CULTURA ETNICA E PRODUZIONE LETTERARIA DEGLI
ARBËRESHË DI SICILA
di Zef chiaramonte (testo informale)
Quando si parla di
Albanesi in Sicilia, si è soliti partire dal 1448, anno cui
risalirebbe il primo passaggio organizzato dai Balcani verso la
Sicilia e il sorgere della comunità di Contessa Entellina.
Tra
gli autori siciliani, il primo a parlarne è il Fazello nelle sue
Decadi.
Avendo avuto,
ultimamente, dopo la lunga parentesi ottomana e quella comunista,
migliori e più fondate informazioni sulla storia del popolo albanese
nell’ultima fase della presenza dell’Impero Bizantino in Sicilia,
non si può escludere che la presenza albanese nell’Isola risalga a
molto tempo prima.
Prima della conquista
araba, infatti, il Tema d’Italia, e la Sicilia in esso, era
amministrato proprio dagli Albanesi nell’ambito dell’isopolitia
che gli Albanesi condividevano coi Greci nel governo dell’Impero
Bizantino, come scrive Anna Comnena. Il greco era, comunque, la
lingua ufficiale, ma l’albanese non doveva essere estraneo in bocca
a soldati e strateghi, come il Maniace.
Il centro amministrativo e strategico del Tema era Durazzo e pare che in tale periodo faccia la sua prima apparizione tra noi, l’arco ribassato che, appunto, durazzesco si chiama.
Abbiamo ulteriori
notizie di durazzini
ed epiroti,
i quali in periodo federiciano si spostano stagionalmente
dall’Albania in Sicilia per attendere alla piantagione delle vigne
che giudicano più qualitative se spostate dalla costa in collina.
E’ risaputo che lo
Stato multietnico e multireligioso che fa capo all’Impero Romano
venne diviso amministrativamente dagli imperatori illirici, a partire
da Diocleziano, passando per Costantino il Grande … sino a
Giustiniano.
Orbene, gli epigoni
degli Illiri sono gli Albanesi che nel Medioevo si chiamavano
Arbëreshë, dalla radice arbër del loro primo Despotato (Signoria)
autonomo da Bisanzio.
Questo nome viene
ancor oggi conservato dagli Albanesi d’Italia.
Come parlare della
cultura “etnica” degli Arbëreshë?
Non
mi piace l’aggettivo che segue a “cultura”: l’etnos richiama
la nazione, spesso una monade da idolatrare, senza la circolarità
“trinitaria” che caratterizza, ormai da 6 secoli, gli Arbëreshë
d’Italia.Gli Arbëreshë non vivono “in una sorta di chiusura
etnica”, come qualcuno ha azzardato senza conoscerli fondo.
Gli
Arbëreshë, dei quali oggi parliamo, sono
albanesi
per lingua,
bizantini
per rito,
italiani
per adozione. .
Non
siamo in presenza di un etnos, dunque, ma piuttosto di un ethos!
Si tratta di una
popolazione originariamente proveniente dalla penisola illirica, dove
aveva ricevuto il Cristianesimo direttamente dalla predicazione di
San Paolo, elaborandolo poi secondo due acculturazioni: una
occidentale con liturgia romana in lingua latina, l’altra orientale
con liturgia bizantina in lingua greca.
Non un
etnos, ma un ethos, un modo di essere, di pensare, un
costume
una tradizione dalle forti radici nel passato, dalla difficile e pur
auspicabile conservazione nel presente e nel futuro
Giorni
fa, dall’Albania ancora caotica ma dalle pressanti istanze
in campo religioso, il Dr. Lluka
Qafoku, un fisico di professione ma operatore culturale per scelta,
affidava a fb questa costatazione:
i
Feja e arbërve paleokristianë, i
korespondon sot ortodoksisë unite të arbëreshëve, pra ortodoksisë
si ritual me Papën kryetar Kishe, gjë që është në përputhje të
plotë me Testamentin e Ri.
Inizio
modulo
La fede degli albanesi
paleocristiani, corrisponde oggi all’ortodossia unita degli
arbëreshë d’Italia, cioè all’ortodossia come rituale col Papa
- capo della Chiesa, cosa che è perfettamente in sintonia col Nuovo
Testamento.
Quando
si rompe nella Chiesa Illirica questa situazione, la stessa peraltro
che caratterizzava la Sicilia e l’Italia Meridionale (Calabria)
sino al 732 ?
Si rompe
con la crisi iconoclasta che, appunto, inizia in quell’anno.
L’imperatore
di Bisanzio, Leone III Isaurico, per punire il Papa di Roma che si
era opposto al diktat contro la venerazione delle sacre immagini,
stacca le tre province dalla dipendenza romana e le lega a
Costantinopoli.
Nonostante
la composizione della crisi, avvenuta un secolo dopo, le tre province
non tonano alla dipendenza romana e il rito bizantino vi prevalse su
quello romano.
Con
l’avvento dei Normanni, Sicilia e Calabria tornano
all’amministrazione romana, ma a pagarne le spese è la liturgia
greca che deve cedere a una latinizzazione forzata.
L’Illirico
albanese rimase in bilico tra Oriente e Occidente, ma la mente sempre
rivolta all’Occidente come afferma Fan
Noli e come è inscritto nelle abitazioni
tradizionali: la porta d’ingresso a Occidente !
Fu, poi,
il Concilio di Firenze.
L’
unione delle Chiese ivi firmato, rimane in vigore per soli 60 anni.
Durante i quali i Turchi ottomani spazzarono via tutto ciò che era
rimasto dell’Impero Romano d’Oriente, sostituendovisi.
Ma ecco
gli Arbëreshë, gli Albanesi di allora.
Lasciano
le loro terre e vengono da noi, nell’Occidente sempre sognato,
all’ombra del Papato mai volontariamente abiurato.
Riprendono
qui la tradizione paleocristiana: bizantini
con Roma.
Confesso
che non credevo alle mie orecchie, quando viaggiando per il sud
Albania, mesi addietro, mi son sentito dire: <Noi siamo ortodossi
con Roma>, mentre altri affermavano: <noi siamo ortodossi con
Mosca!>
Nonostante
500 anni di occupazione ottomana e 50 di comunismo ateo, in alcuni
non si è spento il ricordo dell’appartenenza romana, in altri il
ricordo degli zar che avevano sostituito Bisanzio nella difesa della
fede ortodossa.
Ma
torniamo agli Arbëreshë.
Dopo il
loro impianto in Sicilia e nel regno del Sud, a causa dell’assoluta
mancanza di comunicazione con la terra d’origine, sulla loro
sventura costruirono un ethos, senza appartarsi dagli altri (vedi
la compresenza di latini e greci nelle loro cittadine), e senza
subire apartheid.
Dalla
tradizione civile e religiosa precedente ereditarono vivo il culto
delle libertà personali, dell’autogoverno democratico,
dell’aderenza alla cultura mediterranea ispirata alla spiritualità
cristiana e bizantina. Coltivarono gli studi classici, la melurgia
ecclesiastica, la lingua, i costumi tradizionali.
Nei
momenti più alti crearono un Monastero a Mezzojuso, un Collegio e un
Oratorio a Piana, un Seminario e un Convitto a Palermo, ottennero un
Vescovo Ordinante per il rito greco e, infine, un’Eparchia.
Di tutto
questo, molto non esiste più.
Ciò che
resta è bisognoso di cura e di amore, in alto e in basso.
Così
come ovunque, del resto, anche le istituzioni arbëreshe sono sorte,
son cresciute e alcune sono morte.
Ma esse
hanno permesso la gestazione e la produzione di una cospicua
produzione letteraria che è là a testimoniare come l’ethos
arbëresh sia capace di rigenerarsi.
Cos’avranno
portato con sé i primi esuli: libri, iconi, oro e argento?
Non ci è
dato saperlo.
Qualche
libro, forse, che la Biblioteca del Monastero di Mezzojuso e quella
del Seminario ancora conservano.
Certamente
l’occorrente per la celebrazione della Divina Liturgia:
l’Apòstolos. l’Evangeliario, il Salterio...
Il
resto l’avranno commissionato all’Archimandritato di Messina, a
Venezia, a Roma …
Ecco,
però, che un Lek Matranga, nel 1591, dà l’abbrivio a una
letteratura arbëreshe: traduce in albanese un catechismo, lo stampa
a Roma, lo porta in Sicilia, lo usa nella sua chiesa.
Oggi
sappiamo che si tratta del secondo libro a stampa della scripta
albanese.
E poi
Giorgio Guzzetta (1682-1756) che, oltre a fondare il Seminario quale
autentica università degli studi per gli Arbëreshë, scrive un De
Albanensibus Italiae rite exculendis
ut sibi ac totius Ecclesiae prosint.
Paolo
Maria Parrino (1710-1765), ci lascia un manoscritto inedito in 3
volumi De perpetua consensione Albanensis
Ecclesia cum Romana: un tesoro di notizie
sulla storia civile ed ecclesiastica dell’Albania medievale e sulle
particolarità del calendario liturgico degli Albanesi di Sicilia a
confronto col calendario dei Greci.
L’arciprete
Figlia, nel ‘700, raccoglie i canti popolari arbëreshë nel suo
Codice Chieutino.
Nicola
Camarda, nell’ ‘800 traduce in albanese il vangelo di san Matteo,
mentre il fratello Demetrio, Archimandrita a Livorno, produce la
prima Grammatologia comparata della lingua albanese.
Giuseppe
Schirò senior, nel
1900, raccoglie tutta la tradizione orale ne I
Canti tradizionali
degli Albanesi di Sicilia che annovera, tra
l’altro, una magnifica parafrasi sapienziale ispirata al Siracide,
ai Proverbi, ai Salmi, al libro di Giobbe.
Prima di
giungere ai tempi nostri, con la straordinaria opera poetica di Zef
Schirò Di Maggio, il migliore tra i poeti arbëreshë contemporanei,
e la riproposizione critica di tante opere di scrittori arbëreshë
del passato da parte di Matteo Mandalà, ricordiamo il poema L’ultimo
canto di Bala
di Gabriele Dara, Mbi Malin e Truntafilevet
di Crispi Glaviano, le opere di Nicolò Keta, ecc.
Un posto
a sé merita Mons Paolo Schirò, l’ultimo dei vescovi ordinanti per
il Rito greco in Sicila, per aver scoperto il primo libo a stampa
della letteratura albanese, il Messale di
Gjon Buzuku, 1555.
Tale
scoperta suggerì al buon vescovo l’idea di tradurre i passi
scritturistici della messe domenicali e festive dal greco in albanese
che pubblicò nel settimanale Fjala e t’Yn’
Zoti .
Rompendo
gli schemi entro i quali la liturgia degli “ortodossi con Roma”
doveva, allora, celebrarsi in greco, come quella dei cattolici doveva
esserlo in latino, ne introdusse l’uso nelle parrocchie.
Quest’uso
è rimasto sino ad oggi e non si vede alcun motivo per cambiare.
Una
lingua rimane viva finché si parla e usarla nella preghiera
pubblica, nella liturgia, significa darle dignità al pari di ogni
altra favella umana.
Con Mons.
Paolo Schirò partono gli inesausti studi filologici sul Messale
di Buzuku, mentre chi vi parla ne ha condotto
il primo studio storico liturgico contestualizzandolo nel periodo del
Concilio e del post concilio di Trento.
Come è
noto, l’ethos arbëresh è stato ed è strettamente legato alla
Chiesa.
Se non ci
si vorrà pentire, come Sant’Agostino quando lamenta: “amisi
utilitatem calamitatis”, si faccia
dell’estraneità all’ambiente dell’Eparca venuto da lontano una
chance, una opportunità, invece che un fardello da sopportare a
fatica.
Sono
certo che la buona volontà del Pastore troverà riscontro nella
buona volontà della maggior parte del Popolo di Dio.
Concretamente
suggerisco;
-l’alfabetizzazione
albanese dei papas dell’Eparchia, anche in chiave ecumenica e per
un rapporto privilegiato con la terra d’origine;
-l’edizione
e l’uso liturgico delle opere lasciate in ciclostilato da Papas
Gjrgji Schirò, nipote ed epigono dello zio vescovo;
-la
trascrizione e la stampa dell’opera storico-teologica in
manoscritto di Paolo Maria Parrino;
-Quant’altro,
poi, lo Spirito buono e vivificante vorrà suggerire.
zef.chiaramonte@yahoo.it
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