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lunedì 25 novembre 2024

In che mondo ci avviamo?

 Sfogliando i giornali


Ai nostri giorni sull’argomento
“climatico” si paventa sempre di più
 il rischio del raggiungimento di quel
 “punto di non ritorno” che
significherebbe compromettere la
sopravvivenza stessa del pianeta e
delle generazioni future.






La crescita della temperatura media, rispetto all’era preindustriale, ha superato la soglia allarmante di 1,5 gradi. Gli obiettivi di neutralità nelle emissioni al 2050 (che non significa si smetta di produrle) appaiono ancora difficilmente raggiungibili, persino in Europa dove la sensibilità collettiva è maggiore. 
Non si è mai consumato così tanto combustibile fossile. Non si è mai inquinato così tanto. Tutto ciò non solleva però alcuna ansia collettiva. Alimenta, al contrario, un pericoloso processo di rimozione sul quale forse dovremmo interrogarci. 

La transizione si fa con le scelte tecnologiche, gli investimenti, ma anche con il consenso e la partecipazione della popolazione. Inutile illudersi che venga solo dall’alto, per le scelte di Stati e imprese.  Servirebbe una spinta civica, responsabile. Soprattutto da parte dei cittadini dei Paesi ricchi che hanno un consumo pro capite venti, trenta volte superiore a quello degli abitanti delle Nazioni in via di sviluppo a cui, curiosamente,  si chiede di essere più virtuosi. 

Nelle democrazie rappresentative occidentali, in più casi prevalgono i negazionisti, le preoccupazioni per i costi di un passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili, come se ciò comportasse un sacrificio di benessere che la gente giudica oneroso se non iniquo. Vi è una scarsa percezione del rischio che il rinvio determini oneri maggiori (i disastrosi costi anche umani dei fenomeni atmosferici estremi) e persino un progressivo impoverimento.

Donald Trump probabilmente — come ha fatto nel 2016 — ritirerà il proprio Paese dagli accordi sul clima.

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