Mostraci
il tuo volto
Nicola Figlia, come artista,
nasce grafico. La sua crescita e la sua formazione sono quelle di un grafico.
Ambito in cui, tra l’altro, ottiene lusinghieri riconoscimenti anche a livello
nazionale. Col tempo, il desiderio di esplorare altre possibilità compositive,
cromatiche, tecniche, lo porteranno a dedicarsi in egual modo anche alla
pittura.
L’itinerario artistico è presto
detto: da un inizio realistico in cui risente della lezione del nostro Guttuso
e della grande esperienza espressionista, si orienta, a partire dall’inizio
degli anni Ottanta del secolo scorso, verso un realismo grottesco per poi,
metabolizzando l’arte bizantina e quella popolare siciliana (cartelloni
dell’opera dei pupi e dei cantastorie, pittura dei carretti), sfociare in un territorio
dichiaratamente metafisico, se non nel segno e nel soggetto, almeno nella
metastoria che i suoi soggetti comunicano. A volte sembra che il risultato
sposti tutto in ambito naif, ma un occhio scaltrito ne coglie subito le poche
analogie e le molte differenze.
Figlia riesce a far convivere
nelle sue opere il racconto di singole o complesse vicende e la stasi, dovuta,
questa, ad una intensa ma disincantata riflessione sulla condizione umana. Dove
la pietas e l’ironia sembrano dominare.
E così abbiamo racconti in cui il
livello compositivo, l’impaginazione, il taglio risultano fortemente personali
anche perché Nicola spesso mette in disegno e/o pittura sequenze di storie
letterarie, mitologiche, popolari, religiose poco rappresentate accanto a volti,
volti, fortissimamente volti.
Il volto gli consente, forse più
del racconto, di indagare quanto sopra detto. Culturalmente, alle spalle di
questa ricerca sul volto vi è, oltre alle esperienze artistiche che vanno dal
Quattrocento di Piero alla lezione picassiana, la sua comunità, il suo paese,
Mezzojuso, dove le icone tardo bizantine e il grande Carnevale drammatico
espresso nel Mastro di Campo costituiscono per Nicola un vero campo d’indagine.
“Mostraci, Signore, il tuo volto”
e/o “mostrami, uomo, il tuo volto”. Un volto a volte ieratico, spesso sformato
più che deformato, con grandi labbra, grossi nasi, grandi occhi, quasi protesi,
per comunicare meglio. I sensi carnalmente accentuati.
In tutto questo colpiscono alcune
costanti, come l’affollamento di volti, che, da un lato ci portano indietro,
verso esperienze artistiche risalenti, per esempio, a Duccio e dall’altro a un
vero horror vacui di impronta esistenziale, ma direi anche psicologica.
Lo stesso possiamo dire per la
tendenza ad una impaginazione simmetrica, a volte maniacale, come ricerca di un
ordine, di un centro di gravità rassicurante.
Forse Nicola è là: tra il caos
del nostro Carnevale e il cosmos dell’icona bizantina e - perché no? - della
classicità greca. La sintesi è un’umanità che la sua sofferenza non la grida
più (come gli rimproverava Franco Grasso) ma la rivela nei tratti dei volti:
rassegnati di una ironica rassegnazione come condizione umana? Probabilmente.
Dico “probabilmente”, perché noi
non possiamo attenderci da un artista ferree e sicure costruzioni logiche senza
sbavature. Ricorrendo a Montale, siamo costretti a non poter chiedergli parole,
formule, rivelazioni che squadrino da ogni lato l’animo nostro informe, ma solo
segni, di-segni che ci trafiggono e ci inchiodano ad una non banale
riflessione. E mi sembra abbastanza.
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