LECTIO MAGISTRALIS
DI SUA SANTITA’ BARTOLOMEO
ARCIVESCOVO DI COSTANTINOPOLI – NUOVA ROMA
E PATRIARACA ECUMENICO
IN OCCASIONE DELLA CONSEGNA
DEL DOTTORATO HONORIS CAUSA IN CULTURA DELL’UNITA’
DELL’ISTITUTO UNIVERSITARIO SOPHIA
(Loppiano, 26 Ottobre 2015)
Ἱερώτατε Μητροπολῖτα Ἰταλίας καί Μελίτης κ. Γεννάδιε,
Eminenza Reverendissima Arcivescovo Metropolita di Firenze Cardinale Mons.
Giuseppe Betori,
Gran Cancelliere dell’Istituto,
Gentilissima Prof.ssa Maria Voce, Presidente del Movimento dei Focolari
e Vice Gran
Cancelliere dell’Istituto,
Reverendissimo Prof. Piero Francesco Coda, Preside dell’Istituto,
Eccellenza Reverendissima Mons. Mario Meini, Vescovo di Fiesole,
Autorità Accademiche,
Eccellenze, Autorità tutte,
Fratelli e Sorelle in Cristo,
Con grande onore e con profonda gratitudine riceviamo oggi questo altissimo
riconoscimento da parte di questo celebre Istituto Universitario Sophia. Accettiamo
con profonda emozione questo onore, che vogliamo estendere a tutta la nostra
Chiesa martire di Costantinopoli, il Patriarcato Ecumenico, che presiede nella carità
la sinfonia di tutte le Sante Chiese Ortodosse Autocefale nel mondo.
Questo onore è ancora maggiore per le parole inviateci per questa occasione, dal
nostro amato Fratello, il Vescovo della Antica Roma, Papa Francesco. Lo ringraziamo
di cuore, augurandogli molti anni alla guida della sua Chiesa, inviandogli il fraterno
saluto ed il Bacio di Pace.
Quando nel 1960 l’Arcivescovo Jakovos d’America, in viaggio verso gli Stati Uniti,
inviato dal nostro predecessore, il Patriarca Ecumenico Atenagora di beata memoria,
a rendere una visita informale al Santissimo Papa di Roma Giovanni XXIII, per
portargli “dei dolci di Istanbul, che a lui piacevano tanto”, espresse al Papa la
necessità che le due Chiese Sorelle debbano “mettersi su un piano di uguaglianza,
per parlare la lingua dell’amore”, affinché non si debba parlare più di unione, ma di
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unità, secondo il volere del Signore “perché tutti siano una cosa sola, come Tu Padre
sei in me ed io in Te, siano anche essi in noi, perché il mondo creda che Tu mi hai
mandato”. (Gv. 17,21).
Le relazioni tra le due Chiese erano andate via via scemando dopo il Concilio di
Ferrara‐Firenze, nonostante quell’incontro, alla metà del Quattrocento fosse – al di là
degli esiti e delle conseguenze che esso aveva prodotto nelle due parti del Mondo
Cristiano, ‐ comunque una prova di dialogo. Tuttavia le conseguenze prodotte dalla
Riforma e dalla Controriforma del XVI secolo, avevano toccato nel Mondo
Occidentale anche i sentimenti nei confronti delle Chiese d’Oriente fino ad un punto
di non ritorno. Al mono‐centrismo occidentale si contrappone in Oriente una visione
generalmente anti‐latina, e anti‐occidentale, non solo come risultato delle Crociate
dell’XI e XII secolo, ma e soprattutto dopo la caduta della Città Imperiale, la città
Regina, la Nuova Roma, Costantinopoli nel 1453, interiorizzata nel popolo con la
celebre espressione: “Meglio il turbante turco, alla tiara del Papa”. Al muro di
estraneità conseguente a questi fatti, si è aggiunta la polemica, la cultura antagonista,
ma soprattutto la mancanza di riconoscimento dell’altro come cristiano.
Gli anni che vanno dal Concilio di Trento, fino al Concilio Vaticano II, producono
nella coscienza dei cristiani occidentali una visione di superiorità, completamente
estranea anche nei periodi più bui del Primo Millennio. La teoria del “ritorno” come
metodologia per l’unione delle Chiese, divine l’unico passo possibile per l’incontro,
condizione sine qua non per ogni eventuale relazione o aspetto istituzionale. La
Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica, sussisteva e continuava solo della Santa
Romana Chiesa. E’ del tutto evidente che la reazione orientale fu la formazione di
una coscienza di superiorità basata sui primi Sette Concili Ecumenici che nel primo
Millennio avevano avuto luogo tutti in Oriente e con le accuse di eresia a tutto ciò
che era latino, indipendentemente dal fatto che molte tradizioni di Roma
appartenevano al bagaglio comune della Chiesa indivisa. Una ulteriore accusa
all’Occidente era data dal proselitismo inter‐cristiano, che col sorgere delle Chiese
Cattoliche di Rito Orientale aveva costituito un altro elemento di scontro.
Quando il Papa Pio IX, non molto dopo la sua elezione invia una Lettera Enciclica ai
Patriarchi Orientali, data 6 gennaio 1848, chiamandoli all’unità con Roma, dichiara:
“…Né c’è una qualsiasi ragione per cui voi rifiutate un ritorno alla vera Chiesa ed
una Comunione con questo mio sacro Trono.” La lettera di risposta è la famosa
Enciclica dei Patriarchi Orientali a Pio IX del maggio 1848, con la quale, in 23
paragrafi, vengono riproposte tutte le tesi ortodosse per condannare l’occidente
cristiano, in uno spirito permeato da risentimento e con non velate accuse di pura
eresia alla Chiesa d’Occidente. La Enciclica viene firmata dai Patriarchi Anthimos di
Costantinopoli, Ierohteos di Alessandria, Metodio di Antiochia e Cirillo di
Gerusalemme, con i rispettivi Sinodi.
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Tuttavia Pio IX ripropone le sue tesi unionistiche, in un linguaggio più cordiale e
meno formale con la Enciclica “Arcano divinae” dell’8 settembre 1868, in cui invita i
Patriarchi Orientali a partecipare al Concilio Vaticano Primo, scrivendo: “…
indirizziamo nuovamente a Voi la Nostra parola e con il più grande fervore possibile
del Nostro animo Vi scongiuriamo, Vi esortiamo e Vi supplichiamo a voler
presenziare a questo Sinodo generale, … perché, rinnovate le leggi dell’antico
rapporto e richiamata nuovamente in vita la concordia dei Padri, dono salutare e
divino che col tempo si è inaridito, dopo una così lunga notte di afflizione e le
luttuose e squallide tenebre di un dissidio senza fine, rifulga per tutti la splendida
luce della desiderata unione”.
Bisogna riconoscere che la volontà del papa Pio IX apre un piccolo spiraglio, che se
non è proprio di dialogo, è tuttavia una maniera di contatto tra i due mondi ormai
estranei l’uno all’altro. Purtroppo la scarsa attenzione data al protocollo, la mancanza
di sensibilità al contatto personale con le varie Sedi Patriarcali, ha vanificato questo
primo bagliore. Il Patriarca Anthimos di Costantinopoli non volle ricevere la lettera,
mentre il Patriarca di Alessandria si meravigliò della scarsa attenzione data ai
rapporti interpersonali che dovevano essere intrapresi a priori. La Lettera Enciclica
infatti venne pubblicata dalla stampa prima di essere recapitata ai destinatari.
Nel mese di giugno dell’anno 1895, il Papa Leone XIII invia una lettera per la
unificazione delle Chiese, ma il principio ritorna formale e distaccato, al punto che il
Patriarca Ecumenico Anthimos VII risponderà con una Enciclica Patriarcale
nell’agosto 1895, ribadendo i punti della Enciclica del 1848 e sottolineando che il
Papa “…invita la nostra ortodossa, Cattolica ed Apostolica Chiesa di Cristo ad unirsi
col trono papale, pensando che una tale unione possa essere ottenuta solamente
riconoscendo lui come supremo pontefice e come la più alta guida spirituale e
governante temporale della Chiesa universale, come l’unico rappresentante di Cristo
sulla terra e come il dispensatore d’ogni grazia.”
Certamente a questi insuccessi, seguono nel volgere di pochi anni anche novità
inattese, anche se i sospetti ed i sentimenti di ostilità continueranno in varie aree
dell’Ortodossia, come durante la assemblea di Mosca del 1947, a cui avevano
partecipato alcuni Patriarchi dell’Est Europeo, a cui è seguita la dichiarazione: “Il
Vaticano è il centro degli intrighi internazionali”.
Un nuovo linguaggio inizia da parte Ortodossa con le celebri Encicliche del 1902 e
1904 del Patriarca Gioacchino III con cui il nostro venerabile Predecessore,
indirizzandosi alle Chiese Sorelle Ortodosse, chiede loro il parere su “…che cosa è
opportuno e possibile fare d’ora in avanti per l’incontro dei popoli cristiani nell’unità
della fede e nella reciproca carità e concordia…” (Enciclica del 1902), mentre nella
seconda chiede il parere relativamente alle relazioni con la Chiesa Anglicana e la
Chiesa Vecchio‐Cattolica e alcune questioni proprie del calendario ecclesiastico.
Sarà tuttavia la Enciclica del gennaio 1920, a firma del Locum Tenens Patriarcale, il
Metropolita Doroteo di Brussa, indirizzata “A tutte ovunque Chiese di Cristo…” a
porre con forza il tema dell’unità cristiana in termini nuovi, esprimendo concetti
diversi rispetto al passato, come “la eliminazione, l’allontanamento di ogni reciproca
diffidenza tra le varie Chiese”, come “rinvigorire la carità”, invocando “in principio
almeno un contatto e comunione tra le Chiese”. Il Patriarcato Ecumenico parteciperà
attivamente ai primi Congressi Pancristiani di Losanna (1927) e di Edimburgo (1937)
e dopo la Seconda Guerra Mondiale, contribuirà alla costituzione del Consiglio
Mondiale delle Chiese nel 1948 presenziando alle Assemblee Generali.
Nei rapporti con la Chiesa di Roma, giocano all’inizio favorevolmente gli
atteggiamenti di figure chiave nel successivo dialogo ecumenico. Tra questi Angelo
Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, Nunzio prima in Bulgaria e poi a
Costantinopoli ed in Grecia. Roncalli aveva stabilito ottimi rapporti con il
Metropolita Stefan di Bulgaria, a sua volta molto impegnato nel dialogo ecumenico e
alla ricerca di una soluzione di canonicità per la Chiesa Bulgara, e spesso si era recato
a Costantinopoli dove aveva incontrato privatamente il Patriarca Basilio III, dal quale
aveva ricevuto parole di vero amore per la Chiesa di Roma e percepito il profondo
anelito per l’unità dei Cristiani : ….”E’ con questo spirito di fraternità e di ottimismo
nei rapporti fra di noi che ci porterà al desiderato fine. L’amore, questo è il primo
punto”, dirà il Patriarca.
Per Angelo Roncalli sono importanti il rispetto, l’amicizia e l’amabilità. Egli
riconosce l’altro come fratello e come cristiano: “ Cattolici e ortodossi – diceva – non
sono nemici, sono fratelli. Hanno la stessa fede, partecipano agli stessi sacramenti,
soprattutto alla medesima eucarestia….. Lasciamo le antiche controversie e, ciascuno
nel suo campo, lavoriamo a rendere buoni i nostri fratelli“. (A.G. Roncalli. La mia
vita in Oriente). …”Benché partiti da vie diverse ci si incontrerà nella unione delle
Chiese per formare tutti insieme la vera e unica Chiesa di Nostro Signore Gesù
Cristo…”
Questo atteggiamento di rispetto e amore del Nunzio Roncalli appare in tutta la sua
meraviglia durante la visita che fece alla Santa Montagna dell’Athos nel 1936: Al
Monastero di Vatopedi fu condotto dietro l’Iconostasi e di fronte all’Artoforio, il
Tabernacolo, si commosse, si turbò e si inginocchiò di fronte allo sguardo
meravigliato di chi lo accompagnava: “Compiamo tutti un atto di fede; veneriamo e
riconosciamo il Cristo presente sotto queste sacre specie. Non c’è dubbio, anche qui
c’è Cristo e non è un Cristo ortodosso diverso da quello cattolico, ma è il Cristo”.
L’avvento del Patriarca Ecumenico Atenagora sul trono di San Andrea, sarà foriero
di un nuovo anelito alla causa dell’unità. Tutta la vita di questo nostro amato
Predecessore è costellata dal dialogo con tutti ed a ogni costo. La sua storia
personale, la sua capacità di dialogo e di relazione, la sua visione – se vogliamo quasi
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utopica per quegli anni ‐, sull’unità delle Chiese, la sua azione profetica,
prepareranno il grande incontro di Gerusalemme.
Atenagora e Giovanni XXIII, Paolo VI e Atenagora saranno quindi i protagonisti
della nuova primavera della Chiesa; saranno coloro che dell’unità faranno il centro
della loro azione pastorale per il bene di tutti. Non si parla più di Unione, bensì di
Unità, concetti fondamentali di una cultura che li rincorre durante tutto il XIX e XX
secolo, non solo nell’ambiente cristiano e più ampiamente religioso, ma in tutte le
intuizioni sociali ed antropologiche della storia umana. E’ un passaggio epocale e
non solo una riflessione su concetti semantici diversi, da Unione a Unità, da ΕΝΩΣΙΣ
a ΕΝΟΤΗΣ!
Questa nuova ecclesiologia esperienziale tra le due Chiese appare evidente a
Gerusalemme nell’incontro tra le due Guide del Cristianesimo in Oriente ed in
Occidente. E’ una nuova cultura dell’Unità compresa in quell’abbraccio tra il
Patriarca Atenagora ed il Papa Paolo VI del gennaio 1964. Soli, l’uno a fianco
dell’altro, consci della loro responsabilità di fronte alle rispettive Chiese, al mondo,
ma soprattutto rispettosi l’uno dell’altro. Commossi, non come si commuove il
mondo, ma con una intima commozione. Certi di essere alla presenza di Dio, hanno
un solo desiderio: “di andare avanti…”, “…di fare avanzare le vie di Dio”, “Abbiamo
lo stesso desiderio…”, “La Provvidenza ci ha scelto per intenderci…”.
Gli atteggiamenti che abbiamo citato nella storia dei rapporti tra le Chiese d’Oriente e
d’Occidente, poggiano su principi che hanno visto nel corso della storia modificarsi,
intersecarsi in relazioni spazio‐temporali anche diverse, nel loro più profondo
significato, ma che possono ancora aiutarci a capire come contribuire ad aiutare
l’umanità a ritrovarsi dentro una cultura di Unità.
Unità, nel suo vasto repertorio semantico è un concetto che ha dominato la vita
sociale e culturale nei secoli i diversi momenti storici.
In un periodo storico in cui questo principio viene posto a dura prova per le
complesse situazioni conflittuali esistenti, per la degradazione della persona umana,
per i massicci esodi biblici che quotidianamente bussano alle nostre porte e alla
coscienza di noi Cristiani, per il degrado in cui la Creazione è sottoposta per lo
smisurato abuso delle risorse, dimenticando che essa non ci appartiene, ma ci è stata
data solo in dono da Dio, dono che abbiamo l’obbligo di custodire, ‐ vogliamo
cercare di osservare brevemente come esso evolve e si interseca, in analoghi concetti
sia di matrice storico‐ filosofica, quanto di relazione, per ipotizzare un ulteriore
percorso da proporre alla storia dell’uomo.
“Uno” e “Unico” come principi di Unità.
La filosofia antica presocratica aveva ampiamente dibattuto sul concetto ontologico e
cosmologico dell’Uno: Il nome di Pitagora è legato alla metafisica dei numeri che sta
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alla base non solo della matematica, ma anche della fisica, della cosmologia, della
religione. La teoria dei numeri diventa ritmologia mistica e simbolistica: l’Uno, il
numero primo che è pari‐impari, prima di tutti i numeri, è la sostanza di Dio, del
Bene, dell’Intelligenza, come il punto è l’origine della linea. E’ l’arché, principio
fondante e unificatore della realtà. Il pitagorismo annuncia il pensiero moderno, ma
ne implica anche i profondi dissidi fra anima e mondo, fra libertà e determinismo.
Parmenide riconduce all’Uno tutte le realtà, mentre Eraclito, con una visione
immanente del mondo. “Tutte le cose sono uno, e l’uno tutte le cose” (Eraclito, Sulla
Natura 10) ha una concezione dialettica dell’Uno, che solo in quanto “diverso da se
stesso” è concreto e vivo. Aspetti che saranno ripresi secoli dopo da Hegel. Da
Platone ad Aristotele, a Plotino, al Medio Evo, fino al Rinascimento, al
neoplatonismo, a Hegel e Marx, la filosofia percorre e interpreta l’Uno nei suoi
molteplici aspetti.
Di fronte al politeismo greco‐romano e alle norme filosofiche dell’Uno appena
accennate, il popolo di Israele manifesta la Unicità di Dio: “Ascolta Israele, il Signore,
il nostro Dio, il Signore è Uno” (Deuteronomio 6,4). Questa professione di fede nella
Unicità di Dio è conosciuta tra gli Ebrei col nome di “Sh’ma Israel” (ascolta). Fin dalle
origini l’Ebraismo immagina questo Dio come unico non solo nel suo ruolo, ma
anche nella sua essenza. E’infinito, assolutamente spirituale ed incorporeo. Egli è
l’unico ritenuto possibile, creatore di tutta la realtà esistente, non ammette alcuna
divisione di ruoli. Nulla può esistere senza di Lui, mentre Egli preesiste alla
creazione e a ogni realtà.
La unicità di Dio si manifesta anche nella unità del popolo Ebraico, quale facente
parte di una entità culturale, religiosa. L’Ebraismo tradizionale infatti, sostiene che
un ebreo, sia per nascita che per conversione, è ebreo per sempre.
Il concetto di Uno e Unico è ampiamente presente anche nella esperienza della Fede
Islamica, secondo la quella in essa si ricapitola e si conclude l’esperienza ebraica e
poi cristiana.
La Sura 112 del Corano afferma “Egli, Dio, è uno, Dio l’Eterno. Non generò, né fu
generato e nessuno gli è pari”.
Alla unicità di Dio è correlato l’essere mussulmano, ossia arrendersi a Dio, credere
nella sua unicità, nel senso che Lui è l’unico Creatore, Conservatore, Sostentatore.
Alla Unicità di Dio l’uomo si deve sottomettere incondizionatamente.
La comunità dei credenti (Umma) così si presenta come un corpo omogeneo nel
quale tutti gli elementi concorrono alla perfezione e allʹarmonia. Non solo ogni
credente è fratello ideale degli altri, ma la solidarietà e la mutua assistenza fra i
membri della Umma sono un obbligo giuridico, un precetto cui nessuno può
sottrarsi. Nelle parole del Profeta ʺI musulmani sono una sola mano e assomigliano a
un muro compatto le cui parti si sorreggono a vicendaʺ. Il dovere di combattere per
la sicurezza collettiva, la protezione degli inabili, le elemosine e le tutele morali ed
economiche a favore dei deboli sono tutti precetti che sottolineano la stretta
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dipendenza fra le diverse membra di un unico grande organismo. Il concetto di
Umma non esprime solo la compattezza interna della comunità, ma ne implica la
proiezione allʹesterno, perché il suo compito primario è quello di promuovere il bene
e reprimere il male. ʺVoi siete la migliore nazione mai suscitata tra gli uomini;
promuovete la giustizia, impedite lʹingiustizia e credete in Dio (Cor. II, 110).
Alla unicità espressa da queste due tradizioni religiose, citiamo ad ulteriore esempio,
delle posizioni di unicità, identificabili in alcune componenti sociali e socio‐
economiche, che nel corso degli ultimi secoli e specialmente nel XX secolo, sono state
foriere, da un lato di sconvolgimenti epocali e dall’altro, di sofferenze per molti
popoli. Esempi di unità come unicità di pensiero, sociale e politico sono stati espressi
dal Nazionalsocialismo e dal Comunismo.
Il cuore dellʹideologia nazionalsocialista era il concetto di razza. La teoria nazista
ipotizzò la superiorità della razza ariana come ʺrazza dominanteʺ su tutte le altre e in
particolare sulla ʹrazza ebraicaʹ. Il concetto di ʺrazzaʺ è lʹessenza della dottrina
pseudoscientifica nazista: per il nazionalsocialismo una nazione è la più alta
espressione della razza, quindi una grande nazione è la creazione di una grande
razza. In tale contesto l’unicità rappresenta ontologicamente una inversione dello
stesso fondamento che la anima. L’unicità non è più legata all’Uno, ma diviene punto
di partenza per la esclusione di diverso e di molteplice. Una cultura di esclusione
sopra la cultura di unicità.
Da un altro verso anche la unicità espressa dalla ideologia Comunista si è
caratterizzata per il fortissimo centralismo e per la identificazione tra stato e partito,
tendenti ad annullare le libertà ed i diritti individuali. La imposizione nei vari regimi
comunisti del XX secolo di una concezione monolitica del partito e il culto della
personalità del capo, hanno spento ogni possibilità di dibattito politico, unendo
drastiche persecuzioni contro avversari reali o potenziali.
In entrambi questi sistemi ne è corrisposta una alienazione della persona umana, la
cui unicità si è perduta, nella unicità del sistema, con tutte le conseguenze che
conosciamo. Tali predisposizioni di unicità – come blocchi monolitici, non hanno mai
dato spazio alla molteplicità, alla diversità o alla alterità.
Anche altri Sistemi tuttavia, come il Colonialismo ed il Capitalismo hanno spinto ad
un altro concetto di unicità, come il profitto fine a se stesso, con conseguenze quali la
distruzione di immense risorse naturali a scapito dell’ecosistema e di intere
popolazioni. L’unicità quindi, se volta a se stessa, non crea una cultura di unità, ma la
monopolizza.
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Da Unione a Unità
I due secoli appena trascorsi hanno creato alcune forme di unione.
Nell’ambito religioso cristiano, come abbiamo già sottolineato precedentemente, il
XIX secolo e la prima metà del XX, hanno espresso molte volte il percorso dell’Unità
come Unione, intesa come il ritorno degli uni verso gli altri. Una azione che ha
coinvolto non solo le Chiese cristiane, ma anche altre religioni, nella ricerca di una
verità che non potesse offrire spazio al dialogo ed alle inter‐relazioni. Pure con le
migliori intenzioni, questi progetti, o sono stati rigettati in quanto non percorribili,
passando dall’Unione all’Unità (es. nel Cristianesimo), o hanno posto le basi ad un
fanatismo religioso, che è andato oltre la religione, annullando il principio fondante
di Dio, l’Amore (es. il Wahhabismo).
Le Società civili non sono state immuni a questo percorso.
La caduta dei grandi
Imperi, ha posto le basi per il sorgere di tanti stati nazionali, codificando l’idea di
Nazione “nell’unione di un popolo che da tempo condivida un territorio, ed abbia in
comune la lingua, le tradizioni, i costumi, la cultura, la religione. Un popolo,
soprattutto i cui membri siano consapevoli di tale comunanza e abbiano quindi un
sentimento fondamentale di gruppo” (Rousseau e Il Romanticismo).
Se da un lato la libertà di interi popoli da sistemi imperiali oppressivi ha garantito la
loro sopravvivenza culturale, il passaggio da unione a unità si è invertito, creando il
Nazionalismo: etno‐nazionalismo, mono‐linguismo, mono‐religione, hanno
significato per molti popoli privazioni e sofferenze. Questo processo per alcuni versi
involutivo, si è introdotto anche in Nazioni plurietniche, dissolvendole. Ne abbiamo
avuto esperienza nella dissoluzione della ex‐Jugoslavia.
Tali pericoli hanno lambito anche il Corpo della Chiesa. Il nazionalismo ecclesiastico,
il filetismo, come definito dal concilio di Costantinopoli del 1872, è il principio
secondo il quale alla indipendenza di uno stato nazionale, deve automaticamente
corrispondere la autocefalia di una Chiesa su base etnica, ha toccato pesantemente
alcune Chiese e purtroppo velatamente continua il suo percorso anche oggi. Tale
concezione portò la Chiesa Bulgara per quasi ottanta anni in posizione di non
riconoscimento canonico da parte delle altre Chiese Ortodosse, e atteggiamenti simili
si osservano oggi soprattutto nella Diaspora Ortodossa, con la istituzione di
parrocchie etniche e di Diocesi delle Chiese Locali Autocefale, che ledono il principio
della cattolicità e della conciliarità. Il Patriarcato Ecumenico per risolvere questa
anomalia nella sinodalità della Chiesa, in accordo con tutti i Primati delle Chiese
Autocefale, ha istituto nei paesi attraverso il mondo le Assemblee Episcopali, in cui,
vescovi di diverse appartenenze giurisdizionali canoniche, collaborano assieme per
presentare la voce della Chiesa unità. Tale processo troverà maggior attenzione nel
prossimo Grande e Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa, in preparazione da oltre
Cinquanta anni, che a Dio piacendo, sarà convocato per la Pentecoste del’anno 2016 a
Costantinopoli.
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Procedendo nella esposizione del rapporto esistente tra Unione e Unità, dobbiamo
riconoscere anche aspetti positivi, quali la creazione di tanti Organismi
Internazionali, che hanno fatto dell’unione dei popoli, dei princìpi e delle attività, la
loro forza, in un cammino che tutt’ora è in corso.
Dapprima la Società delle Nazioni e poi le Nazioni Unite, il MEC come il
COMECON, fino all’Unione Europea, l’Unione Pan‐Africana, la Lega Araba,
l’Unione degli Stati Sudamericani, la Conferenza delle Nazioni Afro‐Asiatiche, fino al
BRICS e tante altre Organizzazioni, a seconda delle rispettive aree di influenza,
intravedono l’unione come il principio della loro unità.
Purtroppo anche questo tipo di unione, animata da un profondo spirito
collaborativo, non ha evitato il sorgere di guerre fratricide, tracolli economici,
situazioni di grave instabilità politica in molte aree del mondo.
La stessa salvaguardia dell’ambiente naturale, troppe volte viene calpestata in nome
di unioni di mero interesse redditizio, prive di una infusione culturale dei princìpi
emanati.
Tuttavia come Cristiani non disperiamo. Il Cristianesimo, che da oltre Duemila anni
parla al cuore dell’uomo, emana principi di Unità, prospettive e manifestazioni, che
trasfigurano tutta la creazione di Dio.
Unità di Comunione e Unità di Relazione.
L’Uno e l’Unico divengono in Cristo, l’Unigenito e Logos di Dio. Un canto comune a
diverse tradizioni liturgiche esprime con completezza tale concetto: “O Unigenito
Figlio e Verbo di Dio, essendo immortale, hai accettato per la nostra salvezza di
incarnarti nella Santa Madre di Dio ‐ e Sempre Vergine Maria, senza mutamento ‐ ti
sei fatto uomo, crocifisso sei stato, Cristo Dio, con la morte calpestando la morte; Uno
‐ della Santa Trinità, glorificato con il Padre e con lo Spirito Santo, salva noi.”.
“L’Amore di Dio è stato riversato nei vostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che
ci è stato dato in dono da Gesù” (Rom. 5,5). L’unicità di Dio quindi in Cristo
manifesta la “Immago Dei”, l’Immagine di Dio, atto di relazione e d’amore tra
Creatore e creato. Quindi, l’Uno, l’Unico, Dio esiste come comunione, esistendo come
Trinità.
Scriveva recentemente il Metropolita di Pergamo Giovanni (Zizioulas): “Poiché Dio è
Essere nel senso assoluto della parola, il vero essere è comunione”.”Esso è relazione,
allo stesso tempo Altro”.
“Il Padre come persona non è il Figlio né lo Spirito Santo; il Figlio non è il Padre né lo
Spirito e lo Spirito è diverso dal Padre e dal Figlio”. “Come natura e sostanza divina i
Tre sono unico Dio, ma come Persone divine sono Altri”. (I. Zizioulas‐ Milano 2014)
Uno e Altro quindi in Dio costituiscono l’essenza dell’uomo. E’ una relazione di
comunione in cui l’uno non distrugge l’altro, non lo spinge all’individualismo e
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all’egoismo, ma porta all’unità nella comunione. La cristianità è chiamata a
riprodurre nella sua esistenza la realtà divina, per questo secondo San Basilio il
Grande “l’uomo ha ricevuto l’ordine di divenire dio per grazia” e il Cristianesimo è
una “imitazione della natura divina” (San Gregorio di Nissa – De professione
Christiana).
Sottolineava Paul Evdokimov che “la Chiesa assoluta della Trinità divina si pone
dunque come immagine normativa della Chiesa degli uomini, ‘comunità dell’amore
reciproco’ (P. Florenskj): l’unità del molteplice.”
E questa cultura di comunione, di unità ci è offerta nell’Eucarestia. In essa vi è
relazione tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e Dio. La Chiesa diviene comunione del creato
con l’increato, in colui che è Via, Verità e Vita. “Non siamo più noi a vivere, è Cristo
che vive in noi” (Gal. 2,20). Noi comunichiamo col Cristo, ma il Cristo comunica con
noi, secondo San Innocenzo di Tauride.
La centralità dell’Eucarestia nella relazione Trinitaria, e nella comunione delle
Persone Divine ci fa gridare: “Credo e confesso che questo è il tuo Corpo Purissimo e
questo è il tuo Sangue prezioso”. Infatti i Patriarchi Orientali nella Enciclica citata del
1848, affermarono: “Il Pane diviene uno col Corpo che dimora nei cieli”. E’
veramente unità di comunione e unità di relazione.
Citando uno scritto di Chiara Lubich: “Capimmo – scriveva – che consumandoci in
uno e mettendo a base del cammino della nostra vita l’unità, eravamo Gesù che
camminava. Lui che è Via si faceva in noi Viatore”.
L’Eucarestia non è uno strumento dell’unità, ma è la ricapitolazione della nostra
unità in Cristo. In essa la Chiesa testimonia la sua fedeltà alla Verità, che è relazione e
comunione. In essa testimonia la potenza spirituale che emana dalla relazione intima
con Colui che è. E una unione teandrica, Divino‐Umana, paradosso e proposta allo
stesso tempo per una Unità nella Diversità‐
L’Unità nella diversità.
I Padri Apostolici e poi i Cappadoci, soprattutto San Gregorio di Nissa, avevano
intravisto l’unità e la diversità, che si relazionano in Cristo. L’Incarnazione non solo
manifesta l’infinito amore di Dio verso l’umanità, la sua misericordia, la giustizia, ma
anche la profonda Sapienza divina: “Dio non ha mandato il Figlio dell’uomo nel
mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui”. (Gv.
3,17)
L’unità e la diversità quindi si ricapitolano in Gesù Cristo, così come i Santi Padri
hanno definito nel Quarto Concilio Ecumenico a Calcedonia nel 451: “Noi
insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo,
perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero
uomo,[composto]di anima razionale e di corpo, consustanziale al Padre per la
divinità e consustanziale a noi per l’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel
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peccato, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi
tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo
l’umanità, uno e medesimo Cristo Figlio Signore unigenito; da riconoscersi in due
nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta
meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi,
salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola
persona e ipòstasi; egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e
medesimo Figlio unigenito, Dio, Verbo e Signore Gesù Cristo”. (Con di Calc. De
fide.05.301.302)
Secondo San Teofilo di Bulgaria “il Verbo pur restando ciò che era, diviene ciò che
non era” (PG 123). L’abbassamento dell’Unigenito di Dio fino ad assumere la nostra
natura umana diviene così esempio perfetto della Unità nella Diversità. E’ una
cultura nuova di unità che il Figlio dell’Uomo prende su di sé.
La centralità di questo Concilio, per comprendere unità e diversità come prospettiva
di unità, dovrà essere quindi maggiormente osservata e analizzata nel contesto della
Divino‐Umanità di Cristo, Vero Dio e Vero Uomo.
Il carisma dell’unità non si infrange nella diversità in quanto santificata, vivificata
dall’aspetto relazionale Trinitario, in cui è innescato. La Diversità non è azione
antagonista, ma è fruizione della salvezza operata nella relazione teandrica delle due
nature, unite ma non confuse.
Percepire il principio della diversità come ricchezza, diviene possibilità di
comprendere e possibilità di essere compresi, ricapitolati in Cristo.
Conclusioni.
La prospettiva che dobbiamo offrire al mondo perché creda e si salvi, è quella di
formare una cultura di unità nella diversità, secondo la immagine di Calcedonia, che
già San Ireneo di Lione aveva sintetizzato. “Il Verbo si è fatto uomo e il Figlio di Dio
figlio dell’uomo, perché l’uomo, entrando in comunione con Dio e ricevendo
l’adozione filiale, diventi figlio di Dio” (Ireneo. Contro le Eresie, 3,19,1)
Vivere l’unità nella Verità in Cristo significa capire la diversità con l’amore, col
dialogo, con la disponibilità. Anche le Istituzioni umane, ‐ se saremo capaci di
“trasfigurarle” con questa attenzione alla diversità ‐, sapranno comprendere che le
diversità sono dono e non contrapposizione, ricchezza e non squilibrio, vita e non
morte.
Viviamo in un contesto in cui il pluralismo rischia di essere sacrificato in nome di
una falsa unità, che vuole l’appiattimento globale in tutte le manifestazioni
dell’uomo; troppe volte in nome della libertà e dei diritti dell’uomo, abbiamo offeso
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proprio ciò che volevamo difendere. I valori tradizionali paiono obsoleti di fronte ad
una cultura che vuole uniformare, o meglio appiattire tutte le diversità, ricchezza del
patrimonio culturale dell’essere umano. Le Chiese Cristiane vengono considerate
superate di fronte a proposte di un latente panteismo che poggia sulle debolezze
umane. E ancora la negazione dell’essere di Dio, diviene ideologia infamante,
fanatismo becero la cui soluzione è una società in cui non vi è più spazio per l’alterità
e la diversità.
E invece proprio dalla accettazione delle diversità, come fondamento dell’unità della
umanità ferita, attraverso il dialogo d’amore, attraverso il reciproco rispetto,
attraverso la accoglienza dell’Altro e la nostra disponibilità ad accogliere e ad essere
accolti potremo diventare per il mondo, icone di Cristo e come lui nell’unità essere
anche diversità.
Allora tutti potremo parlare la lingua dell’Amore e mangiare assieme “quei dolci di
Istanbul, che a lui piacevano tanto”, che abbiamo citato all’inizio di questa nostra
riflessione.
Vi ringraziamo per l’attenzione.
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