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domenica 15 gennaio 2017

Avvenne. La notte tra il 14 e 15 gennaio il terremoto del Belice provoca 300 vittime e la distruzione di molti paesi

Il quadro che Renato Guttuso dedicò
alle vittime del terremoto:
disastro naturale e disastro sociale

=296 vittime =distruzione di molti paesi

Lorenzo Barbera,  sociologo e collaboratore di Danilo Dolci, assistette alle prime scosse di terremoto di quel gennaio del 1968 nel Belice nel pomeriggio di domenica 14 gennaio '68 dopo avere partecipato ad una riunione pubblica nell'aula consiliare di Vita:

Da poco si è conclusa un’assemblea cittadina nella sala del consiglio comunale e, mentre gli uomini continuano a discutere animatamente, i bambini giocano ad acchiappareddu. 

All’improvviso, da una della case basse che danno sulla piazza, esce un uomo che afferra per i polsi uno dei bambini e lo spinge dentro casa gridando: ”Dentro, dentro, disgraziato! Dentro che c’è lu terremoto”. E lo trascina dentro casa, sbarrando il portone con tutti i ferri disponibili. Per chiudere fuori il terremoto.” 

Reazione quella descritta da Barbera che esplicita l'assoluta impreparazione culturale e comportamentale della popolazione belicina nell'affrontare ogni pesante manifestazione di madre natura.
preavviso di licenziamento
-in queste ore-
a undici dipendenti della Calcestruzzi Belice Srl
di Montevago (Agrigento)

Prima del 15 gennaio 1968 quell'angolo di Sicilia fra  più poveri e abbandonati a se stessi dell'intero Paese, pochissima gente in effetti sapeva in Italia dell’esistenza di paesi denominati GibellinaSanta NinfaMontevagoContessa EntellinaS. Margherita BeliceVitaSalaparutaPoggioreale.

La chiave di lettura 
per capire gli ingenti danni in termini di vite umane e di patrimonio edilizio  è da rinvenire proprio nell'abbandono sociale, economico e culturale in cui la Valle da secoli viveva. 
Erano paesi in cui si sostentava con una agricoltura che definire arretrata è poco. 
Erano paesi isolati dalle traiettorie -reali e virtual- su cui transitava il progresso civile e tecnologico. 
Erano paesi abituati a perdere i soggetti più vivaci e più aperti e desiderosi di un mondo migliore. Basta ricordare che dall'Unità d'Italia all'arrivo del fascismo più del doppio degli abitanti residenti in quelle zone si erano trasferiti negli Stati Uniti. Ed ancora, dagli anni del secondo dopoguerra (gli anni cinquanta e sessanta) la metà degli abitanti di quelle zone erano già emigrate nel Nord-Italia, in Germania, Svizzera e Francia.
Erano paesi dove la riforma agraria del secondo dopoguerra fu concepita e realizzata non per il progresso civile del territorio ma nell'intento di conservare l'impotenza produttiva di quei territori e di quelle popolazioni; per congelare l'arretratezza socio-economica e far proseguire il flusso migratorio di chi non accettava la persistente condizione di sottosviluppo.

Abbiamo usato i verbi all'imperfetto: erano.

Basta usare il verbo essere al presente: sono ed riuscire a leggere, ancora, la fotografia sociale, economica e culturale della zona ai nostri giorni. 
Dalla Valle in questo secondo decennio di terzo millennio si emigra, si fugge proprio come è sempre accaduto dall'Unità d'Italia. Nella Valle non esistono condizioni di vita decenti per tutti.
Lo Stato non investe in infrastrutture (viabilità) e nemmeno in formazione (cultura imprenditoriale); lo Stato realizza strutture (edilizie) non per essere usate e fruite ma per farne cattedrali nel deserto e consentire l'arricchimento di costruttori di dubbia affidabilità e in taluni casi di politici collusi. 
La ricostruzione post-terremoto, come in precedenza la riforma agraria, è servita per lasciare inalterata la realtà della Valle: fonte permanente di emigrazione.

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