da La Repubblica
di Massimo Cacciari
In che cosa consiste il valore di un dialogo "sincero e rigoroso"? Nel trovare un reciproco adattarsi delle posizioni? Minimi comuni denominatori? Ragionevoli mediazioni? No certo. Esso consiste nel pervenire alla massima chiarezza della distinzione - e nel riconoscerne la necessità. Posso pensare infatti di "conoscere me stesso" soltanto attraverso l'ascolto e lo studio dell'altro da me. Papa Francesco fonda questo "metodo" su due aspetti, profondamente connessi, della fede cristiana.
Questa fede è appesa alla Croce, in ogni istante essa è chiamata a rinnovarsi, poiché in ogni istante dubita di sé: "Credo, adiuva incredulitatem meam". Nel modo più radicale in Agostino: sempre il credente si interroga addirittura se non appartenga nel suo fare concreto agli Anticristi. Per l'altro aspetto, più propriamente teologico, la Verità che questa fede testimonia non può essere intesa come assoluta. Papa Francesco ha ragione - ma in che senso? Dio Amore, Theos Agape, in quanto appunto Agape, si è absolto dal suo essere semplicemente Uno, assolutamente Uno. È in sé Relatio. Deus Trinitas. Il dogma dell'incarnazione, come già Giovanni lo concepisce, vede l'evento storico, l'apocalisse del Figlio come ab aeterno presente nella Realtà di Dio. Ciò significa che la non-assolutezza della sua Verità non può che essere intesa come il carattere proprio e paradossale della sua stessa assolutezza.
È l'Eterno che nell'incarnazione si manifesta e assume in sé il temporale stesso: divino-umanità. Tra la non assolutezza delle "verità" storiche e la non-assolutezza della Verità cristiana vi è, dunque, l'abisso, il salto. La Relazione non annulla affatto la trascendenza, poiché sta in Dio. E, inoltre, la teologia deve chiedersi: tutto il Divino si incarna? che cosa indica la "persona" dello Spirito? forse proprio la dimensione sempre avvenire, sempre non dum, mai riducibile alla immanenza della relazione, del Deus-Trinitas?
La fede di papa Francesco è perfettamente cristocentrica. Fondamentale ricordarlo: il cristiano si chiama cristiano perché incontra Gesù e lo crede il Figlio, non perché creda in Dio. Anzi, potremmo dire che il cristiano crede in Dio soltanto perché il Figlio ne ha fatto, ne è, la esegesi. Il confronto fede ragione intorno alle "dimostrazioni" dell'esistenza di Dio, non riveste più alcun interesse. Ma ciò lo rende ancora più difficile e drammatico. Perché Gesù chiede essenzialmente non di essere creduto come il Figlio ("chi credete che io sia?"), ma di essere seguito in ciò che fa. E ciò che faesige un amore perfetto come quello del Padre celeste. Amore esigentissimo, sovra-umano, che si manifesta in pieno nelle Beatitudini, in tutte le parabole del Regno, così come nel "date a Cesare" citato da papa Francesco - che nessun Padre e nessun Dottore ha mai interpretato come si trattasse di una tranquilla distinzione di "ruoli": a Cesare appartiene la moneta che porta la sua effigie e basta - e il cristiano se ne libera perché corpo, mente e anima appartiene al Signore.
Scalfari intuisce che intorno al problema del "perdono" ruota la quintessenza della paradossalità di questa fede (opposta a ogni superstitio). Per-donare significa donarsi integralmente. Ma questa misura del dono non può essere concepita che "per grazia". Occorre tenerlo per fermo per non cadere in puro pelagianismo. Su questo papa Francesco ha forse un poco "glissato". È evidente, infatti, che non ha alcun senso pensare che Dio non "perdoni" chi non crede. Non credere non è assolutamente peccato. Poiché la fede è gratia. Chi non crede non pecca affatto - e tuttavia, è necessario aggiungere, in base a questa fede non può ritenersi salvo. Questo è il "vino forte" - qui di nuovo si apre l'abisso tra diverse forme di vita - e nessun ponticello può essere gettato per superarlo.
Che cosa di questa fede interessa essenzialmente il non credente? Che cosa lo interroga, lo inquieta, è per lui assolutamente da pensare? Proprio la sua paradossalità - o, meglio, il fatto che il suo estremo paradosso non produca una prospettiva gnostica, non dia vita a una "chiesa degli eletti", superbamente separata dal "popolo", dal "laico". Il paradosso è qui il sale della terra. È chiamato a tenere invita il cammino di tutti. Ma il cammino è uno, il Cristo, e la vita vera è quella nel segno dell'Eterno, a sua immagine, nel segno della sua Verità: Croce e Resurrezione. Il non credente è chiamato, cioè, a pensare il carattere escatologico di questa fede: come è possibile vita autentica che non sia in ogni suo istante chiamata a render conto di sé come all'ultimo? Intorno a questa radicale idea di responsabilità ci interroga questa fede.
Ma allora sulle "cose ultime" non è possibile "passar oltre", come si trattasse di aspetti ancora "mitologici", in quanto tali di ostacolo nel dialogo con "la cultura moderna di impronta illuminista". L'attesa del "ritorno", della Parousia del Figlio, dovrebbe essere considerata essenziale, ora come alle origini. Perché, dopo la sua venuta e le sue parole, continuiamo a fare le opere del male, anche quando vediamo il bene? Perché il Figlio è venuto e il mondo continua a non seguirlo? Non è uno scandalo questo? La fede cristiana può essere sale della terra soltanto nella misura in cui continuamente lo grida, senza compromessi o adattamenti col Principe di questo mondo... Eppure, sì, essa è tutta incarnata - e perciò deve anche, ogni volta, trovare le forme della relazione col secolo, "secolarizzarsi". Il paradosso: affermare il più profondo inter-esse col mondo senza mai, neppure per uno iota, appartenervi.
Soltanto, inoltre, su questo contesto escatologico è possibile impostare rigorosamente il dialogo con l'ebraismo. Non basta certo ricordare con Paolo (chiedendo sempre perdono per tutti i peccati commessi contro la sua parola...) che quella radice è sempre santa e che fedele rimane sempre l'amore di Dio per Israele. La differenza radicale col messianismo giudaico deve essere pensata. L'ebraismo non sta alle origini, ma, probabilmente, al Fine dell'Evo cristiano. Può forse il cristianesimo intendersi se non alla luce della mancata "conversione" di Israele? Ma riconoscere tale "rifiuto" è o no necessario per il cristiano? Non è forse esso che rende impossibile "adattarsi" a questo mondo, che è ancora waste land, il mondo delle tribolazioni e delle distruzioni? Non è "ebraico", nella sua essenza, il punto di vista che condanna ogni "trionfalismo", ogni fede "assicurata"? Non sono le domande e provocazioni di senili illuminismi e positivismi che dovrebbero inquietare questa fede, ma quelle dei Dostoevskij, dei Nietzsche, dei Kierkegaard - domande emerse dal suo seno stesso così come da coloro che hanno profetizzato meglio di qualsiasi altro il mondo attuale della in-differenza, il mondo che fa guerra ininterrottamente nel momento stesso che proclama come idea unica, pensiero unico "pace e sicurezza", il mondo che nel segno della "rete" che tutto avvolge e omologa sulla superficie deride per tutti i mercati chi cerca Dio o chi si ostina a pensare "le cose ultime", o chi si interroga su come sia sopportabile una vita non in cammino alla Verità.