiose, che si risolvono con una scia di
sangue. E se i conflitti stanno sempre dentro gli stessi gruppi è un fatto che
non può non attirare la nostra attenzione».
Stefano Bontate fu ucciso
per essersi opposto ai «viddani» di Riina, Giovanni per avere fatto il doppio
gioco tra palermitani e corleonesi: quasi trent'anni dopo tocca al genero.
«E
sempre negli stessi posti. Questo è voler dare continuità. D'altronde il
ritorno dei vecchi capimafia sul territorio, dopo la loro uscita dal carcere, è
un altro segno che la mafia segue le stesse dialettiche di sempre. Le stesse
che c'erano negli Anni 30, quando, dopo la repressione fascista ci fu un
dialogo intenso tra chi stava fuori e chi era invece in galera o al confino».
Anche oggi però la repressione dello Stato è forte.
«Questo è il discrimine
rispetto al passato della Prima Repubblica, il fatto che Cosa nostra debba
affrontare una pesante repressione. Ma dire che la mafia possa finire del tutto
non è a mio avviso molto logico».
Lei è però convinto, ancora adesso, che la
mafia non abbia vinto?
«Certo che non ha vinto. Il mio saggio si riferiva a una
mafia stragista che non ha ottenuto gli obiettivi prefissati. La mafia può
essere contrastata e combattuta. Ma non si può dire che sia debellata. Oggi
meno che mai».
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