Il contenuto che segue e' ispirato e ripreso dal libro
Storia delle tradizioni filosofiche dell'Europa Orientale
di
Helmut Dahm e Asen Ignatur
Primi principi di una filosofia
Dopo lo scisma dei raskol’niki, la penetrazione della cultura occidentale in Russia fu favorita da Pietro il Grande (nato nel 1672, zar dal 1682, imperatore dal 1721, morto nel 1725). Acquisì importanza la realizzazione di un sistema scolastico che ricalcava quello dell’Ucraina, che alloraera stata posta sotto il dominio della Polonia.
Per contrastare la cosiddetta «Unione di Brest» del 1569 che sanciva l’unione delle Chiese occidentale e orientale all'interno dei territori polacchi, il metropolita di Kiev Pëtr Mogila (o Petro Mohyla) istituì nel 1632, secondo il modello dei collegi gesuiti, il «Collegio mohyliano», divenuto Accademia nel 1701. Oltre alle antiche lingue latino, greco e slavo ecclesiastico e accanto a discipline come matematica, grammatica, poesia e retorica, vi si insegnavano anche filosofia e teologia nello spirito della scolastica occidentale.
Il Collegio di Kiev ebbe un forte influsso sullo sviluppo del sistema scolastico anche in altre regioni.
Georgij Florovksij delineò le caratteristiche degli studi filosofici nel modo seguente: «A quell’epoca si insegnava ovunque la filosofia peripatetica, Philosophia aristotelico-scholastica, ricorrendo abitualmente agli stessi libri utilizzati dai gesuiti polacchi».
A metà del XVIII secolo si passò dalla scolastica aristotelica a Wolff: «Cominciò il dominio della scolastica latino-protestante. La scuola mantenne la lingua latina, pure i metodi di insegnamento e il sistema scolastico come tale non furono modificati».
Seguendo l’esempio del Collegio mohyliano, fu istituita nel 1687 l’«Accademia slavo- greco-latina> e altre scuole in diverse citta'.
Sotto Pietro il Grande, sorse una rete di scuole professionali, principalmente scuole per le scienze matematiche e nautiche..
Chiamando in Russia dotti occidentali, lo zar istituì nel 1724 un’Accademia delle scienze, che « fino alla metà del XIX secolo rivestì quasi il ruolo di un’agenzia della scienza occidentale in un paese che le era praticamente indifferente», e questo benché a metà del XVIII secolo i suoi membri fossero russi. Tra questi ultimi va citato Michail Vasilevič Lomonosov, autore tra l’altro della prima grammatica della lingua russa (scritta per distinguerla dallo slavo ecclesiastico.
Decisiva per lo sviluppo della filosofia fu la fondazione dell’Università di Mosca nel 1755. Da questo momento in poi si può parlare di una filosofia in Russia, seppure non di una filosofia propriamente russa. Inizialmente, fu predominante l’influsso di Christian Wolff, a cui subentrò verso la fine del secolo quello dell’Illuminismo e degli enciclopedisti.
Importante per il «risveglio» della filosofia russa nel XIX secolo fu la massoneria, che ebbe in Russia un carattere diverso da quella occidentale.
I massoni russi si opposero all’Illuminismo e allo spirito «voltairiano», indirizzandosi spiritualmente soprattutto alla mistica pietista protestante tedesca – Jakob Böhme, Louis Claude de Saint-Martin, Johann Heinrich Jung-Stilling, John Pordage, Valentin Weigel – ma anche alla patristica, ad autori come Agostino, Dionigi lo Pseudoareopagita, Gregorio Palamas, a opere come De imitatione Christi e ad autori come lo Scupoli, Angelo Silesio e altri.
Lev Tolstoj ha tracciato in Guerra e Pace un ritratto penetrante della fisionomia di un massone russo. I massoni si imposero una disciplina spirituale e videro il proprio compito nell’autoabnegazione, nello «sgrossare la ruvida pietra del cuore umano».
In quel periodo operò in Ucraina un pensatore originale come Grigorij Savvič Skovoroda (1722-94), nel cui pensiero è ravvisabile l’impronta altrettanto decisiva della patristica e della mistica occidentale.
Il «risveglio» della filosofia russa
Una filosofia propriamente russa sorse all’inizio del XIX secolo, soprattutto nei circoli studenteschi e nelle discussioni filosofiche che si tenevano nei salotti delle alte sfere della società. Inizialmente sotto l’influsso di Schelling, divenne predominante dopo il 1837 l’influsso di Hegel.
Non si trattò di una semplice ricezione del filosofo tedesco ma di una reazione originale e di un dibattito rivolto a superare il pensiero hegeliano, concepito come formalismo astratto, rivolgendosi soprattutto al concreto e all’azione.
Al primo entusiasmo per Hegel successe rapidamente una fase di ripulsione, che sprigionò una profonda crisi e condusse infine alla rottura con l’idealismo tedesco e poi, spesso, con tutta la filosofia. Alcuni di quei giovani entusiasti credettero dunque di trovare uno sbocco nella «prassi».
Ciò che nella filosofia hegeliana tanto colpiva la gioventù che ne discuteva nei circoli, divenne visibile con particolare chiarezza in Michail Bakunin, Grigorij Belinskij e Aleksandr Herzen, e in tal senso ricorderemo il concetto di realtà razionale.
La nota espressione hegeliana del prologo ai Lineamenti di filosofia del diritto, «tutto ciò che è razionale è reale, e tutto ciò che è reale è razionale», fu utilizzata da Bakunin, e in seguito anche da Herzen, per determinare il concetto della vera speculazione filosofica: la filosofia preempirica aveva cercato il vero nell’astratto universale, mentre il merito dell’empirismo stava, al contrario, nell’aver rivolto l’attenzione nuovamente al concreto, continuando tuttavia a porsi nell’astratto-finito.
La vera filosofia non cerca un universale che superi il particolare e lo abbandoni poi dietro di sé: la verità consiste piuttosto nella «inscindibile e razionale unità del generale e del particolare, di infinito e finito, dell’Uno e dei Molti». Una filosofia di questo tipo è conoscenza della «reale verità» e della «vera realtà».
In una prima fase del loro sviluppo, tuttavia, i giovani hegeliani russi fondarono la ricerca pratica di un’incondizionata riconciliazione con la realtà concretamente esistente su un’equivoca comprensione del principio hegeliano di realtà razionale. Questo significava nella Russia di allora l’assenso alla politica ultrareazionaria di Nicola I.
«La riconciliazione con la realtà in ogni aspetto e in tutti gli ambiti della vita», scrive Bakunin, «è il grande compito del nostro tempo. [...] Vogliamo credere che, finalmente, la nuova generazione si senta affine alla nostra bella realtà russa e [...] che in sé coltivi il legittimo bisogno di essere veri uomini russi». Anche Belinskij esigeva, in una prima fase della sua infatuazione per Hegel, un’incondizionata sottomissione alla realtà.
«La riconciliazione con la realtà in ogni aspetto e in tutti gli ambiti della vita», scrive Bakunin, «è il grande compito del nostro tempo. [...] Vogliamo credere che, finalmente, la nuova generazione si senta affine alla nostra bella realtà russa e [...] che in sé coltivi il legittimo bisogno di essere veri uomini russi». Anche Belinskij esigeva, in una prima fase della sua infatuazione per Hegel, un’incondizionata sottomissione alla realtà.
Tale ottimistica visione durò ben poco.
Nell’autunno del 1839 Belinskij si trasferì da Mosca a San Pietroburgo, ove ebbe occasione di conoscere in modo ravvicinato la «bella realtà russa» della corte pietroburghese. Se prima egli esigeva la sottomissione alla realtà in nome della teoria secondo cui l’uomo è «reale» solo come espressione finita dell’infinità, ora egli poteva vedere a che cosa tutto ciò portava in pratica. Ne colse le conseguenze, e con Hegel fu rottura.
Nel 1841 egli fece i conti con Hegel in una denuncia straordinariamente toccante che troviamo in una lettera all’amico Vasilij P. Botkin: «In lui [Hegel] il soggetto non è fine a se stesso, ma mezzo per una transitoria espressione dell’universale, e questo universale appare in lui [Hegel] rispetto al soggetto come un Moloch, poiché, dopo essersi soffermato un po’ in lui [nel soggetto], se ne sbarazza poi come fosse un vecchio cencio.
Dalle parole di Belinskij, un ruolo essenziale nella ricezione di Hegel da parte dei giovani russi fu svolto, accanto al principio della realtà razionale, anche dalla dialettica (che vi è comunque intimamente legata). Ciò si può vedere rispetto a Belinskij, in Bakunin e Herzen. Bakunin riprese la dialettica dapprima con un fervore addirittura religioso, scorgendo in essa il richiamo al sacrificio di sé e alla rinunzia. Ancora il 3 gennaio 1842 scriveva in una lettera: «Contrariamente alla vita materiale, che possiede solo ciò che si prende, lo spirito possiede solo quel che cede [...] L’uomo deve morire di continuo per vivere di continuo: donarsi incessantemente per possedersi sempre...». Già nell’ottobre dello stesso anno, tuttavia, con lo pseudonimo di Jules Elysard, pubblicava sui «Deutsche Jahrbticher», organo della sinistra hegeliana, il famoso articolo Reaktion in Deutschland (La reazione in Germania), in cui intendeva suggerire che nella dialettica hegeliana il momento decisivo era rappresentato dalla negazione, ora già trasformata in un concetto politico. L’articolo si chiudeva con la nota affermazione: «La voglia di distruggere è contemporaneamente una volontà creatrice!».
Dalle parole di Belinskij, un ruolo essenziale nella ricezione di Hegel da parte dei giovani russi fu svolto, accanto al principio della realtà razionale, anche dalla dialettica (che vi è comunque intimamente legata). Ciò si può vedere rispetto a Belinskij, in Bakunin e Herzen. Bakunin riprese la dialettica dapprima con un fervore addirittura religioso, scorgendo in essa il richiamo al sacrificio di sé e alla rinunzia. Ancora il 3 gennaio 1842 scriveva in una lettera: «Contrariamente alla vita materiale, che possiede solo ciò che si prende, lo spirito possiede solo quel che cede [...] L’uomo deve morire di continuo per vivere di continuo: donarsi incessantemente per possedersi sempre...». Già nell’ottobre dello stesso anno, tuttavia, con lo pseudonimo di Jules Elysard, pubblicava sui «Deutsche Jahrbticher», organo della sinistra hegeliana, il famoso articolo Reaktion in Deutschland (La reazione in Germania), in cui intendeva suggerire che nella dialettica hegeliana il momento decisivo era rappresentato dalla negazione, ora già trasformata in un concetto politico. L’articolo si chiudeva con la nota affermazione: «La voglia di distruggere è contemporaneamente una volontà creatrice!».
In seguito, Bakunin si discostò non solo da Hegel, ma anche dalla filosofia in genere, dedicandosi all’azione rivoluzionaria e diventando «il padre dell’anarchismo russo».
Se Belinskij e Bakunin hanno tratto inizialmente delle conseguenze ancora conservatrici dal principio hegeliano di realtà razionale, Aleksandr Herzen interpretò tale principio costantemente in senso rivoluzionario. Se tutto il reale è razionale, allora anche la lotta contro la realtà esistente, nella misura in cui è reale, è razionale. In tal modo, la dialettica di Hegel diventava per lui un’«algebra della rivoluzione».
Nel 1847 Herzen si trasferì in Occidente, che però lo deluse a causa della mancanza di un vero slancio rivoluzionario. Di pari passo presero a profilarsi il suo distacco da Hegel e la perdita di una propria posizione filosofica. Essendogli stato proibito il ritorno in Russia, dovette rimanere in Occidente fino alla morte.
A Londra pubblicò il giornale rivoluzionario russo «Kolokol», in cui faceva propaganda per un socialismo da costruirsi sulla base del mir, la comunità di villaggio diffusa nelle campagne russe. In tal modo, aprì la strada al movimento populista del narodničestvo.
A Londra pubblicò il giornale rivoluzionario russo «Kolokol», in cui faceva propaganda per un socialismo da costruirsi sulla base del mir, la comunità di villaggio diffusa nelle campagne russe. In tal modo, aprì la strada al movimento populista del narodničestvo.
Analizzando lo sviluppo spirituale di queste tre figure, non si possono non scorgere alcune affinità con la crisi spirituale che aveva attraversato la Russia nel XVI e nel XVII secolo.
In entrambi i casi, la crisi affondò le sue radici nella fede in un ideale realizzato. Al tempo, i proseliti dell’idea della «santa Russia» avevano assolutizzato la realtà religiosa e politica, vedendo nell’ordinamento statale del granducato di Mosca l’incarnazione della realtà cristiana e chiudendosi a ogni riforma, per quanto necessaria essa fosse, il che portò alla fine al grande scisma ecclesiastico del 1666.
In entrambi i casi, la crisi affondò le sue radici nella fede in un ideale realizzato. Al tempo, i proseliti dell’idea della «santa Russia» avevano assolutizzato la realtà religiosa e politica, vedendo nell’ordinamento statale del granducato di Mosca l’incarnazione della realtà cristiana e chiudendosi a ogni riforma, per quanto necessaria essa fosse, il che portò alla fine al grande scisma ecclesiastico del 1666.
Successivamente, su un altro piano, ossia quello filosofico, il principio hegeliano (equivocato) della realtà razionale fece credere ai giovani hegeliani, seppur per breve tempo, che il mondo russo circostante fosse l’incarnazione dell’Idea nella realtà politico sociale. Quando essi videro il vero carattere della realtà, la conseguenza fu non solo una rottura con Hegel e con la filosofia in genere, ma una decisiva dichiarazione di guerra alla situazione in cui si trovavano e il passaggio alla prassi politico-rivoluzionaria.
Nella ricezione di Hegel da parte di una gioventù entusiasmata dalla filosofia abbiamo visto che l’influsso del filosofo tedesco derivava soprattutto dal suo «idealrealismo», dalla visione di una realtà ideale che andava trovata nella realtà empirica. D’importanza tutt’altro che secondaria era tuttavia la visione nel mondo di una reale unità del tutto con il tutto.
Lo scrittore Ivan Turgenev ci dipinge l’atmosfera che dominava nei circoli filosofici, in cui si imparava da Hegel a percepire il legame universale e la legge delle cose: «Un ordine armonico permeava tutto [...] tutto ciò che era lacerato si ricompose, crebbe di fronte a noi come una costruzione, tutto divenne chiaro, lo spirito soffiò ovunque. [...] Nulla rimase di insensato e casuale: in tutto si esternarono la necessità razionale e la bellezza, tutto ottenne un significato chiaro e contemporaneamente misterioso; ogni singola manifestazione della vita risuonava come un accordo, e noi stessi ci sentivamo pervasi da una sacra venerazione, da un dolce trepidio del cuore, quasi fossimo i vasi della verità eterna, i suoi strumenti, chiamati a qualcosa di grande».
Che nell’entusiasmo dei giovani russi per Hegel giocasse un ruolo notevole anche l’ antinomica, si può intravedere da una serie di testi che Čiževskij trae da Belinskij. La forza espressiva di tali scritti risulta ancora maggiore se si considera che Belinskij non conosceva il tedesco e aveva nozione di Hegel solo da quanto gli raccontavano di lui gli amici (soprattutto Bakunin, Vasilij P. Botkin, Mikhail N. Katkov).
Negli anni Quaranta si arrivò a una nuova scissione del ceto colto che avrebbe avuto pesanti conseguenze per tutto il futuro sviluppo della cultura russa: gli slavofili e gli occidentalisti.
La polemica divampò sulla questione dell’appartenenza culturale della Russia.
Per un occidentalista la Russia non era null’altro che una parte d’Europa, seppure una parte piuttosto arretrata nello sviluppo. Il suo compito principale sarebbe dunque consistito nell’imparare dall’Occidente. Fra i fautori principali dell’ala radicale occidentalista (accanto a cui ci fu una corrente più moderata, maggiormente operante in senso scientifico, alla quale appartenevano per esempio Timofej N. Granovskij, K. D. Kavelin e altri) si citano comunemente Belinskij, Bakunin e Herzen, benché a causa del loro romanticismo essi fossero più vicini agli slavofili di quanto volessero ammettere.
Per un occidentalista la Russia non era null’altro che una parte d’Europa, seppure una parte piuttosto arretrata nello sviluppo. Il suo compito principale sarebbe dunque consistito nell’imparare dall’Occidente. Fra i fautori principali dell’ala radicale occidentalista (accanto a cui ci fu una corrente più moderata, maggiormente operante in senso scientifico, alla quale appartenevano per esempio Timofej N. Granovskij, K. D. Kavelin e altri) si citano comunemente Belinskij, Bakunin e Herzen, benché a causa del loro romanticismo essi fossero più vicini agli slavofili di quanto volessero ammettere.
Gli slavofili vedevano nella Russia una connotazione culturale diversa da quella occidentale che, cresciuta nell’eredità greco-bizantina, si sarebbe formata appieno nella Russia prepetrina, e, in tal senso, consideravano deleterie per la Russia le riforme di Pietro il Grande, che miravano a un’europeizzazione del paese. Vedevano l’Occidente invischiato in una profonda crisi spirituale e ne sottolineavano volentieri il «marciume».
L’opposizione tra slavofili e occidentalisti tuttavia non va resa troppo assoluta. Infatti, se da un lato gli slavofili non chiusero mai gli occhi di fronte ai successi culturali dell’Occidente – tanto che uno slavofilo come Aleksej S. Chomjakov lo definiva addirittura «terra di sacre e mirabili opere» –, occidentalisti, dall’altro, non negavano alla Russia una precisa missione nei confronti dello stesso Occidente, una volta che la nazione russa fosse riuscita a elaborare positivamente le aporie della società occidentale. Essi credevano che, richiamandosi alle proprie tradizioni culturali e facendo tesoro delle esperienze negative dell’Occidente, la Russia sarebbe riuscita a trovare prima o poi la parola liberatrice che avrebbe potuto trarre in salvo dalla sua crisi anche la cultura e la società occidentale (per esempio Herzen e Pëtr Ja. Čaadaev).
L’opposizione tra slavofili e occidentalisti tuttavia non va resa troppo assoluta. Infatti, se da un lato gli slavofili non chiusero mai gli occhi di fronte ai successi culturali dell’Occidente – tanto che uno slavofilo come Aleksej S. Chomjakov lo definiva addirittura «terra di sacre e mirabili opere» –, occidentalisti, dall’altro, non negavano alla Russia una precisa missione nei confronti dello stesso Occidente, una volta che la nazione russa fosse riuscita a elaborare positivamente le aporie della società occidentale. Essi credevano che, richiamandosi alle proprie tradizioni culturali e facendo tesoro delle esperienze negative dell’Occidente, la Russia sarebbe riuscita a trovare prima o poi la parola liberatrice che avrebbe potuto trarre in salvo dalla sua crisi anche la cultura e la società occidentale (per esempio Herzen e Pëtr Ja. Čaadaev).
La visione del mondo degli slavofili recava l’impronta decisiva dell’ideale dell’integralità. Nel campo filosofico essi contrapposero al razionalismo, che avrebbe dovuto rappresentare l’ultima parola e contemporaneamente anche la dissoluzione della cultura europea, l’esigenza di una conoscenza integrale.
Per Ivan Kireevskij, il «filosofo» del movimento slavofilo, nel momento della conoscenza si realizzava un incontro esistenziale tra il conoscente e la «verità», un atto cioè di sublime responsabilità. L’atto della conoscenza non era pertanto questione di una sola capacità, ma costituiva un richiamo per l’uomo nella sua interezza e con tutte le sue facoltà: intelletto, volontà, coscienza, senso del bello, del vero, della giustizia, della misericordia e così via.
Aleksej S. Chomjakov, il «teologo» degli slavofili, sviluppò invece nella dottrina della sobornost’ soprattutto la dimensione comunitaria della teoria slavofila del sapere integrale: solo chi si trova in un vitale legame con l’organismo della Chiesa può partecipare compiutamente alla verità, giacché lo spirito della verità non è dato al singolo, bensì alla comunità della Chiesa, unita nell’amore. «Se uno di noi commette peccato, egli pecca da solo; ma nessuno si salva da solo. Chi sarà salvato, sarà salvato nella chiesa, come suo membro, unito a tutti gli altri suoi membri. Se uno crede, si trova nella comunità della fede, se egli ama, si trova nella comunità dell’amore.»
Vista con gli occhi dello spirito, la Chiesa visibile non è una società visibile di cristiani: a vivere in questa comunità sono piuttosto lo spirito di Dio e la grazia dei sacramenti: «Quindi anche la chiesa visibile è visibile solo al credente, poiché, per chi non crede, il sacramento è solo un rito e la chiesa è solo una società».
Kireevskij e Chomjakov furono critici rispetto alla filosofia di Hegel già dall’inizio, il che non vale tuttavia per tutti gli slavofili. Konstantin S. Aksakov, per esempio, vedeva svolgersi nella storia della Russia un processo dialettico: le riforme introdotte da Pietro il Grande significavano a suo parere la «negazione» della sostanza nazionale, a cui sarebbe dovuta seguire la «negazione della negazione» con la piena realizzazione dell’essenza russa in campo sociale.
Jurij F. Samarin si spinse a considerare il destino della chiesa russa come legato alla filosofia hegeliana, applicando lo schema dialettico alla relazione opposizionale delle tre confessioni cristiane: caratteristica del cattolicesimo era l’idea astrattamente assunta dell’unità; il protestantesimo, a sua volta, si fondava sull’unicità altrettanto astratta della persona; solo l’ortodossia poteva essere intesa come sintesi di entrambi.
Sotto l’influsso di Chomjakov, tuttavia, sia Aksakov sia Samarin abbandonarono il loro hegelianesimo e, alla pari degli occidentalisti, cessarono di occuparsi di filosofia in toto dedicandosi piuttosto alla «prassi», intesa, a differenza di Bakunin, Belinskij e Herzen, non come lotta politico-rivoluzionaria bensì come operato etico-religioso.
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