Dario Fo, il grande artista e
Premio Nobel recentemente scomparso, pare che si dicesse “non si può morire
davvero” e secondo quanto narrato dal figlio continuava a parlare con la moglie
Franca Rame morta qualche anno prima. In effetti noi uomini siamo gli unici esseri
animati che abbiamo consapevolezza del nostro limite estremo, la morte. Da
questa consapevolezza nasce in tutti la volontà sterile di volerla evitare, il desiderio di non
parlarne, di volerla dimenticare. Ed oggi siamo arrivati al punto di non far
morire le persone sul proprio letto, in mezzo al mondo in cui sono vissute, ma
negli scantinati, nei piani seminterrati degli ospedali, negli obitori, per non
ricordare al mondo che la vita non è data goderla per sempre.
La vita.
Capita comunque a tutti interrogarsi
su di essa, sul senso della vita. I pessimisti rispondono subito che essa non
ha alcun senso. Altri danno ad essa un certo significato di “movimento”, di
darsi da fare, di realizzare, che poi significa lavorare e creare per dare una
impronta e lasciare un ricordo. E’ una visione questa all’insegna della
dinamicità dell’essere umano, dell’apparire in attesa, o meglio nella volontà
di non voler completamente scomparire.
E’
in fondo quella visione della vita del farsi e del disfarsi dei fenomeni che il
Cristianesimo sotto certi aspetti fa propria. Il Dio cristiano –che non ha
nulla a che fare con le interpretazione morbose con cui taluni sparlano quando
ne fanno un supremo giudice che sta in alto e condanna i peccatori e premia i
bravini, che ha un trono e ogni tanto manda qualche fulmine- sappiamo che è amore, ossia impegno,
passione, capacità di sacrificio e di lavoro, dramma.
Per il cristiano cosa potrebbe
essere il senso della vita ? potrebbe
(ma non è detto che tutti coloro che si professano cristiani vi si riconoscano)
essere la convinzione che la vita è orientata verso una crescita del rispetto
altrui, l’ordine e l’armonia e al contempo verso la consapevolezza che ogni lavoro
deve implicare fatica, dolore e rischio di perdere la possibilità di
intravedere il senso di ciò che viene operato.
Opportuno ci sembra il brano di
una lettera che il matematico, scienziato, teologo e sacerdote Pavel Florenskij*
scrisse al figlio dal gulag dove fu trattenuto per anni e poi fucilato nel
dicembre del 1935 dalla follia stalinista.
“Si tratta della visione della vita dell’antichità
greca, di un ottimismo tragico.
La vita non è affatto una festa e un
divertimento continuo; nella vita ci sono molte cose mostruose, malvagie,
tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere
dinnanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla”.
In un'altra lettera dello stesso
sacerdote ortodosso indirizzata alla figlia Olga si legge “La vita consiste nel
lavoro tenace e integrale”.
*Pavel Florenskij, Non dimenticatemi.
Lettere alla moglie e ai figli
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