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giovedì 15 ottobre 2009

Gli arbreshe giunti in Sicilia trovarono l'arbitraria legge baronale. Ma in Albania col crollo di Costantinopoli nasce il Kanun

La tradizione giuridica dell’Albania costituisce un patrimonio interessante e originale, tuttavia poco esplorato, poco conosciuto e completamente sacrificato dalla logica del regime dittatoriale che ha segnato la vita dell’Albania nella seconda metà del Novecento[1].
L’insieme delle leggi consuetudinarie è comunemente noto come Kanun, termine che sembra derivare dal greco κανών. Il Kanun era l’antico codice consuetudinario che per secoli ha governato la vita degli albanesi, costituiva la loro tradizione orale, osservata fino ai primi del secolo, quando sono entrati in vigore i codici penale e civile. Si ritiene che i principi contenuti in questo codice consuetudinario abbiano regolato anche la vita di quegli albanesi emigrati in Italia tra il XV e il XVIII secolo, entrando a far parte del loro patrimonio culturale, anche se gli albanesi emigrati dovettero adeguarsi ai sistemi giuridici feudali dell’Italia meridionale.
Il Kanun rappresenta la consuetudine che è stata acquisita dal popolo albanese come norma, da ciò consegue la scelta di trattare il Kanun non come “legge” ma come “raccolta di tradizioni”. La sua diffusione su tutto il territorio dimostra che esso è portatore di valori generali, perciò pur essendo “raccolta di tradizioni” va considerato come “codice consuetudinario”. L’applicazione del Kanun non è più in vigore in Albania; ci sono vendette di sangue secondo il rituale in esso contenuto che sembrano scontri e violenze dovute ad una transazione troppo rapida e poco organizzata, durante la quale lo stato albanese si sta dotando di raffinati strumenti normativi, ma non si è ancora dotato di strumenti adeguati a far rispettare le leggi che promulga. Questo stato di confusione fa ritenere che le norme kanunarie siano ancora in funzione, ma non è così, esse conservano oggi un valore puramente ermeneutico documentario[2].
Dal punto di vista delle regole che disciplinano la convivenza sociale contestualmente al comportamento personale, il Kanun costituisce un’importante testimonianza e un patrimonio normativo, che contiene un’originale concezione giuridica, sociale e morale. Il Kanun è l’insieme dei principi, delle istituzioni, delle norme tradizionali, che gli albanesi hanno costruito con tenacia e intelligenza nel corso del tempo per dare al popolo una legge stabile, che rispondesse alle caratteristiche morali e tradizionali ed alle necessità storiche di esistenza. Ciò ha consentito di sviluppare un senso sociale e un sistema giuridico indipendente dal diritto imposto dai dominatori, sopravvivendo alla lunga dominazione Ottomana. Il fatto stesso della sopravvivenza giuridica di questo codice, che certamente non può essere accettato nella sua interezza, in ogni sua previsione, costituisce la riaffermazione dell’alto valore che queste regole hanno avuto per il popolo albanese. Il Kanun è una sorta di codice delle comunità albanesi, distribuite su un territorio più vasto di quello dell’attuale Albania, e abitato dai vari fis cioè dalle grandi famiglie gentilizie unite a formare grandi comunità legate dal vincolo della solidarietà. In quanto tale era soggetto, nell’applicazione concreta a forme diverse di attuazione, che tuttavia non potevano contrastare con i principi giuridici generali e fondamentali.
La tradizione popolare ha individuato una serie di legislatori o codificatori locali, sottolineando l’importanza e la consistenza delle leggi particolari, per cui esistono vari Kanun albanesi, ma quello di Lek Dukagjini costituisce il complesso di norme più importante e soprattutto più diffuso. La tradizione ritiene che una prima opera di codificazione fosse stata realizzata dal principe Alessandro Dukagjini, detto Lek, intorno alla metà del 1400, epoca durante la quale egli visse[3]. Alcuni sostengono che a questa paternità sia riconducibile il nome stesso del Kanun. Lek fu personaggio storico, morto probabilmente nel 1479, ma lo si può considerare soprattutto come un semieroe della tradizione albanese. Talvolta ostile, talaltra amico di Scanderbeg, partecipò alla rinascita del sentimento nazionale albanese e fu parte attiva nella lotta del suo popolo contro i turchi, fino a diventare simbolo di fierezza, ma anche grande legislatore. L’epopea fiorita su quell’epoca leggendaria della storia albanese, riferisce che Lek fu persino scomunicato da Paolo II nel 1464, a causa di questo codice che porta il suo nome, in quanto sembrava allora che questo fosse poco ispirato alla fede cristiana, mentre paradossalmente ancora oggi il Kanun è conosciuto e rispettato in Albania per essere “la parola di Dio”. Il Kanun è stata la legge, il modo di vivere del popolo albanese e la sua tradizione giuridica. La raccolta attribuita a Dukagjini è quindi tradizione orale e perciò soggetta ad alterazioni, diventa codice quando venne trascritta da Stefano Costantino Gjecov, padre della provincia francescana di Scutari, a partire dal 1912, pubblicando parti della raccolta, fino a che, dopo la sua morte, i padri della provincia francescana d’Albania ebbero la possibilità di riunire i suoi appunti e pubblicare nel 1933 l’opera postuma, nella integrità nella quale noi la conosciamo. Gjecov deve essere considerato come il vero legislatore della tradizione giuridica delle montagne d’Albania. Almeno altri tre Kanun però esistono sicuramente e tramandati nel tempo. Nella memoria orale degli abitanti della regione di Puka è rimasto un Kanun, detto appunto di Puka; nel Mat e nel Mirdite, a nord di Tirana, si ricorda il Kanun di Skanderbeu. L’esistenza di un Kanun di Scanderbeg era già stata affermata sia da Villari che da Padre Valentini, quest’ultimo può essere considerato il più autorevole ricercatore nel campo delle consuetudini giuridiche albanesi. Un Kanun esiste anche nella regione Laberia, a sud di Valona e al confine con la Grecia, ma sicuramente ne esistono altri.
Il testo attribuito a Gjecov è diviso in libri, i libri in articoli e commi. Ciò gli conferisce l’aspetto di un vero e proprio codice. In realtà, una inspiegabile divisione per capi interferisce con articoli e commi, norme di natura penalistica intersecano quelle di natura civilistica, a volte, alcune norme sono in contrasto fra loro, mentre articoli relativi ad argomenti pertinenti fra loro, sono separati e collocati insieme ad altri articoli secondo una logica che sembra essere dettata più dalla prassi. I libri di cui è composto sono 12, dedicati ai più svariati argomenti della vita pubblica e privata. Riguardano la Chiesa, la Famiglia, il Matrimonio, la Casa il Bestiame e i Poderi, il Lavoro, Prestazioni Donazioni, la Parola, l’Onore, i Danni, i Delitti infamanti, il Codice giudiziario, Privilegi ed Esenzioni. La garanzia di questo complesso di diritti-doveri fondamentali era assicurata dall’esercizio delle virtù come il coraggio (trimnija), la saggezza (urtija), la costanza (burrnija). Nel Kanun di Lek Dukagjini sono descritti atteggiamenti positivi come l’esaltazione di quelle azioni che esprimono coraggio, l’elevazione a rango di fede della parola data (besa), il rispetto per l’ospite, ma contiene anche atteggiamenti negativi, per esempio costringe a contrapporsi violentemente, a farsi giustizia da sé, ad offendere chi arreca l’offesa, a rivalersi sugli altri e a mettere in pratica le minacce. E’ questo lo spirito della vendetta, per cui il concetto di onore impresso nel Kanun assume una duplice funzione: da una parte si presenta come norma sociale generale su cui è iscritta la società, dall’altra si presenta come precetto individuale, imponendo la violenza. Un esempio sono le norme che si riferiscono all’ospitalità, infatti per il Kanun l’ospite era tanto sacro, che se qualcuno chiedeva l’ospitalità bisognava accordargliela, perché “la casa dell’albanese è di Dio e dell’ospite”, anche se quest’ultimo fosse stato l’assassino del proprio figlio; è per questo, che la donna poteva essere uccisa dal marito se tradiva l’ospite. Secondo la legge dell’ospitalità, chi ospitava doveva proteggere la vita e i beni di tutti quelli che si trovavano sotto il suo tetto. Se qualcuno veniva ucciso mentre era ospite in una casa, il capofamiglia di quella casa doveva vendicarlo, e se qualcuno commetteva delle infrazioni mentre era ospite, era colui che lo ospitava ad essere responsabile. Sembra che il codice dell’ospitalità vada piuttosto iscritto in una dimensione di reciprocità, la cui mancanza metterebbe in crisi l’intero sistema organizzativo. Dare ospitalità e protezione ad uno sconosciuto rappresentava la garanzia di essere ospitati e protetti, per cui inospitalità rappresentava un disonore e metteva in pericolo la coesione sociale.
La fusione delle regole positive e negative, descrivono un certo tipo di uomo che si caratterizza come “uomo d’onore” già noto nel mediterraneo; e l’uomo albanese è un uomo d’onore, per il quale, la pena per la violazione della norma sta non tanto nel tipo di pene previste nel Kanun, quanto nella riprovazione da parte della collettività, che si manifesta con la perdita dell’onore, “di fronte alla legge il disonorato è considerato persona morta”, ciò perché “l’onore è considerato patrimonio personale, né alcuno con vie giudiziarie può impedire il risarcimento dell’onore. L’onore sulla fronte c’è stato posto dal sommo Iddio”. Il valoroso si fa giustizia da sé, senza far appello alla giustizia. Strettamente legato all’istituto dell’onore era quello della vendetta, per cui nella tradizione giuridica albanese esisteva l’istituto giuridico secondo cui ogni uccisione doveva essere risarcita con altro sangue. Il capofamiglia o l’assemblea dei parenti maschi, affidava a un membro della famiglia il compito di vendicare l’onore. Questi, visto che nella vendetta non c’era nulla di cui vergognarsi, lo avrebbe fatto in pubblico, uccidendo, anche a distanza di anni, un maschio della famiglia che aveva versato sangue del suo sangue. Quando l’onore era stato vendicato uccidendo il colpevole, l’uccisore doveva partecipare al funerale dell’ucciso e al banchetto funebre. Dopo di che ci sarebbe stata una tregua di 24 ore, durante la quale, la famiglia dell’omicida ottenuta la tregua, avrebbe dovuto comportarsi con molta prudenza, astenendosi dal recar qualsiasi noia o disturbo alla famiglia dell’ucciso, e non mostrandosi orgogliosa o superba. A porre fine alla vendetta era la riconciliazione ad opera di intermediari, che discutevano con le due famiglie fino a trovare un accordo, sancito da libagioni, brindisi e patti di fratellanza.
La violazione di una norma si rivela per essere, non tanto un reato, quanto un’infamia, un disonore, che impone la legge della vendetta. Il Kanun ammette il ricorso al giuramento liberatorio, art.88, per cui non si ha luogo al processo, mentre nell’art.7, relativo alla natura della pena inflitta a chi abbia commesso una colpa, è esplicato il carattere retributivo e non vendicativo della pena, intesa come “male inflitto da un’autorità legittimamente costituita”. L’ambiguità contenuta nel Kanun è dipesa dal fatto che esso è costituito da norme che si sono adattate nel tempo ed hanno aderito alle necessità imposte dalle circostanze. L’ambiguità più forte deriva dal fatto che in esso sono contemplati due modelli di risoluzione dei conflitti fra loro contrapposti, la vendetta, che implica il sacrificio della comunità, e la violenza legittima, amministrata dai giudici e basata sulla norma, collocandosi perciò a metà fra la società basata sul sacrificio e l’amministrazione della giustizia centralizzata nello Stato.
Nel Kanun non esiste un principio di sostanziale eguaglianza, basti pensare alla posizione della donna, che secondo la legge non aveva personalità giuridica, perciò il Kanun descrive un tipo di società basata sull’organizzazione ineguale del potere, rappresentativo ma piramidale e soprattutto basata su un patriarcalismo di ceto che la colloca al di fuori della tradizione giuridica formale di tipo romanistica, che si basa sull’eguaglianza dei soggetti di fronte alla legge.

Un aspetto del tutto peculiare trattato nel Kanun è il rapporto tra Stato e Chiesa[4], dei quali si riconoscevano la legittimità delle competenze e dei poteri di sovranità, non configgenti con lo stesso Kanun. La Chiesa era sottoposta all’autorità del Capo della Religione e non alle leggi del codice[5]. Il codice da un lato non poteva imporre alcun obbligo alla Chiesa, dall’altro doveva difenderla, qundo essa chiedeva il suo aiuto. La Chiesa non poteva punire con pene temporali, per cui a chi oltraggiava la Chiesa, la multa era inflitta dalla parrocchia. In particolare per quel che riguardava la Chiesa e le sue leggi, il Kanun consentiva di riconoscere in linea di principio, l’esistenza di peculiari esigenze della coscienza religiosa, tipiche del cristianesimo, che non contrastavano con la tradizione, e ciò consentì di procedere ad una evangelizzazione, orientata all’assunzione di valori e principi morali del Kanun. Si poté realizzare una sorta di unione disciplinare tra leggi canoniche e Kanun, con special riguardo a quegli istituti, come il matrimonio, dove ciò poteva essere possibile. Quanto ad altri istituti, come ad esempio la vendetta, essi risultavano molto radicati nella coscienza popolare, in quanto assunti come atti identificativi dell’esistenza albanese, per cui molte furono le difficoltà incontrate nella eliminazione di comportamenti contrastanti con la legge cristiana.

2.2 Esperienza giuridica romana.


Il diritto romano, a causa del suo sviluppo nei secoli, non si presenta in un assetto unico, ma può essere suddiviso in quattro periodi: periodo arcaico, VIII-IV sec. a.C., caratterizzato dalla civitas quiritaria; periodo preclassico, IV sec. a.C. I sec. d.C., caratterizzato dalla repubblica nazionale; periodo classico, I- III sec. d.C., caratterizzato dalla fase della repubblica universale o dal Principatus; periodo postclassico, IV-VI sec. D.C., caratterizzato dall’Imperium assolutistico.
L’esperienza giuridica romana conosceva la dicotomia del diritto privato e pubblico[6], che risaliva ad Ulpiano, giurista vissuto tra il II e il III secolo d.C.; Ulpiano ci fornisce una celebre distinzione tra ius privatum e ius publicum, contenuta nelle sue Istituziones, e riprodotta sia nelle Istituziones di Giustiniano, che fece compilare per la gioventù interessata al diritto, cupida legum iuventus, sia nei Digesta seu Pandectae, “Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit. Privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus" . Secondo la definizione ulpianea, lo ius publicum riguardava l’assetto del populus Romanus Quiritium, nella sua organizzazione costituzionale e nel suo funzionamento legislativo, giurisprudenziale e amministrativo (quod ad statum rei Romanae spectat), lo ius privatum, riguardava il singolo individuo e la tutela dei suoi interessi.
Lo ius privatum di Ulpiano e della giurisprudenza coeva e successiva[7] altro non era che il complesso delle istituzioni giuridiche formatesi intorno alla civitas quiritaria. Soggetto dello ius privatum era il paterfamilias, con tutta la sua sfera di interessi personali ed economici cioè il patrimonium. Per cui i giuristi romani indicarono come fonti dello ius privatum tutti quei sistemi normativi quali: i Mores Maiorum dello ius Quiritum, le leges dello ius legitimum vetus e in particolare le XII tavole, l'interpretatio prudentium, lo ius legitimum novum, gli edicta dei magistrati giusdicenti, i senatus-consulta, le costitutiones principium dello ius novum, e le inveterata consuetudo.
Lo ius publicum ulpianeo quindi si differenziava dallo ius privatum, perché aveva come soggetto il populus Romanus Quiritum, in tutta la sua struttura costituzionale ed amministrativo, ed anche nelle ipotesi di difesa di interessi tipicamente privati. Bisogna dire però che la giurisprudenza romana, ponendo poca attenzione a queste materie, ha fatto si che appaiano poche individuate rispetto a quelle dello ius privatum. I rapporti tra ius privatum e ius publicum invece furono caratterizzati dalla prevalenza del secondo sul primo, per l'ovvio motivo che l'interesse della collettività doveva essere al di sopra di tutto. Per cui i privati non potevano interferire nei regolamenti pubblicistici per modificarli o abrogarli, cioè lo ius publicum non poteva essere modificato dagli accordi dei privati (ius publicum privatorum pactis mutari non potest). Viceversa lo ius publicum, espresso nei provvedimenti normativi o ordinativi quali: leges publicae, edicta e decreta magistatuum, costitutiones principium, poteva interferire nei regolamenti privatistici. Altra distinzione fu formulata da Gaio nelle sue Institutiones, egli partiva dal presupposto che il diritto era proprio dei soli esseri umani, e distingueva due tipi di normative giuridiche: quelle proprie e caratteristiche di ogni singolo populus, costituenti lo ius civile di ciascuno di essi; quelle dettate a tutti i popoli civili, costituenti lo ius gentium, che ogni singolo poteva liberamente derogare, ma che in mancanza di speciali ragioni di deroga, doveva trovare diretta applicazione presso tutti i popoli. Gaio denominò talvolta lo ius gentium come ius naturale, senza differenziare tra loro i due concetti ergo ex his, quae diximus, adparet, quaedam naturali iure alienari, qualia santea, quae traditione alienatur, quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis et usucapionis ius proprium est civium romanorum. Nec tamen ea tantum, quae traditione nostra fiunt, naturalis nobis ratione ad quiruntur, sed etiam rell.
A partire dal secolo II d.C., per ius privatum civile fu inteso l'insieme dei principi privatistici che caratterizzavano il solo ordinamento giuridico romano, applicabile ai soli cives Romani, ma eccezionalmente poteva essere applicato anche ai peregrini, e quindi sottoposto al regime proprio dello ius gentium. Il nucleo essenziale dello ius civile in senso sistematico fu lo ius civile vetus, di cui ne facevano parte anche i praecepta dello ius honorarium o dello ius novum. Lo ius privatum, nel suo assetto classico, comprendeva la distinzione tra rapporti assoluti e rapporti relativi. I rapporti assoluti si distinguevano in rapporti in senso proprio e in senso improprio. I primi comprendevano i rapporti familiari, parafamiliari e dominicali. I rapporti assoluti familiari assicuravano al pater familias l'autorità della patria potestas sui filii ed ulteriori discendenti da unioni matrimoniali; la potestas sui liberi in mancipio, cioè su alcune persone libere, ma prive di legame di parentela con lui, ed assoggettate per altre ragioni; la manus maritalis sulle donne provenienti da altre famiglie, che erano entrate come sottoposte nella famiglia del padre. I rapporti parafamiliari erano connessi al mancipium quiritario, ma in età classica avevano solo una parvenza di rapporti potestativi, oggetto ne erano gli individui sui iuris cioè soggetti giuridici a pieno titolo, ma per ragioni di età o di altre minorazioni varie, erano considerati incapaci di agire e sottoposti ad un tutor (degli impuberi o delle donne) o ad un curator (dei pazzi, degli scialacquatori del patrimonio familiare). I rapporti dominicali riguardavano l'utilizzazione e l'impiego da parte del soggetto giuridico (pater familias o mulier sui iuris) dei beni economici. I rapporti assoluti in senso improprio erano costituiti da un certo numero di iura in re aliena cioè diritti assoluti attribuiti a un soggetto giuridico su una res di cui fosse dominus un altro soggetto, e si dividevano in rapporti reali di godimento e rapporti reali di garanzia. I primi assicuravano al soggetto attivo il godimento di alcune delle facoltà giuridiche comprese nel domnium, sottraendole alla disponibilità del dominus, ed erano: le servitù prediali, che comportavano il diritto del dominus di un fondo di utilizzare il fondo di un dominus vicino; usufrutto, che comportava il diritto di un soggetto di utilizzare temporaneamente una res fruttifera in proprietà di un altro soggetto, allo scopo di utilizzarla e trarne dei frutti; superficie, che comportava il diritto di un soggetto di utilizzare un suolo altrui per costruirvi un edificio proprio; enfiteusi, che comportava il diritto di un soggetto di utilizzare a lungo termine un fondo altrui per coltivarlo e migliorarlo, con l'obbligo di pagare un canone al concedente. I rapporti reali di garanzia assicuravano al soggetto attivo la possibilità di rivalersi, del mancato adempimento di un'obbligazione, direttamente su una res del debitore o di un garante, vendendola a terzi e soddisfacendosi sul ricavato, ed erano: il pignus datum, per cui il creditore otteneva sin dall'inizio il possesso materiale della cosa pignorata; l'hypotheca, per cui la res rimaneva nella disponibilità materiale del concedente ( debitore o terzo garante) vincolata però alle conseguenze dell'inadempimento.
I rapporti relativi invece erano di debito o di responsabilità. I rapporti di debito consistevano sempre in comportamenti di dare, facere o non facere, cui il soggetto passivo (obligatus, debitor) era tenuto nei confronti del soggetto attivo (creditor), perciò furono denominate obbligazioni che si differenziavano in: obbligationes contractae, che erano costituite da un negozio formulato da uno o due soggetti, che poteva essere orale, scritto, o poteva consistere nella dazione di una cosa; obbligationes ex contractae, che erano costituite da un contratto a carattere puramente formale; obbligationes non contractae, che derivavano da atti giuridici leciti ma che non erano considerate tipiche. I rapporti relativi di responsabilità erano distinti in: rapporti di responsabilità primaria, detti anche obbligationes ex delicto, che derivavano da un atto illecito lesivo della libertà di un privato o di un diritto assoluto; rapporti di responsabilità secondaria derivavano dall'inadempimento ingiustificato di un rapporto relativo, cioè di un obbligatio.
Anche tra le fonti del diritto romano può essere annoverata la consuetudine, ma questo solo con i giuristi dell'età Adrianea a cominciare da Giuliano. La parificazione delle consuetudines ai Mores Maiorum, purché conformi alle leggi vigenti, si profilò vagamente nella scuola postclassica, mentre in età classica la formazione di consuetudini posteriori ai Mores Maiorum, fu ostacolata prima dall'intervento delle Leges Publicae, poi dagli editti giurisprudenziali dei magistrati e dalle costituzioni dei principi, che dovevano disciplinare quelle situazioni sociali largamente diffuse, che non ancora avevano avuto il tempo di trasformarsi, attraverso la pratica, in consuetudini automaticamente vincolanti. In età postclassica per diritto scritto si intesero tutte le fonti giuridiche documentarie: Leges publicae, Plebiscita, Senatusconsulta, Edicta magistratuum, Costitutiones principium e gli stessi Responsa prudentium classici. Per diritto non scritto si intese quello derivante dalle consuetudini di antica data. Il diritto consuetudinario aveva però un limite, non poteva essere in contrasto con i principi dell'antico ius e con le leges imperiali, cioè non poteva modificare né iura né leges facenti parte dello ius scripto.

2.3 L'istituto della famiglia, del matrimonio, dell'eredità, secondo il Kanun e la tradizione giuridica romana.

La famiglia albanese secondo il Kanun si basava sulla famiglia allargata, la grande famiglia patriarcale, cioè era inserita attraverso una rete di obblighi reciproci, in una struttura di parentela allargata detta fis, termine che poteva equivalere alla gens romana. Il fis era composto solo da parenti paterni, mentre i parenti acquisiti per via materna, seppur riconosciuti come affini non ne facevano parte.
L'art.9 recita testualmente[8]: "La famiglia si compone delle persone di casa; più famiglie unite formano una fratellanza, più fratellanze una stirpe, più stirpi un fis, più fis una Bandiera e tutte insieme avendo una stessa origine, formano quella grande famiglia che si chiama Nazione". Nell'idea degli albanesi la catena del sangue e dei gradi di parentela si promulgava all'infinito. I gradi della discendenza del sangue provenivano dal padre, quelli dell'affinità dalla madre. I primi erano detti albero del sangue (consanguineità), i secondi albero del latte (affinità). All'interno del fis non era ammesso il matrimonio, ma si trasmettevano status e proprietà. Secondo il codice il governo della casa spettava al più anziano, oppure al primo dei fratelli, o se costoro non avessero avuto le qualità giuste per ricoprire tale ufficio, di comune accordo, veniva scelto un altro componente della famiglia. La struttura della famiglia albanese era fortemente autoritaria, perché solo il padrone di casa aveva l'autorità suprema di disporre dei guadagni dei membri della famiglia, di comprare, vendere e far cambio di terreni, di punire quando non ci si comportava come richiedeva il bene della famiglia, e di far rispettare le norme della giustizia. Il codice infatti, considerava irregolari le vendite, gli acquisti, le garanzie o qualsiasi altro contratto fatto da un membro della famiglia che non aveva chiesto il permesso al padrone di casa. Esistevano anche diritti e doveri riconosciuti agli altri membri della famiglia, come la padrona di casa che aveva il diritto di disporre di tutto ciò che era di produzione casalinga, e posta gerarchicamente al di sopra delle altre donne, si occupava dell'educazione dei figli di tutte le altre con l'obbligo di non fare alcuna distinzione, ma nello stesso tempo era sottomessa al padrone di casa e agli altri uomini. Gli altri membri della famiglia avevano il diritto di deporre il capo famiglia, se non agiva nell'interesse della famiglia stessa, o la padrona di casa, se sottraeva la roba per venderla di nascosto. Al disotto di tutti, in questa scala gerarchica, erano posti i domestici, che erano pienamente sottoposti all'autorità del padrone di casa. L'intera famiglia aveva anche dei diritti nei confronti del villaggio. Partecipava alla suddivisione delle multe applicate dal villaggio, usufruiva dei possessi comuni (pascoli, acqua, legna), mentre i doveri della famiglia verso il villaggio consistevano, nell'assunzione da parte del capo famiglia della responsabilità dei danni causati dagli altri componenti della sua famiglia, nel partecipare ai convegni del villaggio e a tutte le altre funzioni. Quindi all'interno del fis solo il capo famiglia era il rappresentante giuridico di tutta la famiglia estesa. Secondo il Kanun, gli individui che facevano parte della famiglia non avevano personalità giuridica, civile e sociale se non attraverso il capofamiglia che poteva quasi equivalere al pater familias dei romani. Questo sistema prescriveva una stretta esogamia, non soltanto per gli individui che avevano legami reali di parentela, ma anche per quelli uniti da fratellanza di sangue, cioè l'affratellarsi, che si creava col "succhiare" il sangue a vicenda, impedendo così il matrimonio tra gli affratellati, le loro famiglie e i loro parenti. Secondo il kanun, gli uomini e le donne avevano sfere sociali diverse[9], mentre gli uomini pur sottomessi all'autorità del capo famiglia, avevano propri diritti e curavano il rapporto con l'esterno, le donne erano qualcosa di superfluo in famiglia, non avevano diritto all'eredità dai loro parenti né sulla casa né sugli altri possedimenti. La donna, finché si trovava in casa del marito, era considerata come un piccolo otre, che sopportava pesi e fatiche. Non aveva diritti sociali, passava dalle mani del padre a quelle del marito che la comprava e che quindi aveva tutti i diritti su di lei, anche quello di ripudiarla, tagliandole un fiocco di lana dalla cintura o la treccia. Per il Kanun, il matrimonio[10] voleva dire formare famiglia, aggiungendo alla famiglia una persona, che oltre ad accrescere le braccia per il lavoro, moltiplicava la prole. Era considerato illegittimo il matrimonio in prova o per ratto e il concubinaggio, mentre gli impedimenti al matrimonio erano che la donna non doveva essere dello stesso sangue e parentela dello sposo o della stessa stirpe o se vi era una parentela spirituale, che poteva nascere in conseguenza di un battesimo o dall'essere compari di capelli, infatti quest'ultima parentela era paragonata allo sposalizio, perché come la sposa si recava presso i suoi parenti nei giorni fissati dalla legge, così nei suddetti giorni la comare si recava in casa del compare. Il matrimonio era preceduto dal fidanzamento, considerato in tutti i sensi un pre-matrimonio, e addirittura più importante di quest'ultimo. I rapporti tra le due famiglie, in cui si sarebbe svolto il fidanzamento e poi il matrimonio, erano presi dai mediatori, che avevano il compito di prendere accordi e di far avere il denaro ai parenti della futura sposa. L'arra del fidanzamento consisteva in un anello di rame o d'argento e in una somma di denaro, che legavano la sorte della ragazza in modo che i parenti di costei, se fossero venuti meno alla parola data, incorrevano nella vendetta del sangue da parte della famiglia dello sposo. Il fidanzamento poteva essere rotto sia dall'uomo che dalla donna, però, mentre l'uomo perdeva solo il diritto di riavere l'arra e le monete, la donna non aveva il diritto di licenziare il fidanzato, e se ciò avveniva con il consenso dei suoi parenti, non poteva sposarsi finché restava in vita il fidanzato, e rimaneva vincolata anche nel caso in cui il fidanzato si fosse sposato con un'altra donna. Se la donna rifiutava di sposare il fidanzato, i parenti di lei la consegnavano con la forza insieme ad una cartuccia. Se poi la ragazza tentava di fuggire, lo sposo poteva ucciderla usando quella cartuccia, e il sangue restava invendicato, perché la ragazza era stata uccisa con la cartuccia dei suoi parenti. Le nozze, poi, si celebravano attraverso il corteo dei paraninfi che avevano il compito di portare la sposa nella casa dello sposo. Il Kanun disciplina, nel libro dedicato al matrimonio, le leggi che riguardavano lo sposo, la morte dello sposo prima del matrimonio, che comportava la restituzione, da parte della famiglia della sposa, della metà del prezzo versato dalla famiglia dello sposo, mentre se la morte avveniva dopo tre anni dal matrimonio, i parenti della sposa non dovevano nulla ai parenti dello sposo. In caso di morte della sposa, se avveniva dopo tre anni dal matrimonio senza lasciare alcun figlio alla casa del marito, i parenti di lei avevano il diritto di riprendere le sue vesti e i valori d'argento, lasciando ai parenti del marito la cassa a chiave con un paio di vestiti. Se la sposa moriva lasciando un figlio, i suoi parenti avevano diritto alle collane in argento, tutto il resto rimaneva alla famiglia del marito. Il codice disciplina anche il divorzio cioè il licenziamento, che poteva avvenire in caso di adulterio o per tradimento dell'ospite, per queste due colpe, il marito poteva anche uccidere la moglie senza incorrere nella vendetta del sangue, mentre in caso di colpe meno gravi, la moglie era semplicemente licenziata dal marito senza usarle violenza. La divorziata nell'uscire di casa, nulla poteva prendere con sé, ad eccezione delle vesti che portava indosso, nel caso che aveva un bambino da allattare, il marito, sebbene l'avesse separata dal letto matrimoniale, aveva il dovere di trovarle un alloggio nelle vicinanze della casa per poter allattare il bambino, inoltre aveva il dovere di corrisponderle il vitto e il vestiario.
Nella tradizione giuridica romana, come in quella albanese, fondamento della famiglia era il pater familias che esercitava la sua auctoritas su tutti i sottoposti. Inizialmente, nel periodo arcaico, i gruppi familiari-gentilizi che avevano stretto della intese fra loro (foedera) erano abituati a considerarsi delle formazioni autonome[11] impersonate dal capo, il pater, il cui potere su uomini e beni del gruppo appariva all'esterno pieno e assoluto (mancipium); in base agli accordi ciascun nucleo (gens o familia) conservava però la propria autonomia ed era rappresentato dal proprio pater. Successivamente, dal mancipium quiritario del periodo arcaico si passò nel periodo classico, a quelle quattro situazioni attive della patria potestas, della potestas sui liberi in mancipio, della manus maritalis, e dell'auctoritas maritalis. Nella famiglia romana, come in quella albanese, si può notare quella struttura piramidale con al vertice il pater familias, infatti il potere (potestas) era esercitato dal pater familias, maschio, capo del gruppo familiare sulle persone che erano a lui legate da discendenza agnatizia (filii familias). Il pater familias, fra tutti i suoi poteri, aveva anche quello di disporre della vita dei propri figli (ius vitae ac necis) che consisteva nella possibilità di uccidere, se lo riteneva opportuno e necessario, i suoi figli[12]. Dato l'aspetto deplorevole del comportamento, in età classica, la giurisprudenza ritenne che il figlio non poteva essere ucciso se il padre non avesse ascoltato le sue motivazioni, e a chi comunque uccideva i propri figli, fu stabilita la pena della deportazione e della confisca dei beni. Solo in periodo postclassico, per l'influenza della religione cattolica, lo ius vitae ac necis, venne dapprima limitato e poi abolito.
Nella potestas del pater familias rientravano altri diritti, come lo ius vendendi, cioè il diritto di alienare il sottoposto mediante mancipatio ad un altro pater familias, il quale lo acquistava come liber in causa mancipii. L'acquirente poteva a sua volta vendere il sottoposto a terzi oppure poteva affrancarlo mediante manumissio, e in questo caso il figlio tornava sotto la patria potestà del genitore originario. Per limitare questa compravendita fu stabilito, dalle XII Tavole, che quando un figlio fosse stato alienato dal padre per tre volte consecutive, diventava sui iuris, non più sottoposto all'autorità del padre. Ancora il pater, esercitava sul figlio non emacipatus, che non era sui iuris, lo ius exponendi cioè il diritto di disconoscimento o di abbandono, lo ius noxae dandi cioè il diritto di consegnarlo a titolo liberatorio agli offesi, nel caso avesse commesso illeciti anche di ordine soltanto privatistici (delicta). Nella vita pubblica[13]invece, il figlio maschio era protagonista al pari del padre, e se ricopriva una magistratura il padre, che all'interno della famiglia poteva infliggergli qualsiasi umiliazione, gli doveva rispetto in pubblico. La patria potestas si estingueva non solo quando il figlio diventava sui iuris o con la morte del padre o con l'adoptio, ma anche nel caso in cui fosse diventato Flamen Dialis (sacerdote) o la figlia fosse diventata Virgo Vestalis (sacerdotessa). Nella famiglia albanese, invece, il potere e l'autorità del padre sui figli e gli altri componenti, non si estingueva, ma era considerato duraturo.
Legato sempre alla posizione pubblicistica del filius, era l'isituto del peculium castrense: il figlio aveva il potere di disporre dei proventi della militia armata, pur essendo privo di capacità giuridica e quindi d'agire, poteva donarlo mortis causa o disporne testamentariamente, cioè aveva su quel peculio maggiori poteri che su quello eventualmente concesso dal padre.
Per quanto riguardava la posizione della donna[14], era considerata soggetto giuridico limitato, mentre nei rapporti interfamiliari, godeva di grande autorità e prestigio. Nei rapporti giuridici familiari, non era considerata né proprietaria, né creditrice, né debitrice. Anche la donna albanese, essendo considerata priva di personalità giuridica, non ricopriva cariche e non aveva diritti sull'eredità, ma era pienamente sottomessa al potere del capo famiglia. La donna romana, quando non era sottoposta alla patria potestas del padre, era sotto il potere del marito, o sotto il potere spettante a un parente prossimo, o ad un gentiles, o se libertina era sotto il potere del padrone. La donna veniva considerata affetta da imbecillitas, infermitas, cioè da debolezza e instabilità di intelligenza, per cui, per il compimento di atti giuridici era necessaria la presenza del tutor mulieris , che riconosceva autorità all'atto, senza assumersi alcuna responsabilità. Fungeva da tutor o colui che esercitava il potere assorbente sulla donna, o era nominato dal marito, o nominato da un magistrato, su richiesta della donna. Questa incapacità della donna, di muoversi nel mondo del diritto, scomparve verso la fine del III sec. d.C. e gli inizi del IV sec. d.C., ma già da tempo la presenza del tutor era diventata apparente, per cui la donna si dava fittiziamente in moglie ad un vecchietto, il quale la emancipava ad un amico della stessa, che a sua volta la manometteva rendendola di nuovo sui iuris, fungendo lui stesso quale manumissor, da tutor. Il matrimonio anche per i Romani era rigorosamente monogamico, esogamico cioè che i coniugi non dovevano provenire dalla stessa famiglia agnatizia, ed era caratterizzato dal connubio, che derivava dalla concezione antica che il matrimonio era possibile solo tra persone appartenenti alla stessa comunità culturale. Nel periodo arcaico, affinché i figli della donna convivente potessero essere assunti nella potestas del suo uomo, occorreva che la donna si sottoponesse alla manus dell'uomo, che si realizzava con la coemptio che era una forma di acquisto, o con l'usus della donna per un anno continuato, successivamente si parlò anche della conferratio, che era il rito religioso che comportava sempre l'acquisto della manus sulla uxor. Queste forme di unione furono dette matrimonium cum manu. Nel periodo preclassico, per evitare che la donna perdesse i suoi diritti patrimoniali nella sua famiglia, si evitò la coemptio e la conferratio, e si aggirò la regola dell'usus allontanando ogni anno la donna per tre notti dalla casa coniugale. Questo fu detto matrimonium sine manu. Il matrimonio senza potere sulla donna si concretava in un negozio giuridico, i cui elementi erano la volontà coniugale (consensus), la forma, che era caratterizzata dall'ingresso della donna nella casa del marito, la causa, che era la costituzione di una nuova unità domestica. Con il venir meno del consensus si aveva il divorzio, che si manifestava con una dichiarazione scritta di ripudio, di solito proveniente dal marito. Unione paramatrimoniale era il concubinato, cioè la convivenza tra due persone, priva del carattere del matrimonium, che la legge De Adulteriis, riordinando tutta la materia dei rapporti extra matrimoniali qualificò come crimina. Anche per i Romani, il matrimonio era preceduto dal fidanzamento (sponsalia), che era una promessa di matrimonio, da cui in qualunque momento era lecito recedere. Erano nulli nel diritto romano classico, i patti che obbligavano i fidanzati a compiere le nozze o che stabilivano una pena in caso di scioglimento degli sponsali, e anche negli antichissimi tempi, quando l'istituto rivestiva una maggiore importanza, il fidanzamento era formato solo attraverso una semplice sponsio e non con la dazione di un oggetto o del prezzo della sposa[15]. Contrariamente al matrimonio e al fidanzamento albanese dove la donna veniva materialmente acquistata dal marito pagando dieci piastre, manca nel matrimonio romano, secondo Volterra, qualsiasi accenno ad una compera della moglie, e che la coemptio è solo una forma di acquisto della manus, che può aver luogo anche indipendentemente dal matrimonio.

L'esperienza giuridica albanese, conosceva anche l'istituto dell'eredità[16], noto ai Romani come successione.

La legge albanese riconosceva come erede solo il figlio maschio e non la figlia, escludendo il figlio illegittimo o quello nato in seconde nozze dalla madre. L'eredità spettava quindi solo al discendente del cespite o del sangue e non a quello di latte o delle figlie. La donna non ereditava né dai suoi parenti né dal marito, per impedire che: i suoi figli andassero ad insediarsi nella casa dello zio privo di eredi; che i parenti della donna si impossessassero dell'eredità del marito che moriva, senza lasciare figli o discendenti; che la stirpe di una Bandiera si mescolasse con quella di un'altra Bandiera.
Se si estingueva la discendenza mascolina di una famiglia, né le figlie, né i loro figli, avevano diritto all'eredità. La legge riconosceva a chi restava orfano il diritto all'eredità nel momento in cui, compiuti 15 anni d'età, era libero da ogni tutela e cosciente delle proprie azioni. Nel caso in cui si estingueva la famiglia e non vi erano discendenti diretti, veniva considerato come legittimo erede il cugino più prossimo che apparteneva al fis dell'estinto. Nell'istituto della successione albanese, il padre, che aveva figli maschi non poteva fare testamento, in quanto il testamento poteva essere fatto solo in favore della Chiesa. Per fare il testamento, in favore della Chiesa, erano necessari dei requisiti: essere sano di mente, essere libero dal fare lasciti, non essere intimorito da qualsiasi genere di minaccia. Esistevano due forme di testamento: lasciti con obblighi, quando il testamentario imponeva delle condizioni alla Chiesa; lasciti senza obblighi, quando il testamentario lasciava alla Chiesa alcuni possessi senza imporre condizioni, in tal caso il lascito equivaleva ad una donazione o promessa, che se non mantenuta rappresentava un disonore nei confronti della comunità. Il testamento veniva fatto alla presenza dei congiunti, dei Vegliardi (saggi del villaggio) e dei testimoni, e consisteva nel firmare la carta testamentaria. Il padre, finché in vita, era libero di donare alle figlie soldi, suppellettili e simili, morto il padre, le figlie non potevano pretendere i doni promessi in vita dal padre, perché, in questo caso, sarebbero entrate in possesso dei beni come eredi, e la legge escludeva le donne e le figlie dall'eredità.

Nell'esperienza giuridica romana, con il termine eredità o hereditas, si indicava il complesso di beni trasmissibili dopo la morte del soggetto. Dapprima l'hereditas fu limitata ai soli oggetti della famiglia del defunto, poi fu estesa alla pecunia cioè alle res nec mancipi, successivamente, nell'hereditas furono incluse anche le obbligazioni gravanti sul pater familias morto. Si distingueva nell'hereditas: una successione legittima, regolata dalla legge (vocatio ab intestato); una successione testamentaria (vocatio ex testamento); una successione necessaria (vocatio contra testamentum); La vocatio ab intestato, nel sistema romano[17], si presentava come sostitutiva della vocatio ex testamento, e aveva luogo nei rari casi in cui mancava il testamento, si basava su vincoli gentilizi e non di sangue. La donna romana, a differenza di quella albanese, partecipava all'eredità, succedendo nella stessa linea dei discendenti maschi. Per i Romani, il testamento è il più antico negozio giuridico, il quale, anche nell'evoluzione del diritto romano, ha sempre conservato, nelle sue linee essenziali, l'originaria struttura, imprimendo a tutto il sistema successorio romano un carattere proprio[18]. Nell'epoca classica, infatti, si presentava come un atto assai complesso, che poteva contenere sia disposizioni patrimoniali, sia disposizioni extrapatrimoniali, ma comunque seguivano l'atto fondamentale del testamento: la nomina dell'erede, senza la quale il testamento non esisteva. La caratteristica del sistema successorio romano è data dal fatto che il pater familias era libero di designare chi voleva, non essendo legato dalla presenza dei figli o dei congiunti, mentre nel sistema albanese, come si è detto, il testamento era utilizzato solo per fare lasciti alla Chiesa, e la successione aveva luogo solo all'interno della famiglia.

2.4 L’istituto della compra-vendita nella tradizione giuridica albanese e nella tradizione giuridica romana.

La compra-vendita era considerata per il Kanun una forma di commercio, che poteva avvenire incondizionatamente, o condizionatamente, in presenza di testimoni, o per mezzo della caparra[19]. La caparra era considerata una forma di anticipo in moneta, prima che la cosa acquistata era materialmente presa dal compratore. La caparra una volta presa, non poteva essere restituita più e vincolava le parti. Se il compratore si pentiva dell’acquisto, perdeva la caparra; se il venditore invece, cedeva la cosa ad un altro compratore, l’atto era considerato illegale. In giudizio poi i giudici, costringevano il venditore a riprendere la cosa venduta e a darla al primo compratore che aveva già dato la caparra. Se il venditore negava di aver ricevuto la caparra e il compratore non aveva testimoni, la legge obbligava il venditore a giurare. Se il venditore giurava, il compratore perdeva automaticamente la caparra, in quanto il codice considerava il giuramento come un mezzo per liberarsi da un’accusa o imputazione. Se l’acquisto era condizionato ma la cosa risultava difettosa, veniva restituita al padrone, se invece la cosa acquistata risultava rubata, veniva restituita al venditore che, dopo averla restituita al legittimo proprietario, doveva restituire al compratore la moneta presa.
Nella vendita di un terreno[20], dovevano essere avvisati i parenti, la fratellanza e la stirpe del venditore, qualora questi se ne disinteressavano, il padrone era libero di vendere il terreno a chi avesse voluto. Il codice stabiliva questo sistema per assicurare che la proprietà restasse sempre a persone appartenenti allo stesso villaggio, ed evitare così l’inserimento di gente estranea al villaggio. La vendita era considerata, perciò, illegale se avveniva senza aver avvisato i parenti, la fratellanza, la stirpe, il confinante. Questi avevano infatti il diritto di far annullare la vendita. Il compratore in questo caso, doveva restituire il terreno; la vendita era considerata ugualmente illegale e annullata, anche se al momento dell’acquisto, il venditore avesse garantito la legalità dell’atto. Se il terreno era venduto con la condizione che non fosse rivenduto ad altri, non poteva essere alienato se prima non era riofferto al primo venditore; per questo il compratore non poteva rivenderlo ad altri se prima non lo avesse offerto al primo venditore. Se il terreno era venduto senza condizioni, chi lo comprava era libero di venderlo a chi avesse voluto. Dopo aver stipulato il contratto, si usava che chi comprava offriva da bere l’acquavite.
Il codice antico disciplinava anche il pagamento in natura[21], usato al posto della moneta. Questa forma di pagamento era utilizzata anche in caso di multe, danni e sangue cioè in caso di omicidio; il codice più recente, prevedeva che in caso di omicidio il pagamento poteva avvenire anche con le armi.
Nella tradizione giuridica romana, la compra-vendita (emptio venditio) in origine era reale[22], consisteva cioè nello scambio della cosa contro il prezzo, ma che ben presto fu concepito come un contratto consensuale tra venditore (venditor) e compratore (emptor) in base al quale nascevano: l’obbligo[23] del venditor di procurare all’emptor la piena disponibilità di una cosa fino a quando non ne avesse acquistato la proprietà; l’obbligo dell’emptor di far avere al venditor la somma di denaro (pretium).
Mentre nel Kanun la compra-vendita è disciplinata in maniera pratica per dare delle regole di comportamento alle popolazioni delle montagne, nell’esperienza romana è considerata come un vero e proprio contratto i cui elementi erano il consenso delle parti e la causa, cioè realizzare lo scambio corrispettivo della merce e del prezzo versato.
Oggetto di vendita potevano essere cose mobili o immobili, o i complessi patrimoniali (hereditas, o i bona del fallito). Era anche ammessa la compra-vendita di cosa altrui (Ulpiano D. 18. 1. 28: Res alienam distrahere quem posse nulla dubitatio est: nam emptio est et venditio : sed res emptori auferri potest.) o la compra-vendita di cosa futura ( Pomponio D. 18. 1. 8: Nec emptio nec venditio sine re veneat potest intellegi et tamen fructus et partus futuri recte ementur ut, cum editus esset partus, iam tunc, cum contractum esset negotium, venditio facta intellegatur: se si id egerit venditor, ne nascatur aut fiant, ex empto agi posse) o la compra-vendita di cose di genere, salvo che se ne specificasse in contratto l’appartenenza ad un ambito determinato (Gaio D. 18. 1. 35. 7: …si ex doleario pars vini venierit, veluti metretae centum, verissimum est quod et constare videtur antequam admetiatur, omne periculumad venditorem pertinere). Il prezzo era costituito da denaro contante doveva essere corrispondente al valore della merce, effettivo cioè non simulato, e certo cioè determinato in una cifra esatta. Anche nel diritto romano, vi era la caparra o arra, istituto derivante dal diritto greco. Fu utilizzata a scopo di prova, cioè una delle due parti dava all’altra una cosa di pregio o una somma di denaro, allo scopo di rendere evidente l’avvenuta conclusione del contratto e le obbligazioni reciprocamente assunte. Nell’esperienza albanese invece, come si è detto, la caparra era un mezzo di impegno alla vendita e all’acquisto, nell’esperienza romana l’impegno al reciproco acquisto era dato dalla fattispecie contrattuale.

2.5 I delitti infamanti e il sistema giudiziario penale previsto nel Kanun. Cenni sull'evoluzione romana del sistema giudiziario penale.

Il Kanun tra le varie norme, conteneva alcune, che possono oggi definirsi come la parte più immediatamente penalistica del codice. Tra i delitti considerati particolarmente gravi[24], vi erano il furto e il tradimento dell'ospite, perché mettevano in pericolo l'equilibrio della società che si basava sul concetto di onore elevato al rango di fede, che poteva spingere anche a conseguenze estreme come l'uso della violenza per punire coloro che avevano commesso tali azioni, anche se il più delle volte di fronte a tali reati, la pena comminata dalla comunità era la multa. Il Kanun regola, però, soprattutto la vendetta che è provocata dall'omicidio di una persona. Colui che commetteva un omicidio doveva avvisare la famiglia dell'ucciso per chiedere una tregua, che era il periodo di tempo concesso dalla famiglia che aveva subito la perdita e durante la quale essa dava la parola o meglio garantiva di non uccidere a sua volta il colpevole. Il Kanun considerava la tregua come un dovere, degno degli uomini forti. Chi uccideva un individuo era soggetto ad una multa di sei borse in moneta, cento montoni e mezzo bove, mentre il prezzo della ferita valeva metà della pena. Se l'uccisione di un individuo avveniva nel suo villaggio, l'omicida doveva fuggire dal paese con tutti i maschi di casa per evitare il pericolo di essere uccisi. Erano esclusi dalla vendetta del sangue le donne e il sacerdote. Secondo il codice antico, soltanto l'omicida cadeva nella vendetta del sangue, mentre il codice posteriore abbracciava nella vendetta del sangue o del taglione, tutti i maschi della famiglia dell'omicida, anche se in fasce. La vendetta del sangue poteva realizzarsi entro le prime 24 ore dall'avvenuta uccisione, spirate che erano le 24 ore, la famiglia dell'ucciso doveva dare la garanzia della tregua. Il Kanun riconosceva legittimo l'uso della violenza distruttiva perché accettava l'idea dell'omicidio risarcitorio "testa per testa, o sangue per sangue". Strettamente legato ai delitti era il sistema giudiziario[25], che ci mostra come il potere nelle montagne albanesi era organizzato in maniera gerarchica e piramidale, perché basato sulla concezione stratificata della società. La funzione di giudice era svolta dai Vegliardi, scelti fra i più anziani della fratellanza o fra i capi delle stirpi, la loro parola era la base del diritto. Senza di loro non poteva essere fatta nessuna nuova legge, né alcuna causa. La funzione di Vegliardo poteva essere svolta anche da coloro che avevano una lunga esperienza nel giudicare e deliberare. La carica di Vegliardo poteva essere ereditaria o elettiva, in quest'ultimo caso erano detti "strapleq", che svolgevano cause di secondo ordine. Le questioni più gravi erano svolte sia dai Vegliardi che dai Capi della Bandiera che non potevano decidere né multare senza l'assistenza dei Vegliardi e Sottovegliardi del villaggio del colpevole. Il giudizio aveva inizio dopo che le parti contendenti erano state avvisate e avevano consegnato il pegno d'arbitraggio chiamato "pegno di consenso e di sottomissione". Il giudizio fatto senza pegno era nullo. Le parti, infatti una volta consegnato il pegno, non potevano ritirarlo più. Le spese del giudizio erano a carico dei contendenti, ed erano stabilite in base alla gravità della causa. I Vegliardi prima di iniziare il giudizio avevano il dovere di fare un giuramento su un oggetto sacro: "Per questa cosa sacra, che vigilerà su di me e sul mio comportamento, giuro che non giudicherò con ripieghi e con parzialità e, fin dove mi detterà la mente e la coscienza non farò torto alla legge e alla giustizia". Se i querelanti non ritenevano giusta la sentenza era prevista una forma di appello, che permetteva di far giudicare la causa da altri Vegliardi. Se i nuovi Vegliardi ritenevano ingiusta la sentenza fatta dai primi, prendevano da costoro i pegni dei querelanti, e i primi giudici, oltre a perdere il diritto di essere pagati dai querelanti, erano obbligati a pagare i nuovi Vegliardi. I Vegliardi potevano essere sostituiti fino a tre volte, dopodiché, la causa doveva essere devoluta ai Capi e infine alla casa di Gjomarkai, considerata la base del codice. Al di là di quella casa non si ammetteva appello. Il codice chiamava "Porote" o "Poronike" quelle persone designate dai giudici come Giurati, affinché giurassero in favore di un imputato per liberarlo dall'accusa. I Giurati dovevano avere dei requisiti: essere persone che non avessero mai giurato falsamente, che non fossero in astio né contro quelli che accettavano il giuramento (parti in causa) né contro quelli che giuravano, che non fossero venali, che non fossero donne perché escluse dalla legge. I Giurati non giuravano prima dell'imputato. La giuria aveva il diritto di fare tutte le indagini e di esaminare l'imputato prima di giurare per evitare un giuramento falso, se invece la causa risultava troppo complessa, le indagini potevano essere rinviate fino a sei mesi o a volte anche per anni. Se i Giurati, riunitisi, partecipavano al convito detto del giuramento, e offerto dall'accusato, l'imputato era automaticamente riconosciuto innocente e ai Giurati non restava che giurare, mentre al contrario se i Giurati si astenevano dal mangiare, l'imputato era considerato colpevole. Nel giorno fissato per il giuramento, questo era fatto secondo un ordine stabilito, giurava per primo l'imputato poi i suoi parenti, seguivano i giurati scelti dai giudici ed in ultimo quelli scelti dall'imputato. Altre figure importanti nel processo erano, il Delatore cioè colui che basandosi su indagini fatte manifestava il reato di qualcuno, e i giudici del Delatore, che svolgevano d'ufficio un'inchiesta sulle affermazioni del delatore stesso. Il codice disciplinava le pene da applicare in base alla gravità del reato[26]:
- l'incendio della casa del reo;
- la distruzione del raccolto;
- l'esilio della famiglia;
- la fucilazione;

Va aggiunto che nei casi più gravi si applicava la distruzione totale della casa e l'allontanamento definitivo del reo e della sua famiglia dal villaggio. Tali pene si infliggevano a colui il quale calunniava, percuoteva o uccideva il parroco, uccideva l'ospite a tradimento, uccideva per vendetta uno qualunque della fratellanza, uccideva e nascondeva il delitto, uccideva durante il periodo di tregua, dava ospitalità ai delinquenti della Bandiera.
Un mezzo pratico per evitare il processo era il giuramento liberatorio, con il quale l'imputato si purificava dalle sue colpe toccando con mano un oggetto sacro e invocando il nome di Dio a testimonianza della verità[27].
Anche nella primitiva esperienza giuridica romana, nella repressione dei crimini raramente la comunità interveniva perché restava devoluta alla reazione degli offesi, talora temperata dalla legge del taglione e dalla consuetudine del riscatto. Soltanto in casi particolari, nei quali il fatto criminoso appariva come infrazione alla pax deorum, alla reazione di pace e di amicizia che doveva sussistere tra la civitas e suoi dei, lo "stato" interveniva per ristabilire l'ordine turbato. E poiché della pace con gli dei era naturale custode il rex, a lui spettava l'applicazione di idonee sanzioni di natura religiosa nei confronti di chi, con il suo comportamento aveva causato l'esposizione dell'intero gruppo alla collera divina. Ampie tracce di un sistema punitivo fondato sull'espiazione sacrale sono contenute nelle Leges regiae che rappresentano le fonti più antiche del diritto criminale romano. Tali leggi non configurano un sistema organico di norme e lasciano ampio margine da un lato alla libera coercizione del monarca, dall'altro alla persecuzione privata del gruppo offeso: generalmente prescrivono o vietano il compimento di atti, enunciando le sanzioni di carattere sacrale a cui il trasgressore si espone, o regolano l'esercizio della vendetta da parte di chi è ad essa legittimato dal costume[28]. Il passaggio graduale dall'autotutela alla vera e propria tutela statale[29], cioè dalla difesa del diritto operata direttamente dal soggetto leso alla difesa operata dagli organi statali di giurisdizione, si ebbe dopo il transito dall'età classica a quella postclassica. L'azione esercitata contro il delinquente era qualificata come actio poenalis[30] spettante al soggetto leso e la pena era essenzialmente legata all'autore dell'illecito, tutto ciò era garantito da organi giudiziari statali che esercitavano una giurisdizione extra ordinem.

2.6 Conclusioni.

Un raffronto tra la tradizione giuridica albanese e la tradizione giuridica romana è poco sostenibile, perché la prima è caratterizzata da un diritto consuetudinario, cioè da un insieme di leggi tramandate oralmente, volte a disciplinare tutti gli aspetti della vita delle genti delle montagne, che per secoli sono rimaste isolate, chiuse nel loro mondo, mentre la tradizione giuridica romana, che ha radici antichissime, non rimanendo isolata ha potuto evolversi, fino a diventare una base fondamentale per lo studio del diritto, e la lingua giuridica del mondo civile.
Gli istituti privatistici romani hanno infatti una struttura e delle caratteristiche proprie inconfondibili con quelli disciplinati dal Kanun. Una certa affinità tra diritto romano e Kanun, è riscontrabile solo nell’organizzazione della famiglia, perché in entrambi si parla di una famiglia a struttura piramidale, i cui membri non hanno una loro personalità civile, giuridica e sociale se non attraverso il capofamiglia o pater familias. In entrambi i diritti, il capofamiglia ha il potere assoluto sia sugli individui sia sulle cose (res), basti pensare al fatto che aveva anche il potere di vita e di morte sui figli. Per ciò che riguarda, invece, la posizione della donna, mentre nel Kanun è considerata qualcosa di superfluo, priva di diritti sociali sia all’interno che all’esterno della famiglia, che viene materialmente acquistata dal marito, la donna romana pur essendo considerata soggetto giuridico limitato nei rapporti strettamente giuridici, nei rapporti interfamiliari gode di grande autorità e prestigio.
Tutti gli istituti giuridici disciplinati perciò dal Kanun devono essere considerati come regole di vita pratica per dare al popolo albanese una legge stabile, mentre quelli disciplinati dal diritto romano rappresentano vere e proprie norme scritte, che sono diventate il fondamento dei moderni istituti giuridici.

[1] Gaetano Dammaco, Società Shqipetare, Kanun ed esperienza giuridica, in Pane sale e cuore

di Emmanuela Del Re, Frank Gustincich, Editrice Argo 1993, pp. 21-22.

[2] Kanun, basi morali e giuridiche della società albanese, trad. di Padre Paolo Dodaj, intr. e cura

di Patrizia Resta, Besa editrice, Lecce 1996, pp. 13-14.

[3] Kanun op. cit., pp. 15-23.

[4] Gaetano Dammaco, op. cit., p. 22.

[5] La Chiesa, in Kanun op. cit. , pp. 27-31.

[6] V. Giuffrè, Il diritto dei privati nell’esperienza romana, Jovene editore 1993, cap. II, pp. 11-

13.

[7] A. Guarino, Diritto privato Romano, nona edizione, Jovene editore Napoli 1992, pp. 151-173.

[8] La famiglia in Kanun op. cit., pp. 35-38.

[9] E. Del Re, F. Gustincich, op. cit., p. 29.

[10] Il matrimonio in Kanun op. cit., pp.41-57.

[11] Vincenzo Giuffrè, op. cit., pp. 29-30.

[12] A. Guarino, op. cit., p. 446 ss.

[13] V. Giuffrè, op. cit., pp. 341 ss.

[14] V. Giuffrè, op. cit. pp. 46-48.

[15] E. Volterra, Diritto romano e diritto orientale, ristampa, Jovene, Napoli 1983, pp. 123-124.

[16]L'eredità in Kanun op. cit., pp. 61ss.

[17] E. Volterra, op. cit., pp. 164 ss.

[18]Bonfante, Scritti giuridici vari, vol. I, p. 170.

[19] Il commercio in Kanun op. cit., pp. 91-92.

[20] La vendita del terreno in Kanun, op. cit., pp. 92-93.

[21] Il pagamento in natura in Kanun op. cit., p. 95.

[22] E. Volterra, op. cit., p. 130.

[23] A. Guarino, op. cit., p. 884 e ss. .

[24] I delitti infamanti in Kanun op. cit., pp. 119 ss.

[25] Codice giudiziario in Kanun op. cit., pp.141 ss.

[26] Kanun op. cit., pp.157-158.

[27] Il giuramento in Kanun op. cit., pp. 99-100.

[28] M. Talamanca, op. cit., pp.35-36.

[29] A. Guarino, op. cit., p. 182.

[30] A. Guarino, op. cit., pp. 975-977

(Elaborato pervenutoci- test: http://www.geocities.com/liavasi/2.htm )

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