La Sicilia all’inizio dell’età moderna (che convenzionalmente si fa decorrere dalla scoperta dell’America) ha l’esigenza di dover sopperire alla scarsa manodopera.
Gli espedienti che i baroni usano per attirare all’interno dell’isola gente disponibile a dissodare terreni consistono in relativamente vistosi incentivi: la cancellazione dei debiti pregressi ed alcuni vantaggi concessori.
In genere, è questo il periodo in cui i coloni sottoscrivono i «capitoli di fondazione», veri patti agrari che fissano diritti e doveri: devono versare un censo annuo, sono obbligati a lavorare le terre del barone. Ma in cambio avranno un lotto edificabile e qualche volta un piccolo terreno in enfiteusi, dove impiantare un orto ed in taluni casi una vigna.
Nelle colonie greco-albanesi, tutte in provincia di Palermo - da Piana degli Albanesi a Contessa Entellina, da Palazzo Adriano a Mezzojuso - gli abitanti si impegnano a costruirsi da sé una casa in muratura entro tre anni; ma la varietà delle situazioni fra l’un centro e l’altro suggerisce proposte diverse, che riflettono i diversi rapporti di forza: i coloni generalmente vengono attirati su siti già abbandonati da altri, e il barone concede quello che non può negare. Nessuna enfasi quindi sulla bontà baronale o l’accoglienza concessa agli “strenui difensori della fede”. Fede che comunque i coloni sapranno difendere nei nuovi contesti.
Le nuove città presentano una grande varietà di soluzioni urbanistiche, derivanti da un territorio poco uniforme. Il disegno è prevalentemente imperniato su una scacchiera disegnata attorno alla piazza centrale e agli edifici (magazzini, stall e depositi) baronali.
Solo raramente si ha notizia di interventi esterni, come è avvenuto a Paceco: dove, nel 1607, Placido Fardella chiama un architetto spagnolo a disegnare l'impianto urbano.
Solo raramente si ha notizia di interventi esterni, come è avvenuto a Paceco: dove, nel 1607, Placido Fardella chiama un architetto spagnolo a disegnare l'impianto urbano.
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