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giovedì 18 dicembre 2014

Transazione o accordo sottoscritto dal clero latino e greco nel 1754 (II) ... ... di Calogero Raviotta

Per favorire una conoscenza esauriente ed una serena riflessione sulla storia religiosa di Contessa, relativamente alla definizione, sottoscrizione e attuazione della Transazione, è stato già proposto un testo con notizie generali (parte I).

Prima di proporre all'attenzione dei lettori documenti specifici su particolari momenti ed eventi, legati all'attuazione della Transazione, può risultare utile e interessante conoscere  i protagonisti che hanno contribuito alla definizione e sottoscrizione del testo della Transazione: vescovo di Agrigento e clero di Contessa.
Dalle fonti finora note (pubblicazioni, manoscritti, decreti e comunicazioni ecclesiastiche, memoria popolare, tradizioni, ecc.), ed in particolare dalla lettera del 21 agosto 1754, indirizzata al vicario foraneo (Francesco Stassi) ed ai due vicari curati di Contessa (don Giovanni Musacchia greco e don Michelangelo Musacchia latino), il vescovo di Agrigento ordina di " pubblicare l'allegata minuta di transazione ed accordio".  Il sei settembre del 1754 infatti, presso il notaio Salvatore Schirò di Contessa, viene sottoscritta dal clero di Contessa la Transazione, approvata dal vescovo Pietro Gioeni,  i cui nomi sono riportati di seguito, dopo che ciascuno giura secondo la tradizione ecclesiastica "tacto pectore more sacerdotali" e  dichiara di approvare l'accordo facendo seguire la sua firma dalla formula "confirmo ut supra":
*   don Giovanni Musacchia, curato dei greci
*   don Michelangelo Musacchia, curato dei latini
*   don Francesco Stassi, vicario foraneo
*   sacerdote Luca Certa
*   sacerdote Luciano Di Giovanna
*   Sacerdote Nicolò Musacchia
*   sacerdote Antonino Cuccia
*   sacerdote Antonino Musacchia
*   diacono Giuseppe Spata
*Chierico Giuseppe Musacchia.
Nota – Per approfondire aspetti e contenuti della Transazione (1754):
* consultare le monografie di Atanasio Schirò, Spiridione Lojacono e Alessandro Schirò, dedicate alla storia di Contessa;
 * disposizioni varie del Vescovo di Piana degli Albanesi negli ultimi decenni, che confermano le celebrazioni, come da tradizione, del clero greco nella chiesa della Madonna della Favara, introducendo qualche indicazione sulla composizione del Comitato per la festa dell’otto settembre. I testi sono consultabili presso gli archivi delle due parrocchie;
* Capitoli della Compagnia della Madonna della Favara del 1603 (riportato nel
   Documento X, allegato alla storia di Contessa di Atanasio Schirò).
Di seguito è riportato l'estratto di un manoscritto, conservato nell'archivio della parrocchia greca, che descrive il primo episodio di tensione tra clero greco e latino, riferito alla processione dell'otto settembre del 1771. Vengono riportati i brani più significativi, ignorando argomentazioni giuridiche e richiami storici non essenziali per far comprendere ai lettori il contesto generale, che ha sempre accompagnato l'attuazione della Transazione per  260 anni (1754 - 2014).
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Fatti Storico-canonico-giuridici in difesa delle proprietà e dei diritti del parroco e clero greco della terra di Contessa contro le pretensioni ed usurpazioni del coabitante clero latino fatta secondo la consulta dei migliori lumi della capitale di questo regno nel 1771. (parte I)

 ……….- omissis -………
Alla sacra visita, che fece il vescovo di Girgenti Don Francesco Ramirez nella sopradetta terra della Contessa, de verbo ad verbum pure si sa (siccome sin oggi riferiscono i più vecchi del paese) qualmente sino al 9 di dicembre del 1698 (in cui fu lasciata scritta nella Contessa ogni innovazione vecchia da quel vescovo in questa visita) l’unico rito greco vi era stato in quella terra. Perché concessa appunto ai soli Greci Albanesi; che perciò gli stessi latini avventizi in rito greco i loro figli nello stesso fonte battesimale, in cui battezavano i greci; e quei due altri preti latini che erano stati introdotti fra quei nostrali tenevano la Pisside colle specie di azimo nell’istesso tabernacolo dei greci, e che il parroco era unico per tutti i coabitanti di quella terra, il quale poi col decorso del tempo, aveva incominciato ad assegnare un cappellano, soggetto a se, a quei che osservare volessero il rito latino e esercitare le funzioni della chiesa latina nella cappella della medesima sopradetta antica chiesa dell’Annunziata, titolata alla Madonna delle sporee ossia delle semenze, onde sino al suddetto anno 1698 dal 1450 tutte le giurisdizioni, tutte le preminenze e proventi erano dal solo clero albanese greco.Ma come che i sopraddetti latini in quel tempo già avevano incominciato ad alquanto aumentarsi, incominciarono pure a pretendere più cose dai naturali abitanti; onde passando a visita il lodato Ramirez prevalendosi eglino di un tale prepotente albanese, passato al rito latino, per nome volgarmente detto abate Musacchia, fecero si che quel santo prelato necessitò i naturali del rito greco ad accomodare a quei dei loro coabitanti di rito latino la chiesa albano-greca intitolata alla Madonna delle Grazie o della Favara; questo però finché i latini, a loro spese, si fabbricassero un proprio tempio, in cui potessero esercitare quelle funzioni parrocchiali, ed avessero quelle sole giurisdizioni, che essi hanno, dal quel tempo in poi, nella suddetta chiesa ad essi ad tempus accomodato.

……omissis………
Da alcuni asini si credeva che già era stata la guerra di quei latini contro gli albanesi in virtù della sopradetta, ma non sono mai sazi quei di rito latino a tal che verso il 1750  vedendo aumentato il loro numero di avventizi al pari quasi di quello degli albanesi e prevalendosi delle astuzie, animarono (sotto pretesto di zelo, di religione nell’ingrandire i sacri templi, tutto per intiero popolo della Contessa a contribuire, ognuno secondo le proprie forze e colle fatiche personali i poveri, all’ingrandimento della loro parrocchia, e comeché le famiglie più comode sono appunto quelle degli albanesi in quella terra, vi accorsero quegli più d’ogni altro all’ampliamento di quel tempio, e molto più che era loro proprio.
I latini però terminato che fu il materiale di tutta la fabbrica vi posero una lapide, in cui si stava scritto qualmente quel tempio era stato eretto a spese dei latini e che perciò non più ai greci ad essi pell’avvenire spettava.
Tosto si opposero i greci contro i latini nella corte vescovile di Girgenti: vinsero la causa, strapparono l’affissa ingiusta lapide piantata in un fondo alieno coll’exequatur della medesima Corte vescovile e per torre, in futurum, ogni pietra di scandalo rissa, si divenne tra il  clero greco e latino di fare  nel 1754, per gli atti di notar don Salvatore Schirò, una solenne Transazione, in cui primo si convenne che tutte le antiche  e principali giurisdizioni della Matrice chiesa greca, di cui é filiale l’accomodata parrocchia dei latini, appuntino si osservassero intatte; secondo che i latini ratificavano qualmente la chiesa della SS. Vergine della Favara era “de jure proprio” dei greci; e che i latini eglino permettevano il solo uso della chiesa a loro accomodata, finché fabricassero questi un proprio loro tempio; terzo, che in vivo momento ed esecuzione di questo accordo i greci ogni anno dovessero solennizzare, essi, la qundicina dell’Assunta sino al quindici di agosto in sudetta accomodata chiesa; quarto, pel medesimo fine, nel condurre ogni anno la sacra Bolla della Crociata, il parroco greco uscendo dalla matrice in processione avesse ad entrare nella sudetta accomodata chiesa ed ivi celebrarvi messa cantata solenne e farvi la spiega d’essa Bolla; quinto finalmente, che la festa della nascita di Maria agli otto di settembre, ogni anno, la solennizzassero, con vespero, messa cantata e processione, i greci ed in caso che il parroco greco non avesse comodo di intervenire, allora dovesse egli destinare a qualsivoglia del clero greco per supplire le veci del parroco greco nelle sudette processioni; e se mai il parroco latino si volesse intervenire nella sudetta processione, col clero, sta in sua libertà.
Questa Transazione intorno alla realtà di tali giurisdizioni appartenenti ai greci, fu confermata con giuramento da tutto il clero latino, di cui ogni anno finoggi vive  e confirmata dalla Corte vescovile. Il fatto fin qui esposto a prima usque ad ultimam lineam si trova stampato nell’istoria di Pompolio Rodotà, edita nel 1763 in Roma, regnando nei suoi ultimi anni il Pontefice Lambertini. (continua)

Fatti Storico-canonico-giuridici in difesa delle proprietà e dei diritti del parroco e clero greco della terra di Contessa contro le pretensioni ed usurpazioni del coabitante clero latino fatta secondo la consulta dei migliori lumi della capitale di questo regno nel 1771. (parte II)

Questa Transazione del 1754, anno in cui fu fatta, sempre ha avuto tutto il suo vigore e nella festa sopradetta dell’otto settembre sempre è stata tutta per intero solennizata dal clero greco, ed il parroco greco ha avuto il primo luogo nella processione, anche quando vi è intervenuto il parroco latino inferiore a quello anche per tutti i sopradetti motivi. Dacché poi il parroco greco fratello maggiore del parroco latino presente, per mancanza di vista non ha potuto intervenire alla sopradetta processione, ha designato il suo greco capellano sacramentale sacerdote Don Nicolò Chetta, per supplire le veci del parroco greco, solennizzò il Vespro, messa cantata, ed altre solite funzioni nella sopradetta chiesa di Maria della Favara. Ben tre volte distinte mandò a dire al sudetto suo capellan sacramentale, che, al solito, presidesse nella processione colla cota e stola. Nel punto però che stava per sortire tale processione, sentendo il sudetto vice reggente del parroco greco che i latini pretendevano che la processione spettava ad essi, e che però il sudetto reggente non poteva portare la stola, e molto meno alla sinistra del loro parroco, con pregiudizio di costui non solo, ma pure di tutti i più anziani latini.

Ciò udendo il sudetto reggente, per nome e  parte del reclamante clero greco e del senato disse al parroco greco che egli non aveva punto impegno di portarvi per fasto giovanile la stola, ma che soltanto voleva il clero greco, che si stesse alla sopradetta Transazione al solito. A questo il parroco prima rigelò con efficacia, ma tosto, poiché il suo fratello parroco latino gli disse una parolina nell’orecchio, ripigliò a dire al sudettto vicereggente che egli non voleva immischiarsi in risse, e così dicendo avviossi per sua casa, appoggiato nel suo senile bastone. Allora il Senato intepretò che il parroco greco giacché da principio tre volte espressamente detto aveva al suo vicereggente che presiedesse alla processione, e poi al bordato (?) minaccioso dei latini, appigliandosi ad una politica di necessità mai non disse al vicereggente che deponesse a suplire le sue veci. Il pavido Senato, per giusta epicheia interpretò che qui tacet consentire videtur, il parroco greco diportarsi così indifferente in quella seconda volta, altro esprime, non volle che egli dando in quel incongruo modo la vittoria agli opprimenti, o agli oppressi, avrebbe dato occasione delle più pubbliche scandalissime risse, onde il Senato assicurò al vicereggente che sicuro presiedesse colla stola alla processione, giacché il parroco, il clero, la Transazione, la prassi e tutto il popolo questo ben pretendeva.

Il vicereggente allora si pose a presiedere colla stola nella già avviatasi processione quand’ecco che il vicario foraneo si protestò avanti del parroco latino ed al vicereggente qualmente questi non poteva presiedere alla processione colla stola, ma il vicereggente, ringraziandolo proseguì il suo ufficio, perché atteso tutte le predette critiche circostanze l’aspettava più tosto che da tutto il clero, a cui presiedeva, avesse dovuto rinegar (?) in questa sacrosanta processione di dare esempio al minuto popolo e di molestia e di pace, e che acciò piuttosto avesse dovuto badare il vicario foraneo e non già a spogliarsi della cotta e con furia ritirarsi in casa per spedir pronto serio ricorso alla corte vescovile contro il vicereggente, unico ostacolo a tutte le usurpazioni ed alle vaste mire di affatto sepelire il rito greco nella Contessa. Che cosa egli, colle solite sue malnomate rappresentanze abbia esposto alla Corte vescovile di Girgenti il vicereggente nol sa, giacché rinunciò al suo parroco la capellania e con questi si querelò, che dopo di avere pregato più volte entrambi i signori parroci, per via del loro fratello don Nicolò Musacchia, che trattandosi di doversi disporre cose particolari nelle processioni, avessero la carità di prevenirli, in questa volta, l’omessero; e poi non spendere una parola di pace per contemplazione del parroco latino, e per timore che hanno al soverchiante vicario foraneo latino, permettesse che  se restasse   scandalizzato l’ovile di Cristo; e dopo di ciò, ritirossi nel seminario greco di Palermo ove da prefetto e da superiore già prima menava sua vita pacifica per anni 15; ed all’istanze del suo parroco non potendo resistere, s’era ritirato nella Contessa a suplire in tutte le sue veci il canuto curato suo.

…………Omissis…………

In quanto poi a giurisdizioni (qui niente affatto curavano l’invidiose questioni di rito greco e latino) vi risponde primo che il vicereggente sopradetto,  per ogni cosa, potea e doveva portare la stola, secondo perché la Transazione sudetta caso propone che il parroco greco deve elegere a qualsiasi del suo greco clero ut gerat vices iuri parochi, terzo perché é un jus che respicit personam parochi, il quale debba presedere alla processione, per dimostrare il loro dominio in quella chiesa, quarto perché tutto quello che gestat la persona del parroco in tale processione li può portare il vicereggente del solo parroco, altrimenti non sa esser vicereggente di quello. Atque il parroco greco, in tale processione sempre porta la stola, dunque pure colui che dee supplire alle sue veci; e così in fatti, rotondamente e brevemente disse il maestro Lo Presti, a cui ad una voce, aderendo oltre i legisti anche i parrochi di Palermo; e per meglio enucleare il fatto con la frase soggiungerò: 2° che nelle terre piccole, soltanto cotta e stola pursivoglia caso in cui non vi intervenga il parroco come infatti sempre già cappellano sacramentale, terzo dica dunque il clero latino, replicano quei legisti e parochi, quale debba mai portare nella processione il vicereggente del parroco greco perché sin ora altra regola a me non é nota, altrimenti anche la plebe si meraviglia come mai il capo vicereggente di una propria processione non abbia se non la medesima cotta che tiene il sagrestano.

Quarto: e poi sopragiunsero come mai esce in processione propria un clero o senza aver proprio capo o senza nessun poterlo distinguere da qualche peculiare insegna, sicché il clero greco si debba vedere come un capo, soggetto all’altrui capo latino, il quale, peraltro, con tutto il suo clero vi interviene per pura concomitanza, se può o vuole intervenire, secondo la Transazione; quinto dacché si fece tale Transazione il parroco greco sempre portò la stola, non esso solo ma pure il suo vicereggente; dunque perché non in futuro; e chi non sa che le prasse é l’ottimo interprete di ogni legge; sesto disse il signor Giuseppe Tignini, oggi questa festa già totalmente é dei greci; sicché affatto non vi hanno che fare nella processione i latini. Dunque, se mai il parroco latino si intende pregiudicato di sofrire a lato un vicereggente del parroco greco, capo preside non ricusi ad intervenire nella processione e così non resta pregiudicato in vedere che un vicereggente di anni 30, cappellano sacramentale della matrice abbia il primo luogo anzi che gli anziani, allora rispose dunque altrettanto  possono pretendere contro il parroco greco, se questo mai sarà il vicereggente sudetto. Del resto si ricordino che tale vicereggente é laureato in sacra teologia, e perciò in un altra mala interpretazione gli anziani della Contessa ebbero il testo della loro vescovile Corte.

Se però il proprio parroco greco nessun porta pregiudizio, neppure, dunque colui che sia in sua vece. Ma in somma i latini si avevano dovuto riparare pria della Transazione, benché non poterono. Né possono allegare ripiglio a beneficio Tardia, i latini, che tale processione forse si fa dentro il distretto del parroco latino, perché la Contessa non é come Palermo che ogni parrocchia ha limiti del proprio distretto, giacché il popolo greco abita col latino e le cose dei greci sono mischiate senza ordine con quelle dei latini, del resto però il parroco dei greci é capo di tutto il paese appunto perché tutte le chiese di quella terra non solo furono fondate e dotate dai greci, ma sin l’istessa parrocchia latina é filiale dell greca ed al cader del muro i latini non avessero se potevano così accordato; otto: infine ripigliarono tutti gli altri più illuminati della Capitale se i latini non de jure ma per solo concomitanza, volendolo, possono intervenire a tale processione e se essa é unicamente spettante ai greci; e se  mai la stola porterebbe qualche gelosia, ad altro portarla non potea che al clero greco o al parroco greco e non già ad alcuno dei latini. Tre che dunque costoro si fondano a dar occasione di tanto scandalo nel punto della processione pubblica, se essi affatto non v’entrano. E come il parroco latino e molto più il vicario foraneo (a cui non spettano affatto le giurisdizioni parrocchiali) con pregiudizio del clero, e parroco greco, dalla Transazione e dalla prassi e del pacifico spirito ecclesiastico, intimano il reggente e ricorrono contro di lui la mente vescovile? Rispose a tutto e per tutti con quattro parole, il sac. Dott. Don Nicolò Chetta: Signori, tutte le sopradette ottime cose sono extra chorum: primo che la questione vera nell’esposto caso non fu già intorno all’uso della stola (di questa se ne servì il vicario foraneo per soltanto a capricio formar un ombra zizzaniosa a cui poter battere presso la Corte) ma bensì fu che per volere i greci albanesi quasi affatto ricordati dai Servizi prestati alla Corona di Sicilia per vederli soli, pochi, poveri e di rito greco, pretendevano che la processione affatto era loro propria in modo tale che essi con l’arte di circolo vizioso incominciassero da capo ad insensibilmente spogliarsi di tutte le giurisdizioni sino a perdersi la memoria dei greci; e queste sue alte mire già sorridendo e quasi per gioco l’ha esaminata verbo et opere il vicario. Ma conoscendo questo discorso il gran Pontefice Leone decimo, ponendo  ed appoggiandosi, come egli stesso dichiarava all’ecumenico fiorentino concilio, per altro unicamente fatto per la concordia tra greci e latini, questo zelantissimo e spregiudicato Sommo Pontefice firmò una bolla apposta trascritta del sopracitato Rodotà in parte, ed in tutto, nell’Enchiridio greco. 


 Il Cardinale Albici sollecitò e diligentemente indagatore delle antiche memorie dell’archivio del Santo Officio, i quali ambedue ci rendono sicura testimonianza della costante sollecitudine della Romana Chiesa nel avere replicate prescritta la rigorosa osservanza del sacro santo rito greco e molto più in persona delli esperimentatissimi albano  greci..... Alcuni vescovi latini dunque, ignorando l’origine, la santità ed i misteri del rito greco, l’abbominavano tra loro qual velenoso serpente di loro, come perturbatori, scrive il dotto Pontefice nella diceria di tale bolla: ordinari locorum latinorum ipsam nationem super dictis viribus et asservantiis, in loci ubi predicti greci morantur, quotidie molestant, perturbant ed inquietant. Con questi mezzi, continua a dire il laudato Papa, congiuravano scissure, scandali e sconcerti ai popoli contro la tranquillità tanta desiderata dalla monarchia ecclesiastica e civile ed anche movevano anco gli scismatici e vi é più li rimovevano dall’unione, quindi riconoscendosi insofribili questa acerba persecuzione dal paterno amore che leone X, e volendo esso frenare l’insolente ardire dei latini, gelosi, stabilì a favore dei greci prerogative e privilegi nella medesima Bolla su i greci fra i latini (a fortiore se questi sono tra greci) possono liberamente professare il loro rito ed andare questuando nelle loro terre. Ma il nostro predetto vicario espose alla Corte reclamante il popolo anco latino che egli doveva per le limosine, affinché così non si smarrissero, cioè intendeva dire praticamente aciocché l’inpiegasse a suo talento; e infatti l’ottenne; secondo che i latini in nessun conto disturbassero le funzioni greche, ma il vicario disturbò pubblicamente la processione dei greci e crede che per zelo: terzo che nessun latino potesse procedere nelle chiese, ove non ha intervenuto il suo fratello parroco greco, ma nella sopradetta processione si é usurpato le veci del parroco greco, giacché esige la destra del vicereggente; e non solo questo, ma egli ha regolato la processione dal capo preside, e nei diversi posi ha incenzato egli  destinò un semplice prete greco a dare l’incenzo; anzi un altra volta non solo non pregò al predetto vicereggente che anzi, in assenza del parroco greco, un semplice sacerdote latino, in una processione dell Matrice, in salutato hospite, diede l’incenzo; ed sudetto vicereggente, nel secondo poso, egli; e non quello, diede l’incenzo, che in riornare poi li ha fatto fare per forza nella Contessa il prete latino ed ha insino arrivato di far seppellire nella sua parrocchia a chi voleva seppellirsi; basta che per accidente transeunte, qualche albano greco abbia interrotto l’osservanza del rito greco in qualche terra dei latini o per procacciarsi il pane o per essere stato perseguitato ancorché per pochi anni, sino per tutta l’eredità.

Il vicario poi più zelante di tutti, dirupata la chiesa di S. Rocco, trasferì in quest’anno, subito la festa solita sempre solennizzarsi dai greci, alla parrocchia latina; e chi sa se anco le rendite; di più l’altarino alla greca, nella chiesa greca dell’anime sante ed ivi rappresentando una cosa per usi altre alla corte non solo solennizò le quarant’ore alla latina ma pure espose alla Corte che il parroco latino vi voleva fondare una congregazione ed cappellano latino; che ne abbia poi fatto delle rendite  di tale chiesa, il sanno i procuratori e il sudetto vicereggente erede del donante, ma che non può parlare. Il Rodotà conferma che tutte le quattro chiese della Contessa sono fondate e dotate dai greci e che sono loro proprie.


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