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lunedì 3 settembre 2012

Mafia. E' ridicolo pensare che uomini rozzi come Toto Riina, Bernardo Provenzano, siano a capo di una multinazionale

"Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". Così qualcuno scrisse in quella sera del tre settembre di trent'anni fà su un lenzuolo posato sul suolo ancora bagnato di sangue, sul suolo dove a colpi di di kalashnikov, insieme alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro e all'agente di scorta Domenico Russo, fu assassinato il generale dell'Arma dei Carabinieri e prefetto di Palermo, Carlo Alberto Dalla Chiesa.
L'agguato scattò in Via Isidoro Carini, mentre Dalla Chiesa, appena uscito dalla sede prefettizia di via Cavour,  in auto insieme alla moglie stava recandosi in direzione di Mondello. Sotto il tiro incrociato degli spari finì pure l'agente di scorta che seguiva a breve distanza la macchina del prefetto.
Dalla Chiesa era stato impegnato negli anni settanta nel nord del paese a combattere il terrorismo delle 'brigate rosse' ed era stato inviato nel maggio 1982 a Palermo  per combattere un'altra piaga della società italiana (non solo siciliana), la mafia. Fu un incarico di prestigio che però divenne la sua condanna a morte.
Dalla Chiesa, che in Sicilia era stato nell'immediato dopoguerra ed aveva seguito le indagini dell'assassinio, a Corleone, del sindacalista e segretario della sezione socialista, Placido Rizzotto, si proposee inizialmente di fare chiarezza fra il mondo imprenditoriale palermitano e la mafia e pertanto chiese al Governo ampi, ampissimi poteri nelle intenzioni di poter sbrogliare l'aggrovigliata matassa.
Da Roma, il ministro democristiano Rognoni non condivise che ad un prefetto venissero riconosciuti poteri così rilevanti ed capitò, entro i cento giorni di permanenza del generale a Palermo, infatti che quei poteri -che gli erano stati promessi prima di accettare l'incarico-  non arrivarono mai.
Nonostante il generale si sia ritrovato isolato e con le mani legate, in cento giorni riuscì a portare a termine brillanti operazioni che portarono all'arresto di numerosi boss (di quelli rozzi), allo smantellamento di una raffineria di eroina nonché alla stesura di una vera e propria "mappa della nuova mafia" con particolare attenzione ai rapporti che legavano Cosa nostra e la politica isolana.
Per l'omicidio del Generale Dalla Chiesa, della moglie e dell'agente di scorta, sono stati condannati all'ergastolo come mandanti i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci; mentre esecutori materiali, in primo grado, sono stati condannati Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci.
Non vi è chi non intuisca che ben altri siano stati i mandanti, quelli veri; si tratta di gente che manovra in politica, opera nella finanza, che detiene più poteri di cento prefetti messi insieme. Tutti in Sicilia intuiamo ciò, nessuno di noi è in condizione di dimostrare ciò.
E' proprio questo il mistero siciliano. Intuire, capire, rendersi consapevole, ma trovarsi solo ed incapace di indicare i percorsi del vivere in Sicilia.
Tanta gente da noi viene additata di essere "pazza".
Durante i funerali, nella Chiesa di San Domenico, migliaia di palermitani fischiarono i politicanti e spesso riuscirono a non farli entrare in Chiesa. Unico ad essere risparmiato dalla contestazione e nei confronti del quale la gente fece ala e indirizzò applausi di stima fu il Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
 Dell'omelia del cardinale Pappalardo , nella giornata dei funerali, sono rimaste nella memoria della gente le parole tratte da un passo di Tito Livio: "Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto, ma Palermo.
Povera la nostra Palermo".

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