Stiamo vivendo una fase storica di svolta ?
Secondo alcuni studiosi i nostri giorni (o meglio gli anni più recenti) mostrano segni che stanno scandendo l’evoluzione della cultura politica occidentale; il nostro tempo sta lasciando “tessere” che incideranno nella complessa organizzazione istituzionale in cui è sostanziata la democrazia dell'Occidente.
La Storia insegna che la vita sociale ed istituzionale dei popoli ha conosciuto molti momenti di svolta.
Perchè la Sinistra democratica non riesce a sincronizzarsi con i nuovi tempii ? E' solamente questione di gruppi dirigenti o c'è ben altro ? |
Secondo lo studioso francese Yves Mény i momenti più salienti della storia delle società occidentali sono:
-- 1215, con la prima Rivoluzione inglese per l’ottenimento del diritto dell’”habeas corpus”, sancito con la concessione della Magna Carta;
-- 1648, con la stipula del Trattato di Westfalia;
-- 1688-1689, con la Gloriosa Rivoluzione inglese, che ha portato al riconoscimento della centralità e delle prerogative del parlamento;
-- 1648, con le diverse rivoluzioni sociali scoppiate in gran parte dell’Europa;
-- 1776 e nel 1789, con le Rivoluzioni, rispettivamente, americana e francese;
-- 1648, con le diverse rivoluzioni sociali scoppiate in gran parte dell’Europa;
-- 1917, con la Rivoluzione bolscevica;
-- anni Trenta del XX secolo, con il crollo delle democrazie in alcuni importanti Paesi, a causa dell’avvento dei totalitarismi;
-- 1945, con il “trionfo bipolare”, dopo la sconfitta del nazifascismo, degli Stati Uniti e della Russia Sovietica;
-- 1989, con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’Unione Sovietica, percepita, secondo l’espressione del politologo statunitense Francis Fukuyama, come “fine della storia”.
Ognuno di quegli eventi -secondo Mény- costituisce una “tessere” della complessa organizzazione istituzionale in cui si è sostanziata la democrazia occidentale come noi l'abbiamo vissuta..
E' avvenuto un corto circuito ?
Ai nostri giorni, afferma Mény, assistimo inconsapevoli ad una nuova rottura epocale innescata dalla crisi del “capitalismo globalizzato all’interno di sistemi democratici che ne hanno permesso la nascita, favorito lo sviluppo, e che, come apprendisti stregoni, si sono fatti rubare il fuoco”.
La globalizzazione delle economie nazionali alla base della crisi è gravata dalle rivoluzioni tecnologiche, economiche, finanziarie e sociali che, per quanto incruente, sono gravide di conseguenze sui sistemi politici. Dal crollo del Muro di Berlino, le democrazie ccdentali si sono “svuotate”, proprio quando Francis Fukuyama, l'entusiasta politologo americano, asserì che la "Storia era finita" e che sarebbe prevalso in modo esclusivo, senza “modelli concorrenti” quello "demcratico occidentale", per “l’assenza di un’alternativa credibile", ma -sstiene Mény, ciò "ha costituito il loro tallone d’Achille”.
Sostiene lo studioso francese che venuta meno ogni minaccia, “i loro difetti e le loro debolezze congenite sono apparsi in piena luce”, a causa del fatto che, parallelamente al loro presunto trionfo, è emersa la potenza del “loro compagno di viaggio, l’alter ego, il secondo elemento della coppia considerata indissolubile: il mercato”.
E’ accaduto che il mercato divenuto "globale", si trasformato in controllore della politica e della democrazia, passate in subordine all'economia.
Con la sottomissione della "democrazia" al mercato,
1) è crollata la possibilità dell'intervento pubblico sul sistema economico,
2) il sistema delle rappresentanze e della mediazione ( selezione delle élite politiche, delega del potere a specifici rappresentanti, crisi dei partiti e degli altri corpi intermedi) ha cessato di essere pilastro di sostegno dei sistemi democratici tradizionali.
3) i Paesi democratici, dal secondo conflitto mondiale avevano allargato i diritti civili, sociali e politici e potenziato la garanzia del loro esercizio ponendo il cittadino al centro del sistema democratico, tanto come attore politico, quanto come attore economico, e adesso – a parere di Mény – grazie alle nuove tecnologie dell’informazione si ritrovano con l’individuo che per la cura di tutti gli aspetti della vita privata e pubblica, non ha più bisogno d’essere rappresentato da corpi a lui estranei.
La diffusione delle tecnologie informatiche ha si favorito l’allargamento del dibattito politico, tuttavia, non ha -ad oggi- proposto un’alternativa credibile alla democrazia esistente, in quanto tutto si limita nel rimproverare l'establishment dominante “il tradimento, lo svilimento e la corruzione degli ideali democratici in favore di consorterie e caste privilegiate detentrici ufficiali o occulte del potere”.
La critica al Potere e alla Politica, però, secondo Mény, è stata condotta in forma confusa, solo “per invocare una purezza perduta, un mondo ideale che non è mai esistito”.
La contestazione degli establishment dominanti e dei partiti tradizionali, come è sempre avvenuto all’inizio di ogni rivoluzione, non è stata portata avanti nella prospettiva della creazione di un nuovo ordine politico; le proposte avanzate sono risultate per lo più caratterizzate da “passioni ed emozioni”, proprie di coloro che, aderendo a movimenti di protesta spontanei, di solito rifiutano qualsiasi forma di leadership proveniente dall’alto e distante dalla protesta movimentista. E’ accaduto così che, mentre la democrazia oggetto della critica dei “movimenti”, sorta e perfezionatasi nel tempo, nutriva il proposito “di pacificare e di ricondurre la violenza fisica nell’alveo di un confronto civile e rispettoso”, quella proposta dai “movimenti” – afferma il politologo francese – ha rifiutato il “linguaggio” dei partiti tradizionali, preferendone uno “violento e offensivo”, che gli aderenti ai movimenti spontanei e populisti hanno considerato legittimo, “sostenendo di parlare la ‘lingua del popolo’”.
In passato – sostiene Mény – partiti e sindacati riuscivano ad organizzare il malcontento, per condurre un’opposizione all’azione dei governi la cui politica era giudicata antisociale; successivamente, a cavallo tra il XIX secolo e l’inizio di quello attuale, “la conversione dei partiti socialdemocratici alle politiche neoliberali, indotta dalla globalizzazione dei mercati, ha finito per lasciare un vasto spazio all’insoddisfazione politico-sociale”, aggravatasi col peggiorare della situazione economica. Tuttavia, oltre all’insoddisfazione politico-sociale e alla conversione dei partiti socialdemocratici alle politiche neoliberali, la crescita del populismo è dovuta al fatto che essa non sia stata compresa dalle forze socialiste democratiche. Mény ritiene che queste forze siano state vittime dell’interiorizzazione di “una sorta di semplificazione”, consistita nel demonizzare il populismo, “assimilandolo e riducendolo a un fenomeno di estrema destra […], risparmiandosi lo sforzo di un’analisi più rigorosa, non rendendosi conto che avrebbero pagato molto caro questo errore di interpretazione”.
L’Italia è stata contagiata dal populismo, da due forme di populismo antagoniste, ma alleate nell’esercizio dell’attività di governo e unicamente cementate dagli effetti delle politiche di austerità.
Alle forze socialiste e democratiche compete -secondo Mény- l’elaborazione di una possibile proposta politica, a fronte dell’esito delle loro sbagliate valutazioni riguardo all’origine del movimento populista.
Lasciare che le due forme di populismo antagoniste perseverino nell’esercizio congiunto dell’azione di governo può esporre a seri rischi la democrazia italiana; è pertanto auspicabile che le forze socialiste democratiche del Paese si ricordino che non vi è alternativa credibile alla democrazia, salvo, come ricorda Mény, quella di cadere provvisoriamente nell’anarchia, per poi finire nelle angustie di un regime illiberale.
(il testo è il sunto di un ampio articolo di Gianfranco Sabattini
su Avanti!)
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