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mercoledì 23 maggio 2018

Hanno detto ... ...

Non solo populismo
pure cialtronerie ?
MATTIA FELTRI, giornalista de La Stampa
Siccome è possibile che il Torino venda il suo centravanti, Andrea Belotti, e siccome poi toccherà sostituirlo, mi sono candidato per un contratto da bomber con il presidente Urbano Cairo. Gli ho mandato il curriculum in cui si attesta che ho disputato 282 partite nel Flamengo, campionato carioca, realizzando 207 reti. Conto altresì 52 presenze e 35 gol nella Nazionale brasiliana. Ora ci sono due possibilità: che Cairo cestini la mia profferta, curandosi di trovare un attaccante le cui prodezze siano note e non autocertificate, oppure che si faccia ingolosire dalla mia strabiliante seppur ipotetica media realizzativa e mi offra un quadriennale.  

In questo secondo e altamente improbabile caso bisognerebbe contemplare l’eventualità che qualche giornalista verifichi che ormai ho gli anni del Cristo di Rio, e il Flamengo al massimo l’ho visto in differita alla tv via cavo. È però sicuro che fra i due a rimediare la figura del vero fesso sarebbe Cairo. E siccome fesso non è, i tifosi del Toro non corrono rischi. Non si sceglie per curriculum il numero nove, come non si sceglie per curriculum un conduttore di prima serata o un direttore d’orchestra, tantomeno se il curriculum lo ha controllato nessuno. Invece il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è stato scelto proprio per il curriculum e ora pare non sia mai stato alla Sorbona, alla New York University e a Cambridge né in altri tre o quattro siderali atenei, come dichiarato in autoesaltazione. Pensa che ci si è ridotti a scrivere: un premier si sceglie per quello che è, e soprattutto si sa, e non per quello che dice di essere.  

OSCAR GIANNINOgiornalista di politica ed economia.
Appiattiti sull’evoluzione di ora in ora in vista dell’eventuale governo Tra Lega e Cinque Stelle, si rischia di perdere di vista una questione fondamentale. La cronaca ha i suoi famelici diritti, certo. Di conseguenza dalle disinvolte successive riscritture dell’intesa di programma tra i due partiti, ai dubbi sui nomi che dovrebbero formare il governo, al ruolo incessante dietro le quinte del Quirinale, fino ieri al caso personale del professor Giuseppe Conte e del suo curriculum, la politica rincorre le ore come nei colpi di scena di un romanzo giallo. Eppure, c’è una questione in ballo che viene prima e che resterà dopo tutto questo. E che riguarda una questione di fondo: l’ambizione che deve sempre animare una visione di lungo periodo della politica, se vuole tramutarsi in consensi necessari a renderla capace di trasformare la realtà.
Il voto del 4 marzo è stato da questo punto di vista una cesura torica, nel sistema politico della Repubblica. Di portata superiore allo stresso 1994 e alla fine della prima Repubblica. Allora, cadde il sistema dei vecchi partiti ma Berlusconi rialzò contro molte aspettative una bandiera che in fin dei conti almeno all’inizio si presentava come liberale, ma di sistema. Il 4 marzo per la prima volta oltre il 50% dell’elettorato italiano ha votato due forze politiche che apertamente lanciano una sfida che è quella ricordata domenica scorsa all’uscita del Quirinale da Salvini: popolo contro élite e masse contro potere.
E’ fin troppo facile incasellare il successo di Lega e Cinque Stelle nel fenomeno neopopulista che da qualche anno avanza in Europa, e che ha portato Trump a diventare presidente negli USA. Ma è un errore profondo, tipico delle élite snob, credere che si debba a una ventata di follia dovuta al prevalere della pancia e dell’emotività di massa sulla razionalità e sul rispetto delle regole istituzionali. Al contrario, Salvini e i Cinque Stelle hanno dal 2013 a oggi costruito giorno dopo giorno in maniera martellante la loro prevalenza nel dettare l’agenda pubblica nazionale. Le discontinuità proponde su cui hanno lavorato per slogan efficaci hanno colpito al cuore lo storytelling che Renzi tentava di affermare, dal governo. Sicurezza pubblica e no agli immigrati, rispetto a integrazione e fermezza di Minniti, pur capace di far scendere gli sbarchi del 75%. Sostegno a redditi e consumi, prima di produttività e incentivi a chi esporta. Stop alla concorrenza, che mette a rischio posti di lavoro prima di crearne di nuovi. Sì ai prepensionamenti, no al riequilibrio del welfare, che già è al 75% per gli over 55enni. Ritorno alla sovranità monetaria, ai dazi e alle tutele patrie, e no all’Europa con le sue regole inadatte a noi e favorevoli solo ai più forti.
Ha sbagliato di grosso, chi ha creduto che l’inesperienza di governo, l’approssimazione tecnica delle proposte, l’anomalia di un movimento controllato da una piattaforma digitale privata, gli scivoloni leghisti verso forme di vero e proprio razzismo, potessero di per sé minare la credibilità e il consenso a questa ambiziosa nuova visione.
E’ ovvio, che secondo i criteri ragionevoli di una politica che debba obbligatoriamente tener conto del fatto che siamo iperindebitati e acciaccati da freni alla crescita e iniquità sociali che ci trasciniamo da decenni, la ricetta proposta da questa visione appaia pericolosa, tale da mettere a rischio sui mercati i risparmi e i patrimoni degli italiani, e per molti aspetti addirittura inconsapevole del gorgo in cui potremmo finire per una serie inintenzionale di conseguenze a catena che sfuggissero di mano, nel rincorrersi tra spread alle stelle che sovrapponesse rischio sovrano e rischio bancario, traslandone immediatamente l’onere a famiglie e imprese.
Ma è altrettanto vero e oggettivo che i tradizionali richiami alla responsabilità e alla misura – quelli che tocca al pazientissimo Quirinale cercare di riaffermare ogni giorno- rischiano di rimbalzare come gommini sull’acciaio. La forza di questa nuova visione si nutre del fatto che in pochi anni i paesi esteuropei nel blocco di Visegrad hanno detto no alla Merkel sui migranti, e la Merkel ha dovuto far buon viso a cattivo gioco. In Polonia la magistratura ha perso la sua indipendenza, e non è successo niente. In Ungheria Orbàn ha fatto comprare a imprenditori suoi amici i pochi i maggiori media che erano ancora indipendenti, ed è divenuto normale leggere ogni settimana la lista dei corrispondenti esteri da additare al dileggio e alla minaccia di espulsione perché ne criticano il regime. Ciò che si riteneva impossibile invece avviene, le Nazioni si ricentrano su se stesse e sui loro miti patrii, la riforma della governance europea in senso cooperativo non ci sarà. Trump prende a sberle le regole multilaterali del commercio internazionale, e costringe la Cina ad ammettere che abbasserà i dazi sull’auto e ridurrà il suo surplus commerciale. Perché chi ha votato Lega e Cinque Stelle dovrebbe credere che solo altrove può avvenire, ma solo da noi no?
Ed eccoci al punto. Il 4 marzo hanno perso di schianto le due visioni tradizionali che si opponevano a quelle populiste: quella di Berlusconi e quella di Renzi. E ora c’è un enorme vuoto, il campo a Salvini e Di Maio è come se fosse stato lasciato libero e deserto. E’ giusto che in coerenza al voto degli italiani Lega e Cinque Stelle debbano oggi provare davvero a governare, che cada così l’eterna scusa che si voglia impedire siano messi alla prova dei fatti. Facciano concretamente vedere di che cosa davvero sono capaci– tra le tante cose senza numeri che hanno scritto nella loro intesa – e quali conseguenze concrete ne deriveranno all’Italia.
Ma nel frattempo bisogna sperare che chi deve capire capisca. L’Italia delle cinque fratture aspetta una visione contrapposta, altrettanto ambiziosa, e meglio capace di parlare ai cuori e non solo ai portafogli, insieme di chi ha di più ma innanzitutto di chi ha meno, e oggi è stato facilmente convinto che la risposta sia più assistenzialismo e più Stato, con deficit di spesa libero e chissà, persino il ritorno a un debito pubblico integralmente monetizzato dalla Banca d’Italia. Le cinque fratture che ci trasciniamo dagli anni Novanta sono quelle della bassa produttività comparata, nei settori diversi dalla manifattura che esporta; il drammatico gap territoriale tra Nord e Sud; il basso capitale umano, che genera bassa occupabilità dei giovani e bassa la produttività: è ad esempio drammatico il dato rilasciato dall’Istat secondo il quale in 10 anni abbiamo perso 392 mila occupati in mansioni tecniche, per guadagnarne 400 mila a bassa qualifica; un welfare ostile ai giovani, con troppa spesa sociale concentrata su anziani e pensioni, e di qui una demografia da Paese asfittico e condannato; e infine il blocco degli ascensori sociali, con una scuola e una università che restano più a misura di chi ci lavora che di chi le frequenta.
Nessuna di queste trappole della decrescita italiana è citata nell’intesa programmatica Lega-CinqueStelle. Non è un caso. La visione populista le considera conseguenze di scelte sbagliate sui vincoli esteri posti impropriamente al nostro Paese: quando sono invece figlie di scelte sbagliate tutte italiane.

La domanda decisiva è: ci sono personalità, corpi intermedi, rappresentanze territoriali del terzo settore, della cultura, dell’accademia, del mondo del lavoro, che percepiscano la pressante necessità di dar vita in pochi mesi a una visione alternativa rispetto a quella populista? Che sentano l’impellente bisogno di mettere sulla prossima scheda elettorale un’Italia che il 4 marzo sulla scheda non c’era? Che siano capaci di leadership altrettanto empatiche e popolari, come e più di quelle delle forze populiste? E che avvertano l’inevitabilità di farlo al di fuori dei vecchi criteri tecnocratici, ai quali il consenso se mai è esistito è oggi del tutto improponibile? Che vadano tra la gente a spiegare che l’alternativa non è chiudere l’ILVA, nazionalizzare Alitalia e MPS, ma cambiare il welfare e il fisco ma senza buchi da 100 miliardi, per ricentrarlo su giovani e famiglie, occupabilità e non reddito a prescindere dal lavoro?
Oggi per esempio si tiene l’assemblea annuale di Confindustria: è possibile immaginare che da quel mondo si levi una voce all’altezza della rivoluzione in corso? E lo stesso vale per il sindacato: la FIM CISL riformatrice deve e restare coraggiosamente da sola, o qualcuno si unirà a lei? E Confcommercio, davvero pensa che le reti distributive italiane possano tornare alla tutela del vicinato in nome della lotta alla grande distribuzione? E l’Università, davvero non ha forze al suo interno che vogliano una maggior quota di finanziamenti a chi fa miglior ricerca, invece di tornare indietro come negli ultimi anni?
Non è la difesa del pareggio di bilancio e dei vincoli europei, quella che può riuscire nell’impresa di una visione di successo alternativa al populismo. E’ un mix nuovo di alleanze tra culture diverse, popolari, riformiste, con gli occhi al mondo, al merito, e ai poveri assoluti che sono la vergogna dimenticata dei nostri ultimi anni, l’impresa per la quale oggi si può solo lanciare un interrogativo: se c’è qualcuno che se la sente, si faccia avanti. Altrimenti, non potrà lamentarsi che i populisti facciano il loro mestiere. Perché, come si è visto, lo sanno fare benissimo

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