AKADEMIA
E SHKENCAVE E SHQIPERISE
UNIVERSITETI
I TIRANES
SEMINARI SHKENCOR “ BIBLA
SHQIP DHE TRADITA”
TIRANE – ALBANIA 24.05.2004
Zef Chiaramonte (Italia)
Gli Albanesi d’Italia e la traduzione della Bibbia
Recentemente il
mensile Ngjallja, organo ufficiale
della Chiesa Ortodossa Autocefala d’Albania, con un intervento a firma del Dr.
Miltiadh Veveçka, contestava allo scrittore Ismail Kadare l’affermazione “që shqiptarët fillimisht ishin katolikë dhe
më vonë janë kthyer në orthodhoksë = che gli albanesi in origine erano
cattolici e più tardi sono diventati ortodossi “
L’autore
dell’articolo, nel ripercorrere le tappe fondamentali della storia cristiana
dell’Illirico, e al fine di rafforzare il suo concetto che dopo lo scisma del 1054 “gjithë popujt e Ballkanit,
mes tyre dhe shqiptarët, u gjenden krejtësisht kristianë-orthodhoksë = tutti i
popoli dei balcani e tra loro gli albanesi, si sono ritrovati del tutto
cristiani-ortodossi”, cita l’esempio degli arbëreshë, “të cilët ndonse jetojnë
prej mbi 500 vjet brenda trojeve krejtësisht katolikë italianë, ata edhe sot e
kësaj dite praktikojnë besimin kristian sipas traditës së hershme, në ritin
orthodhoks, fenë e parë dhe më të vjetrën monoteiste të shqiptarëve = i quali,
nonostante da oltre 500 anni vivano in territori del tutto cattolici italiani,
fino a oggi praticano la fede cristiana secondo l’antica tradizione, nel rito
ortodosso, fede primigenia e più antica
monoteista degli albanesi”.[1]
La
risposta data al Kadare - il quale probabilmente scambia la dipendenza
dell’Illirico da Roma, almeno sino alla crisi iconoclasta, come appartenenza a
un cattolicesimo ante litteram - segue la corrente di coloro che considerano ortodosso solo quanto è legato a
Bisanzio.
Come si sa la Chiesa cristiana si
autoconcepisce come una, santa, cattolica, apostolica.[2]
La parte maggioritaria di essa, uscita
vincitrice al Concilio di Calcedonia del 451[3],
cominciò a chiamare se stessa ortodossa
in antitesi alla minoranza giudicata eterodossa.
Per incomprensioni di carattere prevalentemente
filologico, le comunità anticalcedonesi
- che oggi si preferisce chiamare Antiche
Chiese Orientali - si staccarono
dal corpus dell’unica Chiesa. In questo senso le chiese calcedonesi, cioè Roma e Bisanzio, si ritrovarono
contemporaneamente cattoliche e
ortodosse allo stesso titolo.
Solo dopo lo scisma del 1054 la
terminologia cominciò a designare come ortodosse le comunità legate a
Bisanzio e come cattoliche quelle legate a Roma. Tuttavia non è venuta
mai meno la terminologia, più corretta, di Chiesa
Orientale e Chiesa Occidentale,
terminologia radicata nella divisione dell’Impero Romano.
All’interno di questo contesto storico
come si pongono ecclesiasticamente gli arbëreshë?
Fa piacere, intanto, notare che
l’organo ufficiale della Chiesa Ortodossa Autocefala d’Albania ne consideri
l’importante testimonianza storica e religiosa e non li qualifichi uniati[4].
Infatti gli arbëreshë, insieme agli
albanesi nei Balcani, sono eredi della predicazione di San Paolo agli illiri.
Insieme subirono la temperie di due acculturazioni del Cristianesimo: quella
romana in lingua latina e quella bizantina in lingua greca, non sempre in
successione cronologica, ma sicuramente a unica giurisdizione amministrativa
del Papa di Roma, sino al 732, attraverso il vicario papale di Tessalonica.
Dopo questa data, legato forzosamente l’Illirico a
Costantinopoli (come del resto la
Sicilia e la
Calabria , per punire il Papa di Roma di aver parteggiato per
gli iconòduli nella crisi iconoclasta) sul
territorio prevale la tradizione greca. Ma quella latina non venne mai
meno nel cosiddetto “triangolo cattolico albanese” (Shkodra, Drishti, Danja,
Shasi, Ulqini, Tivari) e nei monasteri benedettini. Anche i rapporti politici e culturali con Roma e
l’Occidente non si interruppero mai,
come testimonia la presenza di una Scuola
degli Albanesi a Venezia, l’attività di umanisti e artisti albanesi
nell’Italia Settentrionale, la storia dell’eroe nazionale Scanderbeg e la
creazione di collegi a Roma e a Venezia per la protezione della cultura e della
liturgia bizantina, dopo l’occupazione ottomana dei Balcani. Il Collegio Greco
di Roma, come si sa, ha giocato un ruolo fondamentale per gli arbëreshë.
Questi avvenimenti,
gravati dal peso dello scisma del 1054, ma allietati dall’unione di Firenze del
1439, si riflettono sulla composizione odierna degli arbëreshë.
Tutti sono in comunione con la Sede Apostolica
dell’antica Roma. Una parte segue la
tradizione latina, quasi sempre esito di lotte per l’assimilazione culturale e
religiosa: in alcune di queste comunità si conserva l’albanofonia, in altre,
insieme alla tradizione bizantina originaria, è scomparsa anche la lingua
albanese.
Presso gli arbëreshë di tradizione orientale, raggruppati
nelle due eparchie di Lungro in Calabria e di Piana degli Albanesi in Sicilia,
oltre che una migliore conservazione della lingua, si riscontra anche una
maggiore autocoscienza etnica.
Di fatto la tradizione orientale,
costantemente tutelata dalla S. Sede contro gli abusi dei vescovi e dei baroni
locali, ha costituito il primo aspetto della diversità conservativa degli
arbëreshë, oltre alla lingua e alla tradizione popolare sia materiale che
immateriale.
Quasi sempre al clero si devono la cura e l’uso colto della lingua.
Uno
di questi usi è costituito dalle canzoni sacre paraliturgiche raccolte o create
dal Figlia[5] e
conservate nel Codice di Chieuti.
Creatori e raccoglitori di canzoni e poesie sacre in albanese si sono
susseguiti sino ad oggi, permettendo agli arbëreshë di pregare “t’ën’Zonë po me gluhën çë na dha = nostro
Signore con la lingua che ci ha dato”[6].
Tuttavia, tanto i canti quanto il più
antico catechismo in albanese, quello del Matranga[7], al
di là del carattere pastorale, non si caricavano anche dello sforzo di
alfabetizzare il popolo arbëresh, come fece la traduzione della Bibbia per i
protestanti.
Come rileva Giuseppe Di Fazio nella
prefazione alla Dottrina Cristiana di
Antonio Diliberto, “ancora nel XVIII secolo il catechismo non era un testo da
leggere, ma da ascoltare e memorizzare, perciò esso - come i canti arbëreshë
(n.d.a.) - poteva convivere con l’analfabetismo"[8]. Analfabetismo doppio, peraltro, sia albanese
che italiano, perché la scuola per tutti, in italiano, arrivò dopo l’unità
d’Italia e stentò ancora a lungo ad affermarsi. Perciò “la catechesi avveniva
esclusivamente per via orale[9],
nella lingua parlata dal popolo: siciliano o calabrese tutt’intorno alle isole
arbëreshe, dove i buoni papas
coltivavano la fede dei padri usando la
lingua avita. Solo l’uso scritto e letto dell’arbërishtja avrebbe potuto
costituire una reale alternativa al greco della liturgia e soprattutto delle
pericopi dell’Antico e del Nuovo Testamento in essa inserite. Ma ciò forse non
è stato percepito, sino a tardi, come una esigenza. Un mondo pervaso dal senso
religioso e dal carattere dell’esule, che tende a nulla mutare rispetto al
tempo del distacco dalla madrepatria, assunto come mito, non poneva istanze.
Quando, nonostante il perdurante
analfabetismo, o proprio a causa di esso, gli spiriti più illuminati del clero
arbëresh tentarono la via della traduzione in albanese dei testi biblici,
rimasero ligi a un’ antica quanto immotivata concezione circa le cosiddette lingue liturgiche[10], e ritennero
intangibile l’uso del greco nella liturgia sino alla riforma del Concilio
Vaticano II.
In realtà si trattò di un modo
elegante di distinguersi dai vicini che usavano il latino. Le lingue usate in
chiesa, perciò, più che i contenuti dell’una o dell’altra liturgia, per altro
poco comprese sia dagli uni che dagli altri, costituirono spesso il confine tra
l’essere arbëresh o litì.
Il passato vive nel presente e spesso
ne impedisce il naturale progresso. Così, per lungo tempo, sia in Albania che
tra gli arbëreshë, l’uso dell’albanese nella liturgia orientale non andò oltre
la pericope evangelica e l’inno pasquale attestati dal manoscritto della
Biblioteca Ambrosiana[11], che
Nilo Borgia ascrive al sec. XIV[12].
Nel sec. XIX Giuseppe Camarda[13] in
Sicilia e Vincenzo Dorsa[14] in
Calabria traducono nei rispettivi dialetti il Vangelo di S. Matteo, poco
prima che nei Balcani operasse il Kristoforidhi[15].
Fjala e t’yn
Zoti di Mons. Paolo Schirò[16], tra
il 1912 e 1915, inizia la traduzione, per la declamazione nella liturgia
domenicale, dei passi evangelici.
L’Evangeliario giornaliero sarà invece condotto a
termine dall’archimandrita papa Gjergji Schirò. Completato e pubblicato in
ciclostile nel 1963, insieme all’Epistolario e a altre traduzioni di papa
Giergji, costituisce il corpus delle
letture bibliche arbërisht in uso nella Eparchia di Piana degli Albanesi.
L’Eparchia di Lungro, pervenuta più tardi all’uso
nella liturgia di testi biblici in albanese, possiede traduzioni più curate,
frutto di una commissione ad hoc che risente positivamente della presenza dei
papas Emanuele Giordano e Lorenzo Forestieri. Qui è in uso l’alfabeto di
Monastir e si applicano, in quanto
compatibili, le regole ortografiche della lingua unificata.
L’Eparchia di Piana, più arroccata nel particolarismo
locale (e personale !), non ha adottato il testo ufficiale della Messa - Liturgjia Hyjnore e Atit tonë ndër Shejtrat Joan Hrisostomit – frutto di
una commissione intereparchiale, pubblicato a Roma nel 1967 e inaugurato in
occasione del 5° centenario della morte di Scanderbeg, oscillando tra la
traduzione di Mons. Paolo Schirò[17] e
altre di scarso valore linguistico.
Davanti a uno scenario di così poca intesa circa le
traduzioni in albanese da usare nelle celebrazioni liturgiche, derivante
peraltro dall’inesistenza di una koinè arbëreshe, appare in tutta la sua grandezza
e utilità la traduzione integrale della Bibbia di Mons. Simon Filipaj.
La scelta della lingua letteraria unificata, che ha
comportato tanto travaglio interiore al Traduttore, come egli stesso confessa
nell’introduzione all’opera, ha il pregio di accorciare le distanze tra lo
shqip e l’arbërishtja.
Tale elemento, non secondario, ho tenuto a
sottolineare allo stesso Mons. Filipaj nell’incontro avuto a Roma pochi mesi
prima della sua morte, a conforto della bontà della sua scelta anche per quanto
riguarda gli arbëreshë.
Gli arbëreshë vivono oggi un momento del tutto
particolare: alfabetizzati in massa dalla scuola e dai media italiani, sono
anche direttamente investiti dalla legge di
salvaguardia delle minoranze linguistiche in Italia[18].
Ci auguriamo che gli
insegnanti cui è affidata l’educazione linguistica albanese non si limitino al
solo recupero della parlata locale ma sappiano aprirsi alla lingua d’oltre mare
che ha ormai gli strumenti, la dignità, gli standard e l’agilità di una lingua
culta moderna.
In tal senso una
maggiore assistenza da parte delle istituzioni accademico-universitarie della
Repubblica d’ Albania è richiesta e benvenuta.
Anche un maggiore scambio fraterno tra la Chiesa Ortodossa
Autocefala d’Albania e le eparchie arbëreshe d’Italia sarebbe auspicabile.
Dalla Chiesa Arbëreshe, costante animatrice della fede
e della cultura dei padri, convocata in Sinodo Intereparchiale a Grottaferrata
il prossimo ottobre, ci si attendono anche
opzioni linguistiche non in contraddizione con la storia. Tra queste, la
debita considerazione nei confronti dell’unico testo integrale della Bibbia in
lingua albanese, quello di Filipaj, come già avvenne, a suo tempo, per il testo
di Fan Noli relativamente alla Divina Liturgia.
Permettetemi,
infine, di formulare il desiderio che, partendo dalla traduzione integrale
della Bibbia di Mons. Filipaj, si pervenga quanto prima a un testo concordato
per tutti i cristiani di lingua albanese, senza escludere tra questi gli
arbëreshë.
NOTA: il
testo, in albanese, è pubblicato in: Instituti i Gjuhësisë dhe i Letërsisë, Bibla shqip dhe Tradita, Tiranë: Toena,
2004
[1] Le
citazioni sono tratte da Ngjallja, febbraio 2004, p. 9.
[2]
Cfr.il Credo sia nella Chiesa Ortodossa che nella Chiesa Cattolica.
[3] Cfr. Denzinger-Schonmetzer, Enchiridion
symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, editio
XXXIV, 1967, p. 106-109 (ann. 451: Cc. Calcedonense: Symbolum; actio V.
22 oct. 451).
[4] Non
si ha ragione di attribuire agli arbëreshë questa qualifica, perché essi sono
testimoni, senza interruzione, della tradizione della Chiesa Orientale che li
caratterizza sin dai primi secoli del Cristianesimo. D’ altra parte, la
comunione degli arbëreshë con Roma non è il risultato di una negoziazione
politica casuale, ma è la prosecuzione, in terra italiana, di una linea che
origina dall’antica Chiesa Illirica per confluire nell’Unione del Concilio di
Firenze. A giudicare, poi, dalle condizioni storiche, senza Roma oggi non
avremmo una Chiesa Arbëreshe.
[6] Verso adattato dal canto
tradizionale siculo albanese O Mburonja
e Shqipërisë = O Scudo dell’Albania.
[7] E Mbsuame e Krështerë
bërë për të urtënë Atë Ladesmë shoqëriet Iesusit e prierrë lëtireiet mbë gluhë
të arbëreshie për Lekë Matrëngnë i mbsuam i Kulexhit grek të Romësë, Roma:
Facciotto, 1592. Cfr: Marco La Piana , Il Catechismo albanese di Luca Matranga
(1592), in <Roma e l’Oriente>, n.18, Roma,1912; Justin Rrota, Shkrimtari ma i vjetër i
italo-shqiptarvet D. Lukë Matranga, Shkodër, 1931; Fadil Sulejmani, E Mbësuame e Krështerë e
Lekë Matrëngës, Prishtinë: Instituti Albanologjik i Prishtinës, 1979.
8 Antonino Diliberto, Dottrina Cristiana, a cura di Saverio Ferina. Palermo: Provincia di
Palermo; Archivio storico dell’Arcidiocesi di Monreale, 2004, p.13.
9Ibidem,
p.13, in nota di F. Lo Piparo. Di diverso avviso è Matteo Mandalà per Piana
degli Albanesi, dove il Catechismo
del Matranga sarebbe servito anche da testo di lettura (cfr.Luca Matranga, E mbsuame e krështerë, a cura di Matteo
Mandalà. Caltanissetta: Sciascia, 2004). Molti indizi, però, come la nessuna
testimonianza circa il suo uso nelle altre colonie arbëreshe e la perdita della
memoria stessa di un testo così importante, ci induce a ritenere che il testo
non sia stato bene accolto dal clero, in quanto non rispecchiante la parlata
toska della popolazione.
[11] Biblioteca Ambrosiana,
codex 133. F .
63; Martini-Bassi, Catalogus codicum graecorum.
[12] Don Nilo Borgia, Pericope
evangelica in lingua albanese del sec. XIV da un manoscritto greco della
Biblioteca Ambrosiana, Grottaferrata, 1930.
[13] L’Evangelo di San
Matteo tradotto dal testo greco nel dialetto albanese di Piana dei Greci in
Sicilia…, Londra, 1868.
[14].Il Vangelo di San
Matteo tradotto dal testo greco nel dialetto calabro-albanese di Frascineto,
Londra, 1896
[15] Dhiata e Re (in ghego), Costantinopoli, 1872; idem, Dhiata
e Re (in tosco), Costantinopoli, 1879.
[16](1866 – 1941), ritrovò il Meshari
di Gjon Buzuku e ne fu il primo studioso (cfr. Faik Konica, in Dielli,
anno III, n. 51, Boston, 18.03.1910); concluse
la serie dei ”Vescovi Ordinanti per gli albanesi di Sicilia” e fu
Rettore del Seminario Italo-Albanese di Palermo.
[17]Mesha e Shën Jan Gojartit përkthyer shqip nga emz. Pal
Schiroi botuar me kujdesin e Prof. Zef
Schiroit = Liturgia di S. Giovanni Crisostomo tradotta in albanese da
Mons. Paolo Schirò, a cura del Prof.
Zef Schirò, Palermo, 1964.
[18] L. 15.12.1999, n. 482.
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