Il 18 gennaio verrà ricordata dagli albanesi e pure dagli arbrëshë d'Italia il 550° anniversario della morte di Giorgio Kastriota Scanderbergh.
Non avverrà di certo a Contessa Entellina, paese che ha perso la propria identità, al punto di essersi scordato persino del 50° anniversario del devastante terremoto del gennaio 1968. Si è scordato che in quel terremoto, oltre alla vita del giovane concittadino Agostino Merendino è venuto meno il vecchio paese con le case misere e prettamente contadine, il vecchio assetto edilizio e pure quello urbanistico. Contessa Entellina si è scordata di avere vissuto per mesi disorientata e terrorizzata nel freddo delle tendopoli e poi per anni nelle baracche o in contesti di fortuna in campagna.
Figuriamoci quindi se gli amministratori comunali, occupati a pensare alla possibilità di organizzare la prossima sagra del grano, sempre che il corpo elettorale abbia ancora voglia di seguirli, si siano ricordati del 550° della morte di Scanderbergh.
Eppure il prof. Pierfranco Bruni, Archeologo direttore del Ministero Beni Culturali, già componente della Commissione UNESCO per la diffusione della cultura italiana all'Estero, scrive: Il popolo albanese ha una grande memoria da difendere. Attraverso la memoria si recuperano le tradizioni di un popolo e di un destino. Il destino di un Paese è il destino di una civiltà. I suoni, i colori, le voci, i segni sono trascorsi che non ritornano ma sono anche ricordo lungo il tempo che annuncia il passato nella sfera del futuro.
Lapide del 500° anniversario (era il 1968) |
Alle cerimonia che si svolgerà in una Tirana tirata a lucido e alla presenza di molte personalità che verranno da tutte le Università del mondo parteciperà comunque una delegazione di contessioti, di cui farà parte pure il Parroco della Chiesa Madre, Papàs Kola Cuccia ed altri entusiasti della Storia e Cultura locale.
A guidare il gruppo degli arbëreshë di Sicilia sarà il grande albanologo, prof. Matteo Mandalà, ordinario presso il Dipartimento di “Culture e società” dell'Università degli Studi di Palermo. Parteciperanno comunque all'evento sindaci ed esponenti delle numerose comunità arbëreshë d'Italia, ospiti graditissimi delle Autorità Governative locali.
Per tracciare l'importanza della figura di Scanderbergh ci piace attingere alla recente presentazione curata dal prof. Pierfranco Bruni:
La letteratura albanese rientra in quelle culture letterarie che respirano identità adriatica e tradizione mediterranea. E’ sostanzialmente una letteratura ricca di stilemi e di modelli storici che rimandano ad una visione della letteratura letta attraverso i canoni di una identità antropologica.
Il popolo albanese ha una grande memoria da difendere. Attraverso la memoria si recuperano le tradizioni di un popolo e di un destino. Il destino di un Paese è il destino di una civiltà. I suoni, i colori, le voci, i segni sono trascorsi che non ritornano ma sono anche ricordo lungo il tempo che annuncia il passato nella sfera del futuro.
Uno dei libri di Kadaré che risponde proprio al discorso prima accennato è, senza alcun dubbio, I tamburi della pioggia pubblicato a Tirana nel 1970 (con il titolo Keshtiella), in Italia 1981 – 1982 da Longanesi e con una nuova edizione nel 1993 da Teadue. Un romanzo che racconta non soltanto l’epopea di Scanderbeg ma, in modo particolare, decifra la nostalgia di un popolo.
Storia e leggenda sono, appunto, un intreccio esistenziale che pone al centro la consapevolezza di una eredità ma anche il coraggio di un popolo. Si era nel XV secolo. Diaspora e fuga per il popolo albanese era un miscuglio fatto di sentimenti ma soprattutto di rabbia, di accettazione e di sconfitta.
Con la morte di Scanderbeg non solo termina una fase di attesa, di orgoglio e di gloria ma comincia una stagione, per quel popolo, senza speranza. Scanderbeg era la speranza. Su questa speranza la letteratura è diventata leggenda perché, tra l’altro, ricostruendo le gesta eroiche si riproponeva costantemente la presenza di questo personaggio. Lo si continua a vivere nella metafora dell’attesa. La realtà è alla base della lettura kaderiana ma si serve della metafora che chiave di interpretazione di una tragedia collettiva.
“Si trovano palesi testimonianze della simpatia di Gabriele D’Annunzio verso l’Albania e gli albanesi visitando l’interno del Vittoriale. Nella Stanza delle Reliquie, proprio sull’altare dei cimeli di guerra e dei simboli religiosi, si può ammirare un rarissimo esemplare rilegato in pelle dell’opera su Scanderbeg dell’abate scutarino Barletio, in versione tedesca del 1561. E’ se la memoria non mi falla, uno dei quattro o cinque libri ammessi dal Poeta in quella parte mistica della sua dimora”. E’ ciò che scrive Ernesto Koliqi in Saggi di Letteratura Albanese (Olschki, 1972), nel capitolo dedicato a “Gabriele D’Annunzio e gli Albanesi”.
“Il De Rada in Scanderbeg, lo si intuisce leggendo il suo poema, non ammirava tanto l’uomo di coraggio, virtù comune agli Albanesi, né l’abile stratega, quanto il creatore di un’idea di fratellanza, colui che aveva acceso un sacro fuoco nel grande focolare della stirpe, che aveva insegnato alla gente legata dallo stesso sangue e dalla stessa lingua a considerarsi figli della stessa madre” (Ernesto Koliqi, Saggi di letteratura albanese, Olschki Editore, 1971, pag. 109). Una questione che tocca indubbiamente le corde del sentimento di appartenenza.
Ismail Kadarè in I tamburi della pioggia racconta attraverso la lotta tra gli albanesi e i Turchi l’avventura di Scanderbeg. Eroe dell’indipendenza e per l’indipendenza, mostra la tristezza e l’anima albanese. Fa da scenario il XV secolo. Lunghe battaglie. Disperazioni urlate. E la consapevolezza che nella storia si dipinge il volto del dolore di quella gente. Un popolo in attesa che ha rintracciato negli archetipi un modello di vita. Vive dentro la nostra coscienza e la nostra identità Mediterranea nell’abbraccio con l’Adriatico.
Il valore dell’eroe fu riconosciuto anche dai turchi al punto che lo soprannominarono Scander Peg, in pratica Alessandro Magno. Roma lo onora con un monumento equestre bronzeo in Piazza Albania. |
Lingua e metafora nella storia si intrecciano in un percorso che ha una chiave di lettura profondamente culturale. Ma ci sono anche elementi religiosi. Si legge: “Che fai, Ibraim? – gli dissero -, vuoi diventare cristiano e continui a pregare come un musulmano ?”. Una testimonianza chiaramente culturale ma anche di fede. Così nell’incarnazione di Castriota.
Scanderbeg oggi rappresenta l’eroe – metafora. Un personaggio che è dentro la storia e si riappropria della storia riappropriandosi dell’identità di una terra e della singolarità di una appartenenza che ha radici antiche. Ritornare al XV secolo grazie alla rilettura di alcuni eventi è riproporre un problema che ha motivazioni etiche, politiche e culturali. Scanderbeg oggi è un personaggio che si pone all’attenzione sul piano storico ma in modo particolare la sua rilevanza ha caratteristiche politiche.
Se Scanderbeg è l’eroe che si propone come eroe – mito è certamente un personaggio che offre una risposta si di natura culturale ma anche profondamente politica nel senso che si contrappone a ciò che è stata l’Albania nello scorcio di questi anni. Un Paese dilaniato e occupato, invaso e vilipeso. Un Paese che attende ma conosce molto bene il sentiero della fuga.
La fuga è il dolore ma è soprattutto la consapevolezza di una barriera non solo ideologica quanto esistenziale.
Scanderbeg. L’eroe albanese che lottò per l’indipendenza e costrinse i Turchi alla difensiva. Sconfisse gli imperi e strinse forti amicizie con Roma e Napoli. Il popolo albanese ancora lo rimpiange. Con lui si rimpiange l’indipendenza perduta. Sono state scritte tante pagine per ricordare il suo valore.
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