Nella Sala Regia, in Vaticano, si è svolta oggi la cerimonia per
il conferimento a Papa Francesco del Premio Carlo Magno per “il suo
straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della
misericordia in una società europea di valori” .
Erano presenti il cancelliere tedesco Angela Merkel, il
presidente del Parlamento Europeo Martin Schultz, il presidente del Consiglio
Europeo Donald Tusk, il presidente della Commissione Europea Jean-Claude
Juncker e il premier italiano Matteo Renzi.
Questo il testo integrale del discorso
del Papa:
Illustri
Ospiti, vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi ringrazio per la vostra
presenza. Sono grato in particolare ai Signori Marcel Philipp, Jürgen
Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le loro cortesi
parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il prestigioso Premio,
di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un gesto celebrativo;
cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno slancio nuovo e
coraggioso per questo amato Continente.
La
creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti
appartengono all’anima dell’Europa. Nel secolo scorso, essa ha
testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo anni di
tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta,
con la grazia di Dio, una novità senza precedenti nella storia. Le ceneri delle
macerie non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero
nel cuore dei Padri fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le
fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che non si
sono uniti per imposizione, ma per la libera scelta del bene comune,
rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo tante divisioni, ritrovò
finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa.
Questa
«famiglia di popoli (1),
lodevolmente diventata nel frattempo più ampia, in tempi recenti sembra sentire
meno proprie le mura della casa comune, talvolta innalzate
scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri. Quell’atmosfera di
novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono sempre più spenti;
noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri egoismi, guardando al
proprio utile e pensando di costruire recinti particolari. Tuttavia, sono
convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima
dell’Europa e che anche «le difficoltà possono diventare promotrici potenti di
unità» (2).
Nel
Parlamento europeo mi sono permesso di parlare di Europa nonna.
Dicevo agli Eurodeputati che da diverse parti cresceva l’impressione generale
di un’Europa stanca e invecchiata, non fertile e vitale, dove i grandi ideali
che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta
che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice. Un’Europa
tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di
inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di
privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società; dinamismi
capaci di coinvolgere e mettere in movimento tutti gli attori sociali (gruppi e
persone) nella ricerca di nuove soluzioni ai problemi attuali, che portino
frutto in importanti avvenimenti storici; un’Europa che lungi dal proteggere
spazi si renda madre generatrice di processi (cfr Esort. ap. Evangelii
gaudium, 223).
Che
cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della
democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo,
Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è
successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che
hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?
Lo
scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, diceva che
oggi è capitale realizzare una “trasfusione di memoria”.
E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di distanza dal presente per
ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non solo ci permetterà di non
commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort. ap. Evangelii
gaudium, 108), ma ci darà
accesso a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare
positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione
della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di
fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero
produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non
costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).
A
tal fine ci farà bene evocare i Padri fondatori dell’Europa.
Essi seppero cercare strade alternative, innovative in un contesto segnato
dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo di sognare l’idea di
Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che provocavano soltanto
violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che
poco a poco diventavano comuni.
Robert
Schuman, in quello che molti riconoscono come l’atto di nascita della prima
comunità europea, disse: «L’Europa non si farà in un colpo solo,
né attraverso una costruzione d’insieme; essa si farà attraverso realizzazioni
concrete, creanti anzitutto una solidarietà di fatto»(3). Proprio ora, in questo nostro mondo dilaniato e ferito,
occorre ritornare a quella solidarietà di fatto, alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto mondiale, perché – proseguiva
Schuman – «la pace mondiale non potrà essere salvaguardata senza sforzi
creatori che siano all’altezza dei pericoli che la minacciano»(4). I progetti
dei Padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono
superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri.
Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici
o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre
coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate; come affermava Alcide De
Gasperi, «tutti egualmente animati dalla preoccupazione del bene comune delle
nostre patrie europee, della nostra Patria Europa», ricominciare, senza paura
un «lavoro costruttivo che esige tutti i nostri sforzi di paziente e lunga
cooperazione»(5).
Questa
trasfusione della memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare
con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando
con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace
di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di
integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare.
Capacità
di integrare
Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.
Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.
Le
radici dei nostri popoli, le radici dell’Europa si andarono consolidando nel
corso della sua storia imparando a integrare in sintesi sempre nuove le culture più
diverse e senza apparente legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre
stata, un’identità dinamica e multiculturale.
L’attività
politica sa di avere tra le mani questo lavoro fondamentale e non rinviabile.
Sappiamo che «il tutto è più delle parti, e anche della loro semplice somma»,
per cui si dovrà sempre lavorare per «allargare lo sguardo per riconoscere un
bene più grande che porterà benefici a tutti noi» (Esort. ap. Evangelii
gaudium, 235). Siamo
invitati a promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in
cui fare le cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non
può mai essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità
perché tutti gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano
sviluppare la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta
il solo inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte
integrazione culturale.
In
questo modo la comunità dei popoli europei potrà vincere la tentazione di
ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di avventurarsi in “colonizzazioni
ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza dell’anima europea, nata
dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli attuali confini dell’Unione
e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e di dialogo. Il volto
dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad altri, ma nel portare
impressi i tratti di varie culture e la bellezza di vincere le chiusure. Senza
questa capacità di integrazione le parole pronunciate da Konrad Adenauer nel
passato risuoneranno oggi come profezia di futuro: «Il futuro dell’Occidente
non è tanto minacciato dalla tensione politica, quanto dal pericolo della
massificazione, della uniformità del pensiero e del sentimento; in breve, da
tutto il sistema di vita, dalla fuga dalla responsabilità, con l’unica
preoccupazione per il proprio io». (6)
Capacità di dialogo
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione.
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro», portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione.
Questa
cultura del dialogo, che dovrebbe essere inserita in tutti i curriculi
scolastici come asse trasversale delle discipline, aiuterà ad inculcare nelle
giovani generazioni un modo di risolvere i conflittidiverso
da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter realizzare “coalizioni”
non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche,
religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che, dietro molti conflitti, è
spesso in gioco il potere di gruppi economici. Coalizioni capaci di difendere
il popolo dall’essere utilizzato per fini impropri. Armiamo la nostra gente con
la cultura del dialogo e dell’incontro.
Capacità
di generare
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale.
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore. Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla responsabilità personale e sociale.
In
questo senso i nostri giovani hanno un ruolo preponderante. Essi non sono il
futuro dei nostri popoli, sono il presente;
sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno forgiando lo
spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro una reale
partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non possiamo
immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo sogno.
Ultimamente
ho riflettuto su questo aspetto e mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi
i nostri giovani di questa costruzione quando li priviamo di lavoro;
di lavori degni che permettano loro di svilupparsi per mezzo delle loro mani,
della loro intelligenza e delle loro energie? Come pretendiamo di riconoscere
ad essi il valore di protagonisti, quando gli indici di disoccupazione e
sottoccupazione di milioni di giovani europei sono in aumento? Come evitare di
perdere i nostri giovani, che finiscono per andarsene altrove in cerca di
ideali e senso di appartenenza perché qui, nella loro terra, non sappiamo
offrire loro opportunità e valori?
«La
giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera
filantropia. E’ un dovere morale». (7). Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso,
abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato,
specialmente per i nostri giovani.
Ciò
richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non
orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società.
E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale.
Penso ad esempio all’economia sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei
Predecessori (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F.
di Germania, 8 novembre
1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in base alla
speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che investa sulle
persone creando posti di lavoro e qualificazione.
Dobbiamo
passare da un’economia liquida, che tende a favorire la corruzione come mezzo
per ottenere profitti, a un’economia socialeche
garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come ambito in
cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte dimensioni della
vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo delle capacità,
l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un atteggiamento di
adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di là degli
interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità economica,
esige che “si continui a perseguire quale priorità l’obiettivo dell’accesso al
lavoro […] per
tutti" (8)» (Enc. Laudato si’, 127).
Se
vogliamo mirare a un futuro che sia dignitoso, se vogliamo un futuro di pace
per le nostre società, potremo raggiungerlo solamente puntando sulla vera
inclusione: «quella che dà il lavoro dignitoso, libero, creativo,
partecipativo e solidale». (9)
Questo passaggio (da un’economia liquida a un’economia sociale) non solo darà nuove
prospettive e opportunità concrete di integrazione e inclusione, ma ci aprirà
nuovamente la capacità di sognare quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente.
Alla
rinascita di un’Europa affaticata, ma ancora ricca di energie e di potenzialità,
può e deve contribuire la Chiesa. Il suo compito coincide con
la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più che mai si traduce
soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo, portando la presenza
forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e incoraggiante. Dio
desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo attraverso uomini e donne
che, come i grandi evangelizzatori del continente, siano toccati da Lui e
vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa ricca di testimoni
potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici dell’Europa. In questo, il
cammino dei cristiani verso la piena unità è un grande segno dei tempi, ma
anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello del Signore «perché tutti
siano una sola cosa» (Gv 17,21).
Con
la mente e con il cuore, con speranza e senza vane nostalgie, come un figlio
che ritrova nella madre Europa le sue radici di vita e di fede, sogno un nuovo
umanesimo europeo, «un costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria,
coraggio, sana e umana utopia» (10). Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre:
una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre speranze di vita.
Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre come un fratello
il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha più nulla e chiede
riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone malate e anziane,
perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto. Sogno un’Europa, in
cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la
dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i giovani respirano
l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e di una vita
semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove sposarsi e
avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un problema dato
dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno un’Europa delle
famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui volti più che sui numeri,
sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei beni. Sogno un’Europa che
promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso
tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i
diritti umani è stato la sua ultima utopia.
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