21 Settembre
Si conclude il 21 settembre 1904 con successo il primo Sciopero Generale dei lavoratori italiani, proclamato dal Partito Socialista e dalla Camera del Lavoro di Milano diretta da Arturo Labriola.
E’ stato proclamato il giorno 15, in solidarietà per l’uccisione, da parte delle truppe inviate da Giolitti, di 4 minatori sardi, durante una rivolta operaia scoppiata per reclamare migliori condizioni lavorative e salari più alti e avvenuta il 4 settembre 1904 nelle miniere di Buggerru.
Ogni attività del paese rimane paralizzata: i giornali non escono, le fabbriche si fermano, i servizi pubblici non funzionano e a Venezia perfino i gondolieri incrociano le braccia.
A Buggerru, paesino di circa 9mila abitanti, le miniere erano di proprietà di una Società anonima francese “Malfidano”; il direttore era un greco di origini turche, l’ingegner Achille Georgiades. A Bugerru tutto apparteneva alla società francese, anche i circa 2mila operai delle miniere, flagellati dalla silicosi e dalla tubercolosi. I salari erano da miseria, si lavorava “solo” 12 ore al giorno, i turni dentro la miniera non erano mai inferiori a 9 ore, non c’era contratto di lavoro, né riposo settimanale.
La goccia della rivolta fu l’ordine di anticipare l’orario invernale e quindi di non avere più due ore di riposo, ma una sola ora. Si iniziò lo sciopero il 2 settembre, il 4 da Cagliari arrivarono due compagnie del 42° reggimento di fanteria e spararono sulla folla inerme. Quattro morti, decine di feriti. Il 7 settembre il lavoro riprese e la compagnia concesse 3 ore di riposo nell’intervallo. L’11 settembre si organizza a Milano un comizio contro l’eccidio sardo. I socialisti si dividono tra attendisti e decisionisti, si vota per lo Sciopero generale. Il mantovano Duroni diventa il portabandiera dell’iniziativa. Dal 16 al 21 settembre parte lo Sciopero Generale. Milano, Monza, Genova, Torino, Parma, Alessandria, Savona, Bologna, Varese, Ancona, Piombino, Roma, le prime città che aderiscono, segue l’Emilia e la Puglia.
Lo sciopero fu l’ultima atto di rottura politica tra i Socialisti e il governo Giolitti. e può essere considerato lo specchio della situazione del socialismo italiano. Lo sciopero si estese a tutta l’Italia settentrionale, ai principali centri operai di quella centrale, toccando anche l’Italia meridionale e insulare. Ovunque ebbe i suoi centri di forza e di propagazione nelle località in cui l’organizzazione di classe aveva posto più solide radici, sia nelle città che nelle campagne. Notevolissima fu la risonanza dello sciopero non solo all’interno dell’Italia, ma anche nelle socialdemocrazie europee, come prima effettiva prova di forza generalizzata della classe operaia italiana. Un prestigioso commentatore della Neue Zeit sottolineava accanto al successo dello sciopero, i limiti di “educazione socialista”, cioè organizzativi del movimento operaio italiano. Paragonata per numero di addetti nell’industria e per forza organizzativa sindacale la situazione italiana rispetto alla tedesca restava arretrata, ma il quadro sociale e professionale era in forte mutamento.
Agli inizi del ’900, al posto delle vecchie “leghe di resistenza” su base semi-artigianale nascono le nuove “federazioni di mestiere“, organizzazioni a carattere nazionale che vogliono raccogliere tutti i lavoratori occupati nei singoli rami industriali. Dopo il grande sciopero di Genova del dicembre del 1900, fino al 1903 si moltiplicano gli atti costitutivi delle Federazioni. Sono i metallurgici e i ferrovieri con i loro iscritti, ad essere i settori all’avanguardia, come lo erano stati i tipografi nell’ultimo decennio dell’800.
Nell’anno 1904 gli scioperanti dell’Industria furono 124.834, a fronte dei 94.756 dell’Agricoltura, ad indicare quanto cominciasse a mutare la composizione sociale del fronte sindacale e politico italiano. Fino ad arrivare nel 1909 a questi numeri: Industria 149.556, Agricoltura 47.576 aderenti agli scioperi. Scioperi proclamati 952 nell’Industria, 140 nell’Agricoltura.
Lo sciopero generale del 1904 manifestò l’esistenza di una consistente forza operaia, capace di coordinarsi sul piano nazionale, e di diventare protagonista della vita politica, con cui qualunque governo avrebbe dovuto misurarsi. Definito “le cinque giornate” di settembre, lo sciopero riflette la diffusione del movimento socialista sul piano politico e sindacale. Si manifestò in quell’occasione, anche lo scontro tra la linea di Arturo Labriola che era per lo sciopero a oltranza, fino alla caduta del governo, e quella più moderata e riformista di Turati, favorevole ad una limitazione della protesta. Mancarono allo sciopero i ferrovieri, duramente minacciati da sanzioni governative.
Proprio in questa occasione i Cattolici, fino allora congelati in politica dal non expedit papale, cominciarono ad essere politicamente attivi e sostennero il governo con la loro maggioranza. Il papa aveva scomunicato R. Murri , della corrente “democrazia cristiana”, impegnato a costituire nelle grandi aree agrarie del Nord, le “leghe bianche” contro le leghe sindacali rosse, ma diede via libera al sostegno parlamentare del governo Giolitti, diventandone la più valida stampella. Nel periodo che va dall’età crispina a quella giolittiana, il ceto politico dirigente rimasto un’oligarchia priva di ricambio al vertice, incapace di una più moderna organizzazione di partito e legata a una concezione di “ottimati” paternalistica e rurale, tentò di reagire all’avanzate delle forze politiche più moderne, in particolare al movimento operaio, arroccandosi in modo chiuso e cercando di ridurre tutta la questione sociale ad una questione di ordine pubblico. La reazione fu quella di rendere compatto l’intero fronte delle classi proprietarie intorno a un progetto di rifondazione autoritaria delle Stato. (U. Levra)
Gli scioperi che si susseguirono negli anni 1901 e 1902, sia nel settore agricolo che in quello industriale, sia nel più sviluppato Nord che nel Sud del paese, dimostravano che le riforme giolittiane non arrivavano ad incidere sulla precaria situazione sociale, soprattutto di quella meridionale, abbandonata e presa in considerazione solo come un serbatoio di voti da ottenere con la corruzione dei deputati meridionali, gli “àscari “del governo, con le pressioni dei prefetti e l’uso della mafia.
Gli intellettuali meridionali, come Gaetano Salvemini, non si stancavano di accusare Giolitti, il “ministro della malavita“. Fu questa in fondo, l’essenza della crisi di fine secolo per l’Italia: l’incapacità della classe politica liberale di assumere come interlocutore privilegiato il nascente movimento operaio al fine di legarlo più strettamente alle istituzioni, facendone un canale di integrazione delle masse nello Stato. Era un modello di politica giolittiana, ma la sua traduzione parlamentare fu quella di alleanze trasformistiche, ma fondamentalmente conservatrici, utilizzando in questo disegno le forze cattoliche: il paese aveva l’esigenza di riforme radicali, che se non soddisfatte avrebbero causato quella estremizzazione delle classi sociali che, dopo l’intervallo fuorviante, voluto dalla classe dirigente, della Prima guerra mondiale, giungerà al culmine nel dopoguerra con la rivoluzione fascista preventiva del ceto medio e del ceto industriale, contro i presunti sovversivi.
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