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lunedì 13 settembre 2010

GLI ANTICHI INSEDIAMENTI IN ITALIA DELLA COMUNITA' ALBANESE E LA SUA RECENTE EMIGRAZIONE di Matteo Mandalà

Lo studio del prof. Mandalà sottoriportato, da noi ripreso dal sito della Provincia di Torino, è datato. Molte delle circostanze storiche qui riportate vanno lette alla luce del libro da lui più recentemente pubblicato, grazie alle ricerche storiografiche svolte.

L’emigrazione albanese verso l’Italia si è registrata lungo un arco di tempo piuttosto ampio e si è sviluppata in varie fasi, ognuna delle quali caratterizzata dalle diverse vicende storiche (anzitutto militari ma anche, come si vedrà, politico-diplomatiche, economiche e culturali) che interessarono la penisola Balcanica, prima e la lunga occupazione turco-ottomana del sec. XV, poi. Allo stato attuale della conoscenza, per tanta parte pregiudicata sia dall’ampiezza, ad un tempo geografi ca e temporale assunta da questo peculiare fenomeno, sia dalla scarsezza e dalla dispersione dei dati documentari, è molto diffi cile stabilire con certezza storiografi ca i limiti cronologici dei singoli spostamenti e, quindi, la loro reale ed effettiva dimensione.
Limitandosi alle fasi che più immediatamente precedettero la diaspora vera e propria della fine del XV secolo, non ci si può che affidare ai significativi risultati delle accurate indagini archivistiche condotte negli ultimi decenni.

La presenza di piccoli e sporadici gruppi di Albanesi, per lo più nuclei familiari originari delle aree limitrofe ai grandi centri portuali di Durazzo, di Dulcigno, di Antivari, mete obbligate delle principali rotte commerciali verso l’Oriente, si registra tra la fine del XIII e la fine del XIV secolo nelle regioni costiere dell’Italia centrale e meridionale, con propaggini in Sicilia occidentale dove particolarmente forte era la richiesta di braccia da lavoro e dove grandi estensioni di terre risultavano incolte ed abbandonate (1). Impiegatisi senza difficoltà come braccianti e mezzadri (in Sicilia come jurnateri e zappaturi) presso le grandi famiglie feudatarie italiane, questi Albanesi che preferivano risiedere nei centri rurali e che rifiutavano di lavorare come massari, diedero vita ad un fenomeno migratorio assai ampio e articolato. Sulla base delle attestazioni archivistiche, la loro presenza è stata rilevata su oltre un centinaio di casali dell’Italia centro-orientale, da nord a sud, daPescara sino a Porto San Giorgio e da est verso ovest, dalle coste adriatiche sino all’area immediatamente precedente l’Appennino umbro-marchigiano. Questi Albanesi in poco tempo furono assorbiti lasciando della loro presenza solo scarne notizie, per lo più le stesse contenute negli atti notarili con i quali stringevano i loro rapporti di lavoro e di piccolo com mercio (2). Diversa e ben più consistente fu la florida colonia di Albanesi che si stabilì a Venezia e nei territori governati dalla Serenissima (3) dove numerosi emigrati trovarono ospitalità e un ambiente culturale che permise loro di esprimere un importante e originale contributo di opere e di idee nell’ambito del Rinascimento europeo (4). Il fenomeno migratorio, scaturito essenzialmente da cause contingenti e di ordine economico e culturale, non solo non produsse particolari effetti né sul piano della politica di colonizzazione interna delle aree interessate né, in senso lato, su quello della politica internazionale, ma neppure può essere considerato come un’anticipazione del ben più considerevole flusso che pochi decenni più tardi, comunque intorno alla fine della prima metà del sec. XV, avrebbe coinvolto quasi tutte le regioni meridionali italiane.
Le prime ragguardevoli ondate migratorie, com’è noto, si ebbero durante e dopo il periodo dominato dalla figura di Giorgio Kastriota Skanderbeg (1404 - 1468), il principe albanese che per oltre un quarto di secolo si oppose con le armi all’invasione ottomana. Piuttosto incerte sono le date in cui si svilupparono le ondate migratorie albanesi verso l’Italia. Sfogliando i numerosi saggi che trattano delle origini storiche delle comunità albanesi in Italia, non si può trascurare di notare le diverse e, talvolta, persino contraddittorie ipotesi che riguardano le cause, il numero e la successione cronologica delle varie fasi migratorie. Pur trascurando di entrare nel merito di queste ipotesi e pur dando per acquisito il fatto che le emigrazioni albanesi quattromaggio, Maometto re dei Turchi, secondo di questo nome, prese Costantinopoli e poi la città di Durazzo e il Peloponneso, e allora passarono in Sicilia molte colonie di Greci. Questi fondarono molti villaggi, che ancor oggi si chiamano Casali dei Greci. Ai miei tem-cinquecentesche in Italia si registrarono prima e dopo il 1468 (anno della morte di Skanderbeg), è necessario rilevare che alla base di questi flussi migratori vi sono state cause contingenti che non possono essere generalizzate bensì valutate con molta cautela caso per caso, regione per regione. Al fine di non aggravare l’épineuse question chronologique (5) costituita dalle fasi migratorie, ci si limita a distinguere quelle precedenti il 1468 che si verificarono prevalentemente in seguito a spostamenti militari, da quelle successive, queste ultime caratterizzate dalle fughe massicce della popolazione albanese insidiata dall’invasione turca.
Tre sarebbero stati gli spostamenti di Albanesi in Italia prima del 1468. Il primo passaggio di Albanesi in Italia si sarebbe registrato tra il 1440 e il 1448 quando Alfonso V d’Aragona, impegnato ancora nel consolidamento del proprio potere, fu costretto a chiedere l’aiuto del Kastriota per respingere gli attacchi degli Angioini e per reprimere le ribellioni di alcuni baroni calabresi alleati dei suoi storici nemici. In quella circostanza sarebbero giunte in Italia tre squadre di soldati albanesi guidate da Demetrio Reres e i suoi due figli, Giorgio e Basilio, ben presto divenute protagoniste di violenti scontri militari che avrebbero visto sconfitti e umiliati i nemici di Alfonso. Il Magnanimo, in segno di amicizia e quale ricompensa per tale aiuto, avrebbe offerto a Demetrio il governatorato della Calabria e avrebbe chiesto a Giorgio di spostarsi in Sicilia con le sue truppe allo scopo di presidiarne le coste occidentali da eventuali in cursioni angioine. In Calabria i soldati di Reres avrebbero fondato le più antiche colonie albanesi in Italia, tutte dislocate nel territorio del Catanzarese. Giunti in Sicilia nel 1448, gli Albanesi, tutti soldati e mercenari, si sarebbero insediati prima nell’antica fortezza di Bizir, presso Mazara e poi, dopo successivi spostamenti verso Oriente, nei pressi del castello abbandonato di Calatamauro, infine nei vicini feudi di Contessa Entellina dove si sarebbero fermati per alcuni decenni sino a quando, in seguito a dissidi interni, alcuni decisero di abbandonare il luogo per unirsi agli altri gruppi albanesi fermatisi in Calabria o per rientrare in Albania. Dello stesso gruppo che fondò, o meglio, ripopolò Contessanella prima metà del ‘400, facevano parte anche gli Albanesi che si trasferirono in quello stesso periodo a Mezzoiuso e a Palazzo Adriano, anch’essi antichi casali abbandonati e spopolati (6).Dopo la morte di Alfonso (1458), salì sul trono di Napoli il fi glio illegittimo del Magnanimo, Ferdinando, mentre la Sicilia passò nelle mani del fratello di Alfonso, Giovanni d’Aragona. Ferdinando, costretto dalle ribellioni dei baroni fedeli alla casa d’Angiò che reclamavano diritti sul suo Regno, chiese aiuto a Skanderbeg. Una prima spedizione albanese in Italia si ebbe nel 1460 con l’arrivo di Giovanni Stresa Balsha, nipote di Skanderbeg e di un contingente militare albanese. Sedata la rivolta, gli Albanesi rientrarono
in Patria, ma nel volgere di un anno Ferdinando rinnovò la richiesta di aiuto a Skanderbeg a causa di una nuova rivolta. Nell’agosto del 1461 fu lo stesso principe albanese, con al seguito il nipote Giovanni Balsha, a guidare le sue truppe (circa 3.000 uomini) in Italia. Dopo la rapida e definitiva sconfitta dell’esercito angioino al comando di Giacomo Piccinino e il ristabilimento dell’autorità aragonese nelle regioni meridionali, Skanderbeg volle fugare le preoccupazioni della casa aragonese circa il ripetersi di nuovi eventuali attacchi angioini. A tal fi ne, secondo la testimonianza recata dal Barlezio (7), Skanderbeg, prima di abbandonare l’Italia, inviò in Calabria 500 cavalieri con a capo il nipote Giovanni nel duplice scopo di inseguire i nemici sconfitti e di presidiare la regione che maggiormente aveva contribuito alle ribellioni angioine. Fu in questa circostanza che sorsero nuovi insediamenti albanesi in Puglia, precisamente in Capitanata, nella Albania Tarantina e in Molise (8). Il terzo ed ultimo passaggio di Albanesi si ebbe in Sicilia nel 1467, alcuni mesi dopo il viaggio in Italia compiuto dal Kastriota (gennaio-marzo1467) impegnato a raccogliere fondi per la sua guerra contro i Turchi. Quell’anno un gruppo di nobili albanesi consanguinei dello Skanderbeg chiesero ed ottennero da Giovanni d’Aragona di potersi stabilire con le proprie famiglie nelle colonie già esistenti nell’Isola. Documentano questo spostamento due distinte suppliche dell’8 e del 18 ottobre 1467 dei nobili albanesi Pravatà, Gropa, Cuccia, Manes e delle loro famiglie e le relative risposte con le quali il sovrano riconosceva le prerogative e i privilegi concessi precedentemente a Skanderbeg per l’amicizia e la fedeltà da lui dimostrate nei riguardi della corona aragonese. Questi “nobili” albanesi si sarebbero poi effettivamente insediati nelle comunità arbëreshe di Sicilia distribuendosi a Contessa Entellina, Palazzo Adriano e Mezzoiuso. Ben diverse e, di certo, ben più consistenti furono le ondate migratorie che spinsero gli Albanesi ad abbandonare la loro Patria dopo la morte di Skanderbeg. In accordo alla attuale conoscenza è estremamente difficile poter dar conto con dovizia di particolari giacché è fin troppo lacunosa la documentazione in nostro possesso delle modalità in cui si realizzò la massiccia diaspora cui diedero vita, tra la fi ne del ‘400 e sino alla prima metà del ‘500, le migliaia di fuggiaschi che cercarono riparo nelle vicine coste italiane. Non v’è dubbio che con l’incalzare della penetrazione dell’esercito turco in Albania e, più in generale, nei Balcani, le popolazioni d’oltre Adriatico abbiano reputato più vantaggiosa la fuga dalla Patria piuttosto che subire un drammatico asservimento ai nuovi dominatori. Di ciò sono una testimonianza eccezionale le accorate parole che ancora oggi destano qualche emozione, forse perché attualissime, con le quali Papa Paolo II descrisse a Filippo Duca di Borgogna le scene di disperazione e di terrore cui si assisteva nelle spiagge dell’Italia meridionale (9). All’esodo massiccio degli Albanesi orfani di Skanderbeg si collegano le fondazioni di un consistente numero di casali nelle varie regioni italiane, soprattutto in Calabria e in Sicilia, quasi tutti sorti nell’ultimo quarto del secolo XV.
Il flusso migratorio non si fermò ma proseguì ininterrottamente coll’espandersi dell’invasione turca sicché, sin dagli albori del XVI secolo, nuovi gruppi di esuli abbandonarono le coste balcaniche dell’Adriatico per trovare riparo in Italia. Questa nuova ondata, tuttavia, ebbe caratteristiche diverse dalla precedente giacché la maggior parte di profughi proveniva dalle città del Peloponneso cadute nelle mani della Sublime Porta. Dal 1517 al 1532-34 diversi furono gli esodi che spinsero molte famiglie albanesi, da tempo insediatesi in Grecia, ad emigrare in Italia. Molto più numerosi furono, tuttavia, i profughi trasportati in Italia dalle navi di Carlo V dopo essersiimbarcati a Corone e a Modone, in procinto di essere espugnate dall’esercito turco. Di ciò reca notizia lo storico siciliano Tommaso Fazzello che nel 1566 scriveva nell’anno di nostra salute 1453, il 29 di pi, quando l’imperatore Carlo V espugnò la città di Corone e poco tempo dopo la lasciò ai Turchi, tutti i Greci che la abitavano, tra sferirono le loro dimore in Sicilia (10). In realtà, gli Albanesi “coronei” ai quali la tradizione riconosce il merito di aver dato un forte impulso alla conservazione della identità etnico-linguistica e religiosa degli Arbëreshë, si distribuirono in molte altre comunità albanesi d’Italia, soprattutto in Calabria, in Basilicata e, come si è detto, in Sicilia.
Nei decenni successivi il fl usso continuò ininterrotto anche se non ebbe più le caratteristiche di un esodo vero e proprio. Da varie fonti d’archivio, infatti, si hanno notizie di spostamenti, sia in Sicilia che in Calabria, di sparsi gruppi di Albanesi che, lungo il XVII secolo, abbandonavano la Patria con le loro famiglie nella speranza di inserirsi nelle comunità ricostituite in Italia dai loro connazionali. Soltanto nella prima metà del secolo XVIII si registrò un altro consistente movimento di popolazione, precisamente nel 1744, quando un folto gruppo di Albanesi decise di insediarsi in Villa Badessa, in provincia di Pescara, unanimemente considerata, dal punto di vista cronologico, come l’ultima comunità albanese di storico insediamento.
Benché siano state diverse le cause che determinarono le fasi della venuta degli Albanesi e altrettanto diversi i modi in cui si realizzò la loro permanenza in Italia, non v’è dubbio che il loro inserimento nelle regioni meridionali italiane si spiega anche con le difficili condizioni economiche e sociali che queste ultime vivevano in quel frangente storico. Attraversate da una crisi di vaste proporzioni (forte crisi demografica, calo della produzione agraria, abbandono delle campagne e dei centri rurali medievali, richieste fi scali sempre più esose), molte regioni meridionali italiane avviarono un processo di profonda ristrutturazione del tessuto e economico e produttivo dando vita al lungo periodo delle colonizzazioni interne ovvero a quella politica di ripopolamento delle campagne che, tra i secoli XV e XVII, portò la società e l’economia meridionale ad una radicale trasformazione dei propri equilibri interni. È un dato ormai certo per gli storici il fatto che ad inaugurare la colonisations de fiefs abandonnés (11) contribuirono in maniera considerevole i numerosi gruppi di Albanesi che attraversarono l’Adriatico. In Sicilia si calcola che su una dozzina circa di nuovi insediamenti
prima del 1550, ben otto erano colonie albanesi. Analoga la situazione in Calabria che, fiaccata dalle lotte tra Aragonesi e Angioini, alimentate dalla cupidigia dei baroni irrequieti e ribelli, nell’ultimo quarto del sec. XV… presentava vivi segni della decadenza civile ed economica (12) e che registra un’inversione di tendenza soltanto dopo l’innesto nel tessuto sociale ed economico calabrese delle numerose braccia di lavoro albanesi. Significativi sono anche gli insediamenti albanesi in Puglia che, favoriti dalla esenzione fiscale della durata decennale accordata dalle autorità napoletane (13), interessarono alcune aree nel Tarantino che formarono la cosiddetta Albania Tarantina (Salentina, seconda altri), quasi una sorta di entità territoriale omogenea per lingua, tradizione, costumi e fede religiosa (14), in tutto identica a quelle che altrove in Italia avrebbero riscosso maggiore fortuna nei secoli successivi. Gli insediamenti di questi nuovi coloni furono generalmente preceduti dalla emissione della regolare autorizzazione (licentia populandi) e dalla successiva stipula dei consueti capitoli di fondazione, veri e propri atti notarili che stabilivano diritti e doveri dei contraenti (15) e
che oggi costituiscono una documentazione assai importante al fine di valutare appieno le reali condizioni economiche e sociali nelle quali nacquero e si svilupparono i nuovi insediamenti umani quattro-cinquecenteschi.
Un altro dato ormai acquisito dalla storiografi a contemporanea riguarda la forte tendenza alla “mobilità” delle popolazioni albanesi immigrate che, in Calabria come in Sicilia e in altre regioni, si trasferivano da una comunità all’altra dando vita a processi migratori interni, casuali o organizzati, di cui oggi non è sempre agevole misurare l’entità e il tipo di effetti. Da questi spostamenti spesso nacquero nuove comunità che, pur non potendo essere ricollegate direttamente alle emigrazioni dall’Albania, si configurano comunque come una conseguenza diretta della politica di colonizzazione perseguita dalle Autorità delle regioni meridionali italiane.

Non è infi ne da trascurare il fatto che molti degli insediamenti albanesi non furono in realtà delle “fondazioni” vere e proprie, bensì delle “ri-fondazioni” di vecchi e abbandonati casali medioevali che grazie al ripopolamento furono reinseriti nei circuiti produttivi determinando da un lato, una ripresa economica delle aree interne fortemente depresse e, dall’altro, la formazione di ambienti culturali omogenei che si istinguevano dagli agglomerati umani circostanti circostanti per lingua, rito religioso, tradizioni e costumi. A tal proposito è opportuno accennare ad un aspetto assai importante che caratterizza molti insediamenti arbëreshë. Si tratta delle caratteristiche assunte dall’ubicazione dei nuovi casali in zone impervie, sovente montagnose e in gran parte spiegabili con l’assenza di un progetto urbanistico predeterminato (16).
Non sempre i rapporti fra i nuovi immigrati albanesi e gli abitanti “indigeni” si svilupparono all’insegna del reciproco rispetto ed, anzi, quando si verifi carono casi di coabitazione nel medesimo casale, spesso nacquero dissidi che investirono e travolsero i già precari equilibri sociali interni. Il più grave danno fu arrecato al rito greco - bizantino, seguito dagli emigrati albanesi, a causa dei continui attacchi che esso subì e ai tentativi, ispirati alla politica contro - riformistica del ‘500, di avviare la “latinizzazione” delle comunità religiose arbëreshe. Si cercò così di estirpare dal Meridione d’Italia ogni superstite traccia della giurisdizione episcopale ortodossa e con il “Breve Romanus Pontifex” del 1564, il papa Pio IV sottopose dette comunità ai vescovi latini e Benedetto XIV, nel 1572, emanò la “Etsi Pastoralis” che sanciva il principio della preminenza del rito latino sul rito greco (17). Non in tutte le regioni d’Italia che ospitarono le comunità albanesi, la Chiesa locale perseguì politiche coercitive. Nel corso del Cinquecento il rito greco-bizantino e con esso la parlata arbëreshe di Piana degli Albanesi, ad esempio, fu sottoposto ad una sorta di tutela dalla Autorità religiosa di Monreale (18). Al contrario, molte comunità albanesi - specie nel Molise, in Puglia e, in parte, in Basilicata e in Calabria - furono … costrette o per mancanza di sacerdoti o per i metodi coercitivi dei vescovi latini o dei baroni locali, ad abbandonare il rito religioso originario e a sottomettersi alla chiesa latina. Ma la maggior parte di esse riuscì a resistere a queste pressioni e a mantenere, assieme alla lingua, il rito greco, importante strumento di autoidentifi cazione di queste comunità (19). A questo dato storico incontrovertibile, si accompagna la tenace resistenza opposta in oltre cinque secoli alle diffi cili condizioni costituite dalla discontinuità territoriale e dalla forte pressione omologatrice esercitata nel corso dei secoli dalle culture dominanti. In particolare, laddove si sono potuti preservare i caratteri originari che hanno loro conferito omogeneità culturale, ad un tempo antropologica e linguistica, le comunità albanesi d’Italia hanno saputo trasmettere il più vivo attaccamento alla propria identità culturale. Di ciò ne è prova il fatto che proprio nelle aree più solidali e omogenee, è il caso delle comunità che esistono sul territorio del Parco del Pollino e, pur in misura minore, delle comunità albanesi di Sicilia, l’attaccamento alle tradizioni, alla lingua e al rito greco-bizantino ha rappresentato e tuttora rappresenta il sostegno principale della sopravvivenza dell’antica dimensione culturale impiantatasi in Italia a partire dal XV secolo.Un fenomeno che ha interessato profondamente la minoranza albanese in Italia è stato quello dell’emigrazione con lo spostamento di numerose famiglie fuori dagli ambiti territoriali di storico insediamento. Si tratta di un fenomeno che, pur nella varietà dei casi della sua evoluzione, si è manifestato in tempi e modi diversi riconducibili a tre distinte tipologie:
a) l’emigrazione verso i vicini centri urbani, in genere capoluoghi di provincia;
b) l’emigrazione con destinazioni extraeuropee;
c) l’emigrazione verso centri urbani localizzati in aree lontane dagli originari storici insediamenti, in genere verso il nord Italia e i paesi dell’Europa settentrionale.
Una ricostruzione di questo fenomeno migratorio, acutamente definitocome “la diaspora nella diaspora”, non è di difficile approccio anche perché o si tratta di vicende legate ai normali e consueti spostamenti dovuti all’attrazione nelle grandi città di gruppi più o meno consistenti di popolazione rurale oppure si tratta dei signifi cativi esodi che hanno interessato la realtà meridionale, prima, tra la fi ne dell’Ottocento e i primi del Novecento e, poi, dopo il secondo confl itto mondiale.
Il tipo (a) è certamente il più antico. Centri quali Palermo, Cosenza, Bari, Lecce, Brindisi, Napoli sono abitati, già lungo il XVI secolo, da famiglie albanesi che, prima in modo sporadico poi più intensamente ma mai in maniera massiccia, decisero di spostare lì la propria residenza perlopiù per ragioni economiche. In ragione di questa presenza, in molte di quelle città sono sorte chiese di rito greco-bizantino o, per lo meno, ne sono state destinate alcune. Così a Palermo, a Cosenza e a Lecce. Questi gruppi familiari hanno mantenuto, in genere, rapporti con la comunità di provenienza sia per la cura dei propri interessi economici sia per le relazioni familiari che ancora resistevano pur nel susseguirsi delle generazioni. Un analogo spostamento, ma di minore entità e qualità, si è registrato verso i centri urbani rurali non albanesi viciniori. Tuttavia, in questo caso, le famiglie o i singoli sono stati immediatamente assorbiti lasciando traccia di sé soltantonella tradizione onomasiologica. Il fenomeno migratorio verso le vicine città capoluogo di provincia è stato molto più consistente e, soprattutto,continuo nel tempo. Palermo, ad esempio, anche in forza degli spostamenti di popolazione avvenuti in tempi più recenti, conta circa 30.000 albanofoni senza contare quelli che pur tradendo la loro origine albanese, non conservano più la memoria né della propria identità linguistica né di quella culturale e religiosa.Il tipo (b) ha coinciso con le massicce emigrazioni verso i paesi transoceanici,
in particolare verso l’America del Nord (Stati Uniti e Canada), registratesi nell’ultimo decennio del secolo XIX e nel primo del successivo. Per quantità e qualità è questa la prima grande “diaspora” degli Italoalbanesi i quali, sospinti da ragioni economiche (e in qualche caso da ragioni  politiche) scelsero la via della “speranza” trasferendosi quasi defi nitivamente in paesi lontanissimi con la consapevolezza che, molto probabilmente, non avrebbero fatto più ritorno nella comunità d’origine. Le comunità di Italoalbanesi della prima e della seconda generazione hanno mantenuto un ideale attaccamento con la comunità d’origine e, al pari degli emigrati siciliani o calabresi o veneti oppure degli emigrati provenienti dall’Europa centro-orientale, hanno dato vita ad associazioni culturali e a società di mutuo soccorso che esprimevano, oltre alla solidarietà di gruppo, anche il bisogno di mantenere la memoria della propria identità sia etnico-culturale che linguistica. Ancora oggi, tra gli Arbëreshë d’America della terza generazione si ritrovano albanofoni la cui competenza linguistica costituisce un’attestazione di straordinaria vitalità e un documento di grande interesse e importanza per gli studi sociolinguistici e dialettologici. Il tipo (c) si configura come un fenomeno migratorio recente (se non recentissimo) molto consistente nel numero e piuttosto signifi cativo dal punto di vista qualitativo. Gli spostamenti verso le cinture industriali dell’Italia nord-occidentale risalgono agli anni ’50 e ’60 del Novecento. Interessarono molte famiglie arbëreshe e, più in generale, meridionali che costituirono la grande forza lavoro del cosiddetto “miracolo economico” dell’Italia postbellica. Di analoga importanza socio-economica ma di minore entità è stato il fenomeno migratorio arbëresh che interessò, suppergiù nello stesso periodo, le regioni europee centrali e settentrionali (Svizzera, Francia, Belgio, Germania) dove gruppi familiari si dislocarono attorno alle grandi città industriali e nei pressi delle celebri (e tragiche) miniere. Sia nell’uno che nell’altro caso, i gruppi di immigrati hanno mantenuto vive le memorie culturali e religiose e la competenza linguistica le quali si sono affi evolite soltanto nelle generazioni più giovani a causa dell’attrazione fatale determinata dall’assimilazione agli standard di vita e di organizzazione sociale dell’Italia del nord e dell’Europa. Tuttavia, benché manchino ancora oggi dati precisi sulla consistenza numerica degli albanofoni residenti in queste aree, è lodevole e degno di attenzione il loro impegno teso alla salvaguardia delle proprie tradizioni culturali e linguistiche.
Appendice

La legge 482 Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, approvata il 15 dicembre 1999 e promulgata il 20 dicembre dello stesso anno, ha posto e tuttora pone alcuni problemi relativamente alla applicazione di alcuni meccanismi attivati dal dispositivo legislativo. Premessi l’affermazione di principio relativa al fatto che “la lingua ufficiale della Repubblica è l’italiano” (art. 1), il richiamo alle disposizioni della carta costituzionale, in particolare all’art. 6, l’individuazione “delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il francoprovenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo” le cui lingue e culture vengono ammesse a tutela (art. 2), il legislatore italiano, al fi ne di pervenire alla individuazione degli ambiti territoriali, comunali e subcomunali, dove deve trovare applicazione la 482, affida il compito della delimitazione territoriale ai consigli provinciali ovvero alla richiesta del 15% dei cittadini iscritti alle liste elettorali oppure ad un terzo dei consiglieri comunali dei comuni in cui risiedono le popolazioni sottoposte a tutela (art. 3 cc. 1). Il successivo comma 2 dell’art. 3 prevede anche l’uso dell’istituto del referendum in quei comuni in cui esista comunque una minoranza linguistica. La delimitazione territoriale è stata in effetti raggiunta attraverso la procedura affi data ai consigli provinciali e, allo stato attuale delle nostre informazioni, in nessun caso si è fatto ricorso alle procedure subordinate, giacché il riconoscimento dei caratteri di “minoranza linguistica” sono ben espliciti là dove si è in presenza di gruppi umani alloglotti di storico insediamento nel territorio nazionale. Per ciò che riguarda la minoranza albanese, tale riconoscimento giuridico si è realizzato compiutamente trattandosi di una minoranza la cui presenza in Italia si registra da oltre cinque secoli.
In particolare alla questione posta circa il diritto alla tutela rivendicato dalle comunità minoritarie sorte in seguito alle emigrazioni “interne” al territorio nazionale, non è un problema di facile soluzione o, per lo meno, non lo è se si considera in astratto la nozione di “tutela” la quale secondo la giurisprudenza, dovrebbe essere accordata agli individui e non alle comunità. In realtà la legge n. 482 recide tale nodo nel momento in cui fissa nel concetto di “ambito territoriale” l’applicazione dell’articolato che contiene le norm e di tutela e per “ambito territoriale” non si intende semplicemente e meramente quell’area geografi ca più o meno vasta in cui vivono gruppi più o meno consistenti di appartenenti a una delle dodici minoranze riconosciute, quanto quel territorio che è stato storicamente antropizzato dai gruppi alloglotti.
Già la definizione di ambito storico sarebbe discriminante ai fi ni della defi nizione della questione perché una presenza umana è tale, cioè storicamente presente in un territorio, se ha contribuito alla storia culturale, linguistica, religiosa, antropologica, sociale di quel territorio. Alla luce dello studio della presenza di gruppi alloglotti di seconda emigrazione nel territorio nazionale, non risulta che tale presenza si sia intrecciata - in quanto tale, cioè in quanto gruppo minoritario - con la storia delle comunità autoctone. Di certo non hanno potuto esprimere quella differenziazione che, invece, è ben chiara nelle comunità alloglotte d’origine le cui popolazioni sono avvertite come “altre” e “diverse” dalle popolazioni autoctone. Ma, qualora ciò non fosse suffi ciente, è l’assenza di una marcata, evidente e incontrovertibile assenza di antropizzazione del territorio da parte delle minoranze alloglotte che ne pregiudica il riconoscimento giuridico. Nelle aree albanofone dell’Italia meridionale, ad esempio, l’organizzazione urbana è decisiva al mantenimento delle strutture sociali, culturali, religiose e persino linguistiche. Lo è in relazione a ciò che quelle comunità riconoscono nella storica urbanizzazione dei loro centri e negli arredi strutturali che le connotano (chiese, palazzi, edifi ci pubblici e privati, fontane, vie, toponomastica, ecc.) e lo è in relazione allo storico intervento sul territorio extraurbano (toponomastica,centri agricoli, ecc.). L’universo antropizzato del territorio costituisce per la comunità alloglotta e per la comunità autoctona un segno di netta e inconfondibile “diversità” che non può, ragionevolmente, essere trasferita altrove. Se a ciò si aggiunge che all’interno delle comunità alloglotte e del territorio da questa abitato la lingua dominante è di fatto la lingua minoritaria e che questa è tale soltanto all’esterno, è ovvio concludere che se una tutela di questa lingua deve essere esercitata, non si può prescindere di delimitarne l’ambito territoriale di applicazione laddove esso può essere inteso quale ambito territoriale storicamente antropizzato.
Ben altro tipo di riconoscimento spetta ai gruppi minoritari dislocati in ambiti territoriali storicamente non interessati dalla loro presenza. In questo caso si tratta di un diritto inalienabile dell’individuo che, attualmente, può essere soddisfatto soltanto attraverso la sensibilità culturale e civile degli organismi locali (comuni, provincie e regioni) che hanno a cuore i destini dei propri cittadini.



.(1) Bresc H., Pour une histoire des Albanais en Sicile XIV-XV siècles, in Archivio Storico Siciliano,
LXVIII, 1972, pp. 527 e segg.
(2) Ducellier A., Doumerc B., Imhaus B., de Miceli J., Les chemins de l’exile. Bouleversements de l’Est
européen et migrations vers l’Ouest à la fi n du Moyen Âge, Armand Colin Éditeur, Paris, 1992, pp. 225 e segg.
(3) Ducellier A., Les Albanais à Venise aux XIVe XVe siècles, in L’Albanie entre Byzance et Venise, Londres, 1987.
4 Altimari F., Profi li storico–letterari in Altimari F., Bolognari M., Carrozza P., L’esilio della parola. La minoranza linguistica albanese in Italia: profi li storico-letterari, antropologici e giuridico–istituzionali, Ets editrice, Pisa, 1986, p. 1. Molmenti P.,
(5) Ducellier A., Doumerc B., Imhaus B., de Miceli J., Les chemins de l’exile, ... pp. 400 e segg.
(6) Schirò G., Canti tradizionali ed altri saggi delle colonie albanesi di Sicilia, Napoli, 1923 (r. a. Piana-Palermo, 1986), pp. XX e XLVI.
(7) Barleti M., Historia e Skënderbeut (tr. dall’originale Historia de vita et gestis Scanderbegi, Epirotarum principis di Stefan I. Prifti), Tiranë, 1983, p. 525.
(8) Di Lena M., Incontri e scontri tra Arbëreshë e Italiani nel Molise, in Etnia albanese e minoranze
linguistiche in Italia, Atti del IX Congresso Internazionale di Studi Albanesi (a cura di Antonino Guzzetta), Palermo, 1983, pp. 109-112.(9) Gli Albanesi, parte sono sterminati dal ferro, parte ridotti in servitù. Le città, le quali per noi avevano resistito all’impeto dei Turchi, sono cadute in loro potere. Le genti che popolano le vicine rive dell’Adriatico, atterrite dall’imminente pericolo, tremano. Dovunque altro non si vede che timore, spavento, morte e prigionia. È miserando udire quanto sia grande la generale commozione. È lacrimevole vedere le navi dei fuggitivi riparare ai porti d’Italia, trascinando quelle famiglie meschine che, sedute sui lidi, tendono le mani al cielo, riempiendo l’aria con le loro suppliche in una lingua incomprensibile; Rodotà P.P., Dell’origine,..., p. 30, nota (a) (la traduzione dal latino in Faraco G.,(10) Fazzello T., Storia di Sicilia (tr. dall’originale De rebus Siculis decades duo di A. De Rosalia e G. Nuzzo), Palermo, 1990, v. I, p. 111-112.
Gli Albanesi d’Italia, in Bernardi U. (a cura di), Le mille culture. Comunità locali e partecipazione politica, Coines Edizioni, Roma, 1976, p. 196.
(11) Klapisch-Zuber Ch., Day J., Villagese désertés en Italie. Esquisse, in Villages désertés et histoire économique XI-XVIII siècles, S.E.V.P.E.N., Paris, 1965, p. 454.
(12) De Leo P., Condizioni economico - sociali degli albanesi in Calabria tra XV e XVI secolo, in miscellanea di studi storici, Università degli Studi della Calabria, Brenner, Cosenza, 1981, p. 124.
(13) Tomai-Pitinca E., Comunità albanesi nel Tarentino sec. XVI (Premessa per un discorso di natura
ecclesiale), Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata, n. s., (1981),
(14) Tomai-Pitinca E., Istituzioni ecclesiastiche dell’Albania Tarantina, Università degli Studi di Lecce, Saggi e ricerche 16, Congedo editore, Galatina, 1984, pp. 12-13.
(15) Non di tutti i nuovi insediamenti albanesi in Italia sono stati pubblicati i Capitoli. Quelli degli Arbëreshë di Sicilia sono stati raccolti da La Mantia G., I capitoli delle colonie Greco-Albanesi di Sicilia dei secoli XV e XVI, Palermo, 1904. Quelli di San Demetrio Corone, Frascineto, Firmo, San Basile, Santa Sofia da Cassiano D., Le comunità Arbresh nella Calabria del XV secolo, Edizioni Brenner, Cosenza, 1977, pp. 74-97. Quelli di Spezzano Albanese da Serra A., Spezzano Albanese nelle vicende storiche sue e dell’Italia (1470-1945), Edizioni Trimograf, Spezzano Albanese, 1987, pp. 104 e segg. 
(16) In Sicilia, ad esempio, la (ri-)costruzione dei paesi che ospitarono gli Arbëreshë non ricevette alcuna regolamentazione urbanistica ma seguì l’aspra morfologia del terreno roccioso. Ciò consentì agli Arbëreshë di non adeguarsi alle direttive delle autorità ecclesiastiche o baronali che invece si rivelarono molto pressanti nei nuovi insediamenti siciliani, fortemente condizionati dalla politica di  colonizzazione seicentesca. In questi, i coloni che decidevano di trasferirvisi con la propria famiglia, trovavano già rappresentati nei principali edifi ci pubblici il potere politico, quello religioso, quello economico, quello sociale e persino quello urbanistico. Si trattava di un ordine prestabilito che implicita mente sottolineava il carattere raccogliticcio dei nuovi coloni, la loro fragilità culturale e la loro conseguente sottomissione al potere locale. Per gli Arbëre shë siciliani, al contrario, esisteva, oltre ad una comune origine, una solida omogeneità sociale e culturale che iniziò a manifestarsi sin dal momento crucia le dell’edifi cazione del paese con la rapida costruzione delle chiese dei rito greco - bizantino e l’edificazione delle prime infrastrutture (il fondaco, la macelleria, l’ospedale, il carcere, l’edifi cio comunale, i mulini).
(17) Altimari F., Profili storico-letterari … p. 5.
(18) Numerosi documenti d’archivio rivelano l’interesse nutrito da Ludovico I Torres e dal nipote Ludovico II per il mantenimento del rito greco-bizantino in Piana. A Ludovico II va riconosciuto il merito di aver sostenuto il lavoro di traduzione in albanese della Dottrina cristiana eseguito da Luca Matranga nel 1592; Mandalà M., Jeta dhe vepra e Lekë Matrangës sipas të dhënave të reja arkivore dhe bibliografi ke, in Studime fi lologjike (in corso di stampa), Tiranë, 2000.
(19) Altimari F., Profili storico-letterari … p. 5.

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